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La ballata della regina senza testa
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La ballata della regina senza testa
E-book270 pagine4 ore

La ballata della regina senza testa

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Info su questo ebook

In una notte di tempesta nasce Teodora, unica figlia di re Carlo, erede al trono della mitica Zarfrigia. Non solo è una donna, ma per giunta è – letteralmente – priva di testa. Questa sua mancanza diventa l’inizio di un barocco e manierato carnevale in cui la protagonista fa implodere un regno, rifiuta la mano del pretendente Belisario e fugge alla ricerca di Bernardo, la testa senza corpo, nella terribile Foresta degli Incubi, luogo in cui la notte dura un mese. L'accompagnano nel viaggio un cavaliere affetto da amnesia e attacchi di panico, un giullare alla ricerca di passato e riscatto, un contadino ammattito perso nel suo delirante sogno, due nutrici represse e depresse e un frate mezzo cieco e libertino.
Inseguiti dagli assassini al soldo di Belisario in cerca di vendetta, i personaggi incontreranno le loro paure più profonde e i desideri più nascosti, al ritmo di una violenta ballata ironica, corrosa di sogni e malinconia.
 
LinguaItaliano
EditoreCondaghes
Data di uscita12 lug 2017
ISBN9788873569213
La ballata della regina senza testa

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    La ballata della regina senza testa - Filippo Pace

    Filippo Pace

    La ballata della

    regina senza testa

    Romanzo

    ISBN 978-88-7356-921-3

    Condaghes

    Indice

    Dedica

    1. Il mio Ludovico

    2. In nome della Scienza e della Ragione

    3. Il miracolo

    4. L'uva buona è in Zarfrigia

    5. Belisario

    6. Il pavone innamorato

    7. Bernardo, la testa senza corpo

    8. Per lui sarebbe rimasta per sempre bambina

    9. La fuga

    10. La Foresta degli Incubi

    11. Il cavaliere senza ricordi

    12. Gli Ipnofagi

    13. Una notte d'estate che sembrava non dovesse finire mai

    14. Sento solo il tuo profumo

    15. Marcella

    16. La locanda

    17. Ciò che non esisterà mai

    18. Una notte è una vita

    19. Fiorina

    20. Quel bambino con il flauto...

    21. La donna più bella del mondo

    22. Tutto qui?

    23. Il Lago dei Silenzi

    24. Le lacrime della luna

    25. La Vallata della Saggezza

    26. I Nulloisti

    27. Al termine della notte

    28. Quel che rimane della Zarfrigia

    29. La Terra della prima volta

    L'Autore

    La collana Narrativa tascabile

    Colophon

    a Sofia e a Marion

    I

    Il mio Ludovico!

    Il buio. La luce. Il silenzio. Il boato.

    – Maestà! Maestà!

    – Che succede? Chi mi cerca?

    La luce. Il buio. Il boato. La pioggia.

    – Sono Germonda, Maestà, vengo a informarvi della lieta novella!

    – È maschio?

    – Non so, sono subito corsa da voi appena ho sentito ridere.

    – Ridere?

    – Ehm… Sì, Maestà, proprio così. Non ha pianto come tutti i bambini, ha riso. Un riso leggero leggero, così dolce, così amorevole.

    – È un tratto tipico di noi Testoringi. Al momento della nascita noi ridiamo alla vita. Il nostro sangue non conosce la paura e la viltà.

    – Certo, Maestà. Ma, vi prego, affrettiamoci. Il parto è stato difficile, vostra moglie la regina ha sofferto molto, sia pur senza lasciarsi sfuggire un solo lamento.

    – Noi Testoringi non temiamo la morte. Manteniamo la calma in ogni frangente, sappiamo vivere la gioia e la sofferenza in maniera contenuta e intima.

    – Affrettiamoci, Maestà, la regina potrebbe…

    – Andiamo, dunque.

    La pioggia. La luce. Il boato. La notte.

    – Germonda! Dov’eri finita? Hai avvertito sua Maestà?

    – Certo, Scribonia. Il re Carlo è qui con me.

    – Mio figlio! Voglio vedere mio figlio!

    – Maestà, purtroppo devo annunciarvi che la regina è spirata in silenzio pochi secondi prima del vostro arrivo e ora gli angeli la guidano in Paradiso.

    – Voglio vedere mio figlio! Voglio abbracciare il mio Ludovico!

    – Perdonate, Maestà, ma devo darvi un’altra notizia dolorosa.

    – Che vai dicendo, femmina dannata? Anche Ludovico è morto? Non oso crederci!

    – No, Maestà, no. Ludovico non è morto.

    – Bene. Ah, eccolo avvolto nei suoi panni regali, vicino alla mia gloriosa moglie. Voglio vedere il suo volto!

    – Tenete, Maestà. Volevo dirvi che Ludovico non è morto… Non è mai nato. Si tratta di una femmina, Maestà, non di un maschio.

    – Maledizione! Com’è possibile che sia potuto avvenire ciò?

    – E poi c’è ancora un’altra cosa…

    – Che?

    – Guardate voi stesso…

    – Quale altra disgrazia si abbatte su di me?

    – Vostra figlia ha una particolarità…

    – Una particolarità?

    – È senza testa!

    La notte. La pioggia. L’urlo. Il tonfo.

    II

    In nome della Scienza e della Ragione

    Era un regno immenso, la Zarfrigia, fra i più ricchi e potenti che s’affacciarono nella seconda metà di quella lunga età di mezzo che gli uomini rinchiudono, per comodità e convenzione, fra la caduta di Roma e la scoperta dell’America.

    Quando in una notte di tempesta nacque la figlia di re Carlo, la dinastia dei Testoringi regnava ormai da un secolo senza nessuna opposizione interna e in cordiali rapporti con i propri vicini, in particolare con la Turvenia. La casa regnante, inoltre, si fregiava dell’onore di aver intrecciato con la Chiesa ottimi rapporti, vivificati da stima reciproca e vicendevole collaborazione. Il clero, infatti, aveva da sempre un ruolo centrale in Zarfrigia e prosperava nel godere dei privilegi che gli venivano concessi, occupandosi di rafforzare, attraverso la sua capillare diffusione in tutto il territorio, il consenso dei sudditi nei confronti dei sovrani Testoringi.

    Quello era un luogo felice in cui le terre, docili al lavoro dei contadini, offrivano generose i loro frutti agli uomini, regalando alberi robusti e vegetazione rigogliosa, sostentamento e rifugio per tutte le specie di animali che in quei luoghi dimoravano. Anche il freddo e il caldo che ogni tanto dal cielo precipitavano su di essa, a volte per caso, altre solo per gioco, non erano mai eccessivi. Forse solo l’estate, nella sua fase centrale, si presentava un po’ troppo invadente ma, poiché quei capricci trovavano in fretta la loro risoluzione, nessuno spendeva troppe energie nel lamentarsi. Vivere in Zarfrigia, in quell’epoca, respirare la sua aria e inseguire la corsa dei suoi giorni, era un po’ come abitare un paradiso in cui non esisteva la sofferenza, un esperire in anticipo le beatitudini che il buon Dio, a piene mani, avrebbe elargito negli sconfinati giardini celesti.

    Quale vigile vedetta svettava con fierezza, in quei luoghi mitici attraversati da continue scosse di piaceri e magie, il palazzo regale dei Testoringi, fra tutti quelli esistenti al mondo il più invidiato — quanto lusso! quanto amore per l’arte! —, nell’elegante frammistione di sfarzosità garbata e di virile austerità che lo connotava

    Fu solo con l’avvento dell’impavido Carlo che la corte e il regno, fino ad allora immersi nella serenità più appagante, conobbero le prime ombre dell’incertezza per l’accavallarsi di una serie di circostanze sfortunate.

    Sin dal primo istante in cui divenne sovrano, infatti, non ebbe un attimo di pace e cominciò a porsi seriamente il problema della discendenza. Un pensiero fisso, costante, dolorosissimo come un’ulcera che non conceda mai tregua. Figlio unico, sin da bambino suo padre gli aveva instillato, giorno dopo giorno, la responsabilità di essere l’ultimo di una gloriosa stirpe, ed era cresciuto sovrastato dall’imperativo categorico di avere tanti figli maschi per scacciare a tutti i costi il fantasma del trono vacante. A causa di tale eco che gli accompagnava i pensieri, re Carlo non abbassò mai la guardia e non osò mai recedere, portando strenuamente avanti la sua missione.

    – Mai deflettere! – questo ripeteva fra sé e sé ogni mattina sul balcone della sua camera da letto, mentre il sole resuscitava, omaggiandolo con il suo primo sfavillio.

    Nonostante l’intraprendenza, le tre mogli — con le quali Venere non era stata affatto parca nel concedere grazia e avvenenza — e le veglie innumerevoli, i figli non arrivarono. Fu con la quarta sposa, Grimilde, che Carlo, sebbene già avanti negli anni e rassegnato all’idea di non lasciare eredi al trono, conobbe la gioia di essere padre; soddisfazione, a dir la verità, del tutto particolare poiché, al posto dell’agognato Ludovico, nacque una bellissima bimba senza testa a cui fu dato il nome di Teodora. Il re non proferì parola per nove anni, portando per sempre sul corpo i segni di quella emozione: dopo la notte fatidica, infatti, la bocca si storse a tal modo da disegnare uno sghembo sorriso sul suo volto; il braccio sinistro cessò ogni sua funzione per giacere immobile, composto e fiero sul fianco, mentre la deambulazione fu resa possibile grazie all’ausilio di un magnifico bastone di ciliegio dal pomello d’oro, impreziosito da un intarsio che riproduceva lo stemma della stirpe dei Testoringi.

    Una gran copia di medici e dottori cominciò, subito dopo l’evento, ad affollare i corridoi del palazzo reale, sia per portare al sovrano le cure necessarie affinché fosse restituito alla sua abituale vigoria, sia per studiare il prodigio della neo­nata sprovvista di testa, che continuava a vivere mostrando una salute di ferro.

    La meraviglia contagiò tutto il microcosmo ruotante a corte e ognuno, dal consigliere del re fino all’ultimo dei servitori, non si lasciava sfuggire l’occasione di sbirciare nella stanza in cui Teodora veniva accudita da Scribonia e Germonda, le sue nutrici, e studiata da specialisti provenienti da ogni parte del mondo, che non perdevano occasione di ostentare la modestia che solo chi corteggia la Scienza può detenere.

    Si narrava che la bimba fosse di buona costituzione, recalcitrante al sonno e sempre affamata. Un coro di «Ohhh!» si levava alto ogni volta che lei, avvicinata al seno di una sua lontana zia, suggeva il latte necessario al suo nutrimento. Più che suggere, in realtà, sembrava lo assorbisse attraverso il contatto diretto che il suo corpo stabiliva con quello della parente. Quel monco esserino pareva avere ereditato da chissà chi una carica magnetica in grado di impadronirsi del latte.

    – Sì, tutto ciò si può definire come una sorta di processo assorbente – aveva dichiarato Geremia, il medico più noto del suo tempo, pizzicandosi il mento e passeggiando nervosamente avanti e indietro di fronte all’attonito sovrano.

    – Tale fenomeno, Maestà, presto o tardi le verrà svelato dai miei studi – aveva infine garantito mentre si congedava dal suo signore con un inchino, dopo avergli somministrato la teriaca, sebbene fosse intimamente convinto dell’inutilità di questa nel caso in questione.

    Geremia, quell’uomo barbuto dalle spalle larghe e la voce profonda, quel signore tanto a modo dalle pupille tinteggiate di verde, incominciò così la sua battaglia con Teodora e il suo mistero dopo che, a decine, i suoi colleghi non erano riusciti a trovare le cause di un simile prodigio, né a spiegare come la principessa riuscisse a sopravvivere.

    Non mostrò preoccupazione e senza perdersi in chiacchiere consultò centinaia di libri, scrisse decine di pagine e passò innumerevoli ore di fronte alla principessa studiandone i movimenti, interrogandosi su come riuscisse a respirare senza un naso e ad articolare quei curiosi strilletti senza possedere una bocca.

    Si poneva con dedizione al servizio del prossimo ed era animato da profondi slanci filantropici, fondamentali nel rafforzare le sue intenzioni di migliorare la specie umana, che favorirono non poco la sua amicizia con Scribonia e Germonda. Entrò in sintonia soprattutto con quest’ultima: ne prese a cuore il caso e, in un pomeriggio di sole, la rassicurò, le spiegò l’origine dei suoi mali, le garantì la sua protezione. Le sue mani non avevano un solo tremito, in quei momenti, e a Germonda, che si mordicchiava l’interno delle guance per sentirsi viva, pareva che i suoi gesti fossero connotati da una serenità superiore, che li consegnasse a una dimensione senza tempo. La nutrice di Teodora, allora poco più che ragazza, avvertiva in Geremia qualcosa di eterno, un calore che l’avrebbe forse salvata dal gelo che, da qualche tempo, la svuotava di ogni sentimento positivo.

    – Ne uscirete, ve lo prometto – aveva detto quell’uomo di scienza in un sorriso che si macchiava di fiducia e speranze. E poi via, subito a riprendere il caso della bambina senza testa, di corsa a trascrivere le domande alle quali avrebbe dovuto dare una risposta, non mancando di aggiornare costantemente il re convalescente.

    L’autunno arrivò e così pure l’inverno senza che uno solo degli interrogativi trovasse risposta. Al contrario, questi si moltiplicarono quando Teodora, in anticipo sui tempi, cominciò a camminare con una discreta coordinazione, non di molto inferiore a quella di tutti gli altri bambini. Certo, sbatteva, cadeva spesso, ma era capace di vedere.

    I dubbi di Geremia accrescevano di giorno in giorno in maniera così incontrollabile che il grande medico, senza accorgersene, si ritrovò insonne nelle notti zarfrigiane, ossessionato dallo spicchio di mela che, offerto a Teodora, spariva, improvvisamente ingoiato da una bocca invisibile. La lista dei quesiti si allungò sempre di più e spesso l’alba sorprendeva quel sapiente intento a scrivere frasi che terminavano con il solito sprezzante punto interrogativo. Ogni volta, nel rileggere quanto scritto, lo coglieva il disorientamento: l’unico rimedio era risciacquare il viso con l’acqua gelida.

    Una notte, proprio mentre cercava di non soccombere alla carica dell’agguerrito esercito di punti di domanda che gli si lanciava addosso, fu attirato dal frastuono provocato da due gatti, impegnati in una zuffa. Si levò dalla panca sulla quale era chino, corse per corridoi e scale e uscì con il fiatone nel piazzale della corte, trasformata per l’occasione in un’arena in cui due felini inferociti, gladiatori in lotta per la vita, si affrontavano senza esclusione di colpi.

    Rimase turbato dall’intensità del combattimento e pensò che quei due ammassi di pelo nero avessero in sé qualcosa di diabolico. Forse fu la stanchezza a giocargli quello scherzo triste o, chissà, quegli interrogativi insoluti che si riproducevano senza controllo. Digrignò i denti, voltò le spalle e si ritirò nella sua stanza, nel petto un grumo che sapeva d’errore.

    Scribonia e Germonda erano preoccupatissime per la salute del povero medico e per entrambe non esistevano dubbi: il suo caso non era da sottovalutare. Non dormiva, mangiava poco. Il rischio che potesse ammalarsi era fondato e così, in più di una circostanza, lo presero in disparte e, sottovoce, cercarono di dissuaderlo dal voler cercare di spiegare qualcosa di inspiegabile, ma quello, testardo com’era, non volle sentire ragioni. Al contrario, più i suoi colleghi rinunciavano perché il mistero si presentava irresolubile, più si convinceva che prima o poi avrebbe eluso qualsiasi ostacolo e svelato l’enigma.

    Non era presunzione né superbia la sua poiché, nonostante gli innumerevoli successi conseguiti nel corso degli anni, non si stimava superiore agli altri per ingegno o conoscenze, ma era animato da un’incrollabile fiducia nella scienza, che gli garantiva la certezza che non avrebbe potuto fallire.

    Non era, dunque, in se stesso che credeva, ma in qualcosa di infinitamente superiore che lo avrebbe guidato verso la vittoria, e si capisce quanto tali convinzioni non potessero essere scalfite dalle rimostranze che le sue due amiche avevano messo in gioco per salvarlo.

    Re Carlo assisteva rubizzo in volto ai resoconti che il medico gli propinava, e non tardò a nutrire una profonda avversione nei suoi confronti e a manifestarla fingendo di addormentarsi, per sedare quella parlantina portatrice di spericolate supposizioni non suffragate da un solo briciolo di verità.

    Geremia non si accorse mai di tale antipatia, al contrario riteneva l’atteggiamento del suo re degno di rispetto, sintomo di un disagio che si era manifestato con la sua paternità fuori dal comune. A causa di ciò decise perciò di farsi vedere sempre meno da sua Maestà, e sempre per brevissimo tempo, in modo da dedicarsi ancora di più alla missione che aveva da svolgere, sebbene ogni tanto la testa, forse a causa del mancato riposo, prendesse a dolergli in maniera insopportabile e un improvviso calore gli inondasse le tempie, come per uno scoppio di febbre. Germonda, una volta, si impensierì a tal punto da permettersi di poggiargli una mano sulla fronte.

    – È bollente! – la donna scosse il capo allarmata e si accostò al suo orecchio per dirgli che stava male, come se avvicinandosi avesse maggiori possibilità di far giungere il messaggio dritto dritto al cervello del suo interlocutore, ma quello, con due dita, le prese il polso e si liberò dalla molestia di una carezza incomprensibile e, con candore, la invitò a pensare alla sua salute poiché, da che mondo è mondo, è il dottore che si occupava del paziente e non il contrario. Le concesse un sorriso, le rammentò che equilibrio e razionalità da sempre avevano governato la sua esistenza.

    Ben presto, però, qualcosa in lui cambiò. Difficile spiegare in maniera chiara quanto seguì, ma il fatto è che cominciò a odiare i gatti, con un odio così prepotente che a tratti gli induriva i muscoli del volto e li deformava in minaccia.

    Doveva incutere timore quando, nelle notti negate al riposo, si aggirava iroso per i cortili del palazzo alla ricerca dei felini, convinto com’era che la presenza di quei quadrupedi, soprattutto se neri, fosse causa di influssi negativi sulla corte. Ognuno, per pudore, evitava di assistere alle esibizioni notturne del medico: non era un bello spettacolo vederlo armarsi di bastone, le gote illividite dal tremore dell’ira, e lanciarsi sui nemici blaterando formule che nessuno sarebbe mai riuscito a comprendere, picchiando forte sulle natiche e sul collo di quelle bestiacce portatrici di guai.

    – I gatti – affermava l’indomani mattina all’attonita Germonda – hanno avuto un ruolo primario in tutta questa vicenda.

    Bardato di razionalismo studiava l’approccio di Teodora agli oggetti e al cibo, non disdegnando di ricercare nelle feci della bimba indizi che potessero indirizzarlo verso la via della verità e sempre si meravigliava, poi, nel rinvenire le vestigia di quegli alimenti con i quali la sua paziente si era nutrita.

    Germonda scrutava gli occhi del medico e vi scorgeva, al fondo, nel verde che le apriva il cuore, un bisogno di ricondurre il caso sotto le consolatorie insegne della Ragione. E s’immalinconiva quando lo vedeva ostentare la sicurezza che ogni minuto di più andava a perdere, e si sentiva morire, ogni notte, quando i lamenti dei gatti che schizzavano al cielo provavano con quale furia quell’uomo di scienze e saperi si fosse abbattuto su di loro.

    – Vi prego, fermatevi – implorò una mattina, mentre il pallore del sole invernale sembrava inadatto a fugare i rimasugli della notte appena passata, e Geremia continuava ad armeggiare con le feci di Teodora, fra il puzzo che andava effondendosi inquieto per il palazzo e gli strilli della bambina.

    – Vi prego, smettete di costruire la verità scientifica.

    Geremia osservò Germonda di sbieco, uno sguardo simile a quello dei cani quando drizzano gli orecchi e muovono il capo di fronte a un suono che forse — chissà se è davvero così — sembra a loro strano, e le sorrise per tranquillizzarla, per dirle so quello che faccio e presto risolverò l’enigma.

    E di nuovo in quell’iride riluceva la fiducia di chi ha guarito uomini e donne nel nome della Scienza, ma era una luminescenza che impauriva la donna e la obbligava, nel chiuso delle sue solitudini, a spremere lacrime di veleno che asciugava con le ciocche dei capelli. Più il medico insisteva nelle sue analisi per cavare una diagnosi, più Germonda si riconosceva persa e violentata da un dolore straziante che, a sera, le discendeva nel seno per sciogliersi nel calore del pianto.

    Una volta lei gli sfiorò il petto, un torace ampio e forte, sorprendente per un uomo della medicina, e gli disse di andare via perché così si sarebbe rovinato la salute e il re non lo avrebbe ricompensato come avrebbe meritato perché provava irritazione nei suoi confronti, anche a causa di tutti i barattoli di escrementi fino ad allora collezionati. Geremia parlò con voce ferma, quella dei tempi migliori, nel momento della diagnosi, quando ognuno si sentiva rassicurato da quell’uomo buono e invincibile. Ammise che la donna non aveva tutti i torti, che forse era arrivato il momento di ammettere la sconfitta. Era ritornato a essere se stesso in quelle parole pronunciate mentre il sole ricamava sulle sue spalle un mantello dai colori dell’oro: fu per l’ultima volta l’uomo che sapeva trovare la soluzione migliore anche nel momento più disperato.

    Germonda corse da Scribonia a riferire la novità e si abbracciarono e cantarono e sognarono tutto ciò che poterono.

    L’indomani mattina, però, numerosi furono i gatti — e di ogni colore — stesi a terra esanimi nel piazzale.

    Due giorni dopo Teodora, pasciuta e vitale più del dovuto, cominciò a parlare e a chiamare vecchio il povero Geremia. Il medico aveva dato fondo a tutte le sue risorse, si sentì inseguito da una minaccia troppo grande, non resistette e, come se volesse liberarsi da se stesso, diede di matto strappandosi le vesti e correndo nudo per i corridoi del palazzo: urlava a squarciagola che il Diavolo stesso lo rincorreva alla testa di un esercito di gatti nerissimi e gonfi, vogliosi di cavargli gli occhi. Disperato e in lacrime, batté la sua fronte sulle pareti con tanta foga che i presenti, da un momento all’altro, si aspettavano di vedere la sua testa aprirsi in due come fosse un melone e, sebbene gridasse mille volte aiuto, ognuno fu mosso istintivamente a indietreggiare.

    Quando sembrò sul punto di stramazzare a terra, si voltò verso una cugina del re, la fissò, si scagliò su di lei, la rovesciò a terra e la prese selvaggiamente a morsi. I presenti non dimenticarono mai la donna con gli interni delle cosce segnati dalla dentatura del medico, e il dottore stesso su di lei, con tracce di carne arrossata fra i denti. Furono necessari otto uomini per fermare Geremia, che si dimenava come una lucertola alla quale era stata

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