Di ricordi e fantasia
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Info su questo ebook
Una disparità di ruoli che ribalta secoli storia e che non mancherà di creare situazioni anche divertenti, aneddoti in cui il lettore potrà rivedersi con un occhio più indulgente e perfino canzonatorio, per riuscire a fare pace con le proprie inadeguatezze.
Una narrazione che parte dalla punta più estrema del paese, da un villaggio di pescatori che oggi non esiste più, eppure riesce a parlare al cuore di tutti gli uomini incastrati "nella farsa di tutti i giorni, dal lavoro ai saluti, dal mangiare all'anestesia del riposo notturno. E' un fluire inaspettato e inarrestabile verso l'imponderabile", allora perché non provare a farsi beffe del destino?
Forza: "Solo per un momento, una pantomima con quella zingara divinatrice. E poi, che saranno mai due euro?"
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Anteprima del libro
Di ricordi e fantasia - Corrado "Iano" Campisi
Campisi
La stazione
L’ho sognata, in questi giorni, più d’una volta.
Ieri sera ci son tornato, ho parcheggiato e son rimasto chiuso in macchina nel piazzale antistante. L’osservavo, quasi rapito e trasportato indietro nel tempo. Guardavo la facciata, appena rifatta e già deturpata.
E mi hanno assalito i ricordi, io che non ricordo più niente o quasi. Di quel luogo, che adesso mi appariva desolato, rievocavo la sua vitalità, quella di un tempo lontano, eppure trascorso da poco.
La stazione ferroviaria del mio paese si trova in fondo al corso principale, una lunga lama d’asfalto che trancia il paese dal mare all’estrema periferia opposta. Il corso V. Emanuele come metafora di un lungo percorso che trascina il respiro del mare fin lassù, in alto, alla stazione. Ed è ancora metafora quell’abbraccio che l’edificio riserva alla strada, che sembra poggiarsi con delicatezza sul suo grembo.
La stazione una volta accoglieva i tanti lavoratori strappati alla campagna da un’illusoria fortuna e consegnati all’industria, che esplodeva in tutta la sua meccanica vitalità, sbuffando e interrando veleni di ogni sorta. Sui volti tesi e segnati dalle rughe del lavoro dei campi, emergeva la felicità del posto sicuro, ignari della malasorte che li trasportava a Priolo, al nascente polo industriale che presto sarebbe diventato triangolo della morte
, rapace di vite umane, ammorbate dai tumori e dalle malformazioni genetiche.
E riceveva anche tanti studenti, come me, che le scuole superiori richiamavano nella vicina cittadina aretusea. Andata e ritorno. Un ciclo continuo, un diurno partire e tornare. Mi rivedo, assonnato, percorrere a passo lesto la strada, di primo mattino, i libri sottobraccio, stretti da un laccio di caucciù (non c’erano ancora gli zaini), da casa, lontana un miglio, verso la stazione per non perdere il treno dei pendolari, quello delle sei e venti. Si partiva presto, non c’era un altro mezzo utile dopo, si rischiava di perdere le lezioni. La campanella del treno in arrivo, e quella della scuola: due suoni simili che scandivano l’inizio della giornata.
E poi il ritorno. Già, il ritorno, la corsa sfrenata all’uscita del vecchio istituto E. Fermi
per le stradine scorciatoia a raggiungere la grande stazione
siracusana, oppure, quando si era in ritardo, l’avventuroso attraversamento dei binari di corso Gelone, evitando di cadere nelle grinfie della polizia ferroviaria... studenti ladri del tempo, studenti d’altri tempi.
Oggi la stazione sembra essere morta. Le braccia di quell’edificio non ti invitano più a salire sul treno, a viaggiare col pachiderma meccanico che stride sui binari. Non ci sono più studenti che partono e ritornano, né lavoratori che si recano alla zona industriale, in lento declino. La gente preferisce spostarsi in macchina, e pure le merci viaggiano su trasporto gommato.
Una vecchia, imponente locomotiva a vapore, col suo comignolo che non emette più sonori sbuffi di fumo grigio, giace seminascosta su un binario abbandonato.
Il sistema dei trasporti ferroviari locali, quasi dismesso, è stato meccanizzato per renderlo più sicuro. Gli scambi dei binari e i passaggi a livello sono automatizzati e centralizzati. Non c’è più bisogno di un capostazione, considerato anche il traffico notevolmente diminuito. Ma io guardo con un certo rimpianto l’appartamento chiuso, un tempo a lui riservato, e lo rivedo mentre, impugnata la paletta e indossato il cappello, fischia l’ordine di partenza al conduttore del treno.
Dal piazzale della stazione si dipartono, ai lati del corso, due giardini pubblici, la villa nuova
e la villa vecchia
, come ancora oggi vengono intesi. Anche la villa nuova
muore un po’ con la stazione. Quella che un tempo era un profluvio di essenze floreali, un debordante contenitore di rampicanti, felci, ordinati cespugli e alberi di varia specie, tenuti in perfetto ordine dall’ultimo giardiniere comunale (scomparsa anche questa figura), oggi si spegne nell’incuria e nell’abbandono e si rassegna a invecchiare e perire come la dirimpettaia villa vecchia
, dedicata ai martiri delle insensate guerre mondiali. Siamo alla fine dell’antitesi delle due ville che, simbolicamente, rappresentavano la vita e la morte. Oggi è solo una dolce morte che le accomuna e prende il sopravvento, l’appassimento, l’abbandono.
È scomparso il fascino del treno. Quel treno che potevamo prendere per un lungo e avventuroso viaggio. Quel treno che riuscivamo a prendere all’ultimo minuto, o quello che ci sfuggiva per un nonnulla.
Rimane in corsa il treno della vita, che non si ferma mai, e che non sappiamo dove ci condurrà.
È un viaggio che affrontiamo con la mente, e con il nostro bagaglio di esperienze, con i propositi, gli imprevisti, le incertezze e