Farfalle
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Una vicenda che il commissario ricostruirà abbracciando l’impossibile, muovendosi tra fatti che prendono l’avvio durante la Seconda Guerra Mondiale e si spostano dalle misteriose gallerie dell’Ospedale Civile fino al deserto del New Mexico, per poi tornare nella Città del sole, in un bunker dove si nascondono la genetista Elisa Mahler e suo figlio Joseph Zwilling. Per Solinas non esiste bene o male con cui schierarsi, le uniche ragioni che contano sono come sempre quelle uniche e mai scontate dei singoli individui.
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Anteprima del libro
Farfalle - Emanuele Cioglia
a mio padre Stefano
e alle perle imperfette come noi
e siccome si continua a morire,
anche a Tatiana e Patrizia,
persone che resuscito nei miei pensieri,
e al vivo e vegeto Guglielmo, lui sa perché...
«Potevo chiedervi come si chiama il vostro cane
Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero.»
Fabrizio De André, Amico Fragile
«Chi morì, tornar non può.»
Francesco Maria Piave, Macbeth (Verdi)
«Chi lo sa?»
Emanuele Cioglia
«Il mio canto ha degli alibi sinceri.»
Enzo Jannacci, Desolato
Emanuele Cioglia
Farfalle
Romanzo
ISBN 978-88-7356-769-1
Condaghes
Indice
Farfalle
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
XXXVII
XXXVIII
XXXIX
XL
XLI
XLII
XLIII
XLIV
XLV
XLVI
XLVII
XLVIII
XLIX
L
LI
LII
LIII
LIV
LV
LVI
LVII
LVIII
LIX
LX
LXI
LXII
LXIII
LXIV
LV
LXVI
LXVII
LXVIII
LXIX
LXX
LXXI
Ringraziamenti
Glossario
L'Autore
La collana Narrativa tascabile
Colophon
Farfalle
I
Due rosette e un cocoi ben cotto, due rosette e un cocoi ben cotto, due rosette e un cocoi ben cotto. Se lo ripeteva in continuazione Alice, scendendo verso il forno. Non doveva dimenticarlo, glielo aveva raccomandato la mamma: ben cotto, ben cotto il cocoi.
La bambina si strinse nello scialletto e rabbrividendo alzò lo sguardo al cielo, tra i palazzi. Terso, sgombro di nuvole, quand’era così si gelava.
Si vedeva già la fila per il pane, detestava le file. Molte signore puzzavano, d’aglio soprattutto, in bocca e sotto le ascelle. Ne erano impregnate, lo mettevano negli spaghetti, nelle lumache, nel polpo, su tutto. A pensarci bene anche il loro sudore puzzava d’aglio.
Alice rimase a distanza dall’ultima della fila, qualche passo, guardando però in cagnesco chiunque tentasse di sopravanzarla.
– Due rosette e un cocoi ben cotto – disse al panettiere quando arrivò il suo turno.
Uscita dalla bottega l’allarme ululò, sempre più forte. La bimba alzò la testa sulla feritoia di cielo, sembravano rondoni, ma molto più chiassosi: i bombardieri.
– Tutti alla cripta, Santa Restituta ci proteggerà!
La folla del pane si aprì a ventaglio, scappando, e poi si accalcò verso la cripta, scelta a rifugio antiaereo di fortuna. Alla bimba sembrava d’essere dentro un formicaio. – Santa Restituta proteggici tu! – invocò la voce più alta nel brusio generale. Una mano rugosa si poggiò sulla porticina della cripta, poi lo scoppio, che rese i corpi orizzontali e fermi. Nel groviglio umano delle vittime, s’iniziarono a sentire i lamenti dei feriti e i primi pianti di chi si disperava.
Ad Alice cadde sopra una signora puzzolente, ma oramai stavano in quella dimensione in cui gli odori non si percepiscono, non contano più niente...
Su in cielo alcuni videro gli sciami allontanarsi, altri non potevano più vedere quei bombi e quelle vespe d’acciaio che avevano cancellato vite e affetti.
II
– Prima le donne e i bambini! – aveva gridato qualcuno. E furono infatti loro i primi a essere soccorsi. Alice, in un cocciuto attaccamento alla vita, niente era più ingiusto della morte dei bambini, fu portata all’Ospedale Civile, dov’era nata, come se lì la si potesse guarire. Ma adesso, nella chiesetta del nosocomio, si tenevano i suoi funerali.
Maria guardò l’oculo della cappella, mischiando lacrime di luce a quelle di dolore. Scrutò il Cristo trionfante dietro l’altare, s’era preso Alice. Chissà se le avrebbe voluto bene. E chissà quante anime transitavano nella chiesetta dell’ospedale in quelle ore. Suo marito le sembrò ossidarsi a vista d’occhio, arrugginito come la vecchia àncora svettante come una regina tra le catene del porto. La montagnola di grovigli dove amava saltare la bambina sino a pochi giorni prima era diventata un rosario da sgranare, mastodontico, schiacciante…
Maria non riusciva più a stare lì, almeno per un attimo doveva staccare. Anche se era la madre, anche se doveva restarle accanto nell’ultimo saluto, doveva uscire nel corridoio, le servivano correnti d’aria, spifferi, qualcosa che si muovesse, qualcosa di vivo. Venne attratta dalla luce di una finestra, si vedeva il golfo. Sembravano impossibili le bombe in quel paradiso lontano all’orizzonte. Più vicino era brillio di cocci, vetri, ceramiche, e poi cornici, palazzi e case spianate, ossa, tutto uguale, raso al suolo dalle Fortezze Volanti. Dai bastioni della città scorse un esodo biblico, puntini neri e valigie di cartone, gli scampati che sfollavano.
Maria rientrò tra i banchi in prima fila, le lacrime si erano asciugate, ma aveva un dolore secco, pesante, che le stava già ostruendo il cuore.
Nei portici un barista sollevò la serranda, caparbio nei suoi gesti quotidiani, macinò il caffè e stappò una birra. Per sopravvivere alla guerra bisognava essere ostinati, per vincerla lo stesso, pensò. Strofinò le coppe d’acciaio impolverate; pistacchio, fragola e cioccolato, non se ne vendeva più una. Poco oltre l’entrata del caffè, uno spezzone si era piantato sulle aiuole, sembrava un monolite affilato, un coltello primitivo. Le tende parasole dei portici vibravano strappate come inutili vele, simili a quelle di vascelli fantasma.
Un ratto sbucò dall’ombra della bara bianca, quindi schizzò slittando sul pavimento cosmatesco e sparì dietro l’altare. Fu il primo a udire lo strillo meccanico. Subito dopo cessò. Black-out. I Lightning a doppia deriva ronzarono di nuovo, come vespe a due teste, spianavano una città già spianata, pungevano macerie e morti. I gabbiani passeggiavano sui tetti sventrati, contendendo carogne alle cornacchie. Loro, le mosche, le zanzare, i ratti e le blatte, stavano benone.
III
Un omino grondante sudore risalì lungo Sa murialla fiorita di capperi.
Settant’anni o giù di lì, mingherlino e pimpante, con un’insana pancetta e il viso rubicondo. Somigliava a Dustin Hoffman e lo chiamavano Il Laureato, perché trascorreva molto tempo nelle biblioteche. Viveva d’espedienti perlopiù illegali e di pensione di cittadinanza, che spendeva quasi tutta in affitto e viaggi a Londra, dove andava a trovare la sua amica inglese giunonica e a esercitare il suo inglese maccheronico. Si grattò sotto il collo leggermente raggrinzito, scoprendo la maglietta e una farfalla tatuata sulla spalla sinistra. Se l’era fatta incidere sulla pelle in carcere, sperando che potesse evadere almeno lei dalle bocche di lupo.
Nell’ultimo periodo faceva il fotografo, perché era riuscito a comprarsi una reflex truffando la finanziaria. Il suo nome era Damiano. Si nutriva soprattutto di muggini, regalatigli dai suoi amici pescatori, che arrostiva nel balcone.
Gli squillò il cellulare.
– Oooh Liberooooo, dimmiiiiituttoooo! – Il Laureato strascicava le vocali a causa di uno stato di sbronza cronica. Negli anni Settanta s’era iniettato di tutto nelle vene, ma non si ricordava affatto. Nella sua mente e nella sua memoria era pulito come un pannolino immacolato.
– Ciao Damiano, sei ancora fotografo?
– Come no?! Sto andando a caccia di fenicotteri con zia Canon. L’altro giorno un barracello me l’ha strappata di mano dicendomi che mi trovavo in un’area faunistica protetta, gli ho dato un colpo di teleobiettivo in testa. Mi voleva denunciare, ma poi siamo diventati amici su Facebook.
– Bazzichi ancora dalle parti dell’Ospedale Civile?
– Sempre! Adesso sono a Sa murialla, vicinissimo.
– Ma non stavi andando allo stagno a fotografare fenicotteri?
– Prima, ora no.
Solinas tacque, con Damiano non bisognava mai essere troppo precisi nelle coordinate spazio-temporali. In un certo senso lui viveva come se lo spazio-tempo non esistesse. In fondo era la dimostrazione vivente della teoria della relatività e uno spunto quantistico per chi avesse voluto osservarlo. Non era consapevole per esempio di essere un quasi anziano, per lui le giornate potevano durare tra le dodici e le trentasei ore, e poteva trovarsi al Poetto, allo stagno di Molentargius o appunto a Stampace, allo stesso tempo.
– Ti devo proporre un incarico.
– Non faccio la spia e sono figlio di Maria.
– Niente Madama, tranquillo. Ce l’hai WhatsApp?
– E certu, non sono mica un giurassico. Ma non rischio più per te, né per nessun altro. Se è per un lavoro di giardinaggio accetto.
– Ti ho detto fotografo! Comunque WhatsApp è protetto da crittografia. Più sicuro degli sms o delle mail. Zero rischi.
– Solinas, compenso?
– Cento euro. Ti sto mandando la foto di una mappa. Devi recarti nel luogo indicato per farmi qualche scatto.
– Duecento, sai, da quando non c’è più la lira...
– Ma se l’euro è entrato in vigore quasi vent’anni fa!
– Sì, ma c’è ancora grossa crisi qui da me.
– Ci penso, ti richiamo.
Solinas riattaccò, non poteva mantenerli tutti lui i derelitti della città. Riuscì a resistere trenta secondi.
– Pensatoci?
– Centottanta.
– Duecento.
– Accetto.
Solinas attaccò di nuovo, aveva fretta di mandargli la mappa.
Varcando le colonne doriche dell’ospedale, Damiano si sentì più 007 che Il Laureato. L’edificio aveva una geometria complessa, esagoni, ottagoni, non riusciva a capirlo. Tuttavia lo spaventava perché labirintica, tentacolare, esoterica. Dal basso pareva quasi piccolo, monumentale ma piccolo. Ma dai bastioni se ne vedeva tutta l’estensione. Occupava tutta la collina, sembrava il Pentagono. Nell’atrio coronato da enormi monofore l’agente soliniano notò subito, opalescenti nel controluce delle vetrate che davano sul cortile, le sculture dei benefattori dell’opera del San Giovanni di Dio, altrimenti detto Ospedale Civile. Le vetrate erano rinforzate da telai di ferro che striavano tutto d’ombre, le sculture parevano santi nella graticola, fantasmi. Terrorizzava soprattutto il fanciullo piangente ai piedi dell’architetto costruttore, bloccato per sempre nel marmo funebre. Damiano si toccò le palle dalle tasche dei jeans. Gli spifferi attraverso le vetrate erano sospiri di moribondi. Uscì dall’atrio, tornando al pronao, per calmarsi con una cicca raccattata sul marciapiede. Pensò di rinunciare, ma era in ritardo di tre mesi con l’affitto. La pensione di cittadinanza non gli bastava mai, forse perché era poca roba davvero, o magari perché faceva prestiti a si scadesci a molti senegalesi, o ancora perché stranamente poteva capitare che pagasse lui un conto al bar — in genere, vedendolo malconcio, offrivano sempre gli altri, pure le sue amiche studentesse squattrinate. Erano anche questi i misteri del mondo sclerotico di Damiano.
Essendo quindi inquilino moroso, l’ometto rientrò a testa bassa, paonazzo di rabbia in volto. Guardò i pavimenti in opus sectile, era circondato da mezzi busti con gli occhi rovesciati. Attraversò l’ala sud, dove s’udivano gli scatti di antiquate macchine per radiografie. A Damiano quel rumore ricordava le ghigliottine, gli erano sempre piaciute, a morte l’aristocrazia, affanculo Maria Antonietta, ascallonisi i padroni di casa!
IV
Maria interrogò la Madonna di gesso. A cosa serviva se non faceva nulla?
La bara bianca coi gigli sulla cassa emanava una bellezza gelida e indifferente, morta come una fotografia. Alfredo, suo marito, le dava la mano ruvida, da possidente agricolo che non temeva la marra.
La donna era combattuta fra due sentimenti opposti, la rimozione e il via libera ai ricordi. Prevalse quello della bambina alla sagra di paese, vestita a festa, che si spostava tra le sedie, nella lunga tavolata al chiar di luna, a spizzicare guefus e pàrdulas e assaggiare di nascosto liquore al ginepro. Maria si morse un’unghia, quasi fosse il parafulmine su cui scaricarsi, inutilmente. Vorticò in un capogiro, finendo nel mulinello di salmi, ostie, tuniche viola, Passioni a olio, scialli neri e abiti a lutto. Si ridestò quando un gigante biondo le porse entrambe le mani per le condoglianze.
– Non si muore mai davvero, signora.
Spalle larghe, come una gruccia extra-large, e vita stretta, le parlò con spiccato accento tedesco, che anche quando voleva esprimere sentimenti pacati sembrava il rumore delle mitragliatrici. Maria lo guardò con aria interrogativa, fissandolo negli occhi per un lungo istante. Occhi profondi, insondabili.
– Intendo dire, signora Cadello, che potrebbe letteralmente riavere sua figlia Alice.
Maria lo guardò con attonito disprezzo.
– Sarebbe dunque lei un redentore?
– Non è mio costume prendermi gioco delle persone, tantomeno del dolore altrui, signora Cadello. Tutt’altro, noi vogliamo restituirvi la felicità. Capisco che questo non sia il momento opportuno. Venga a trovarmi qui con suo marito domattina alle dieci. Vi spiegherò meglio tutto…
A Maria venne la nebbia in testa, come se quella scena fosse collocata in un altrove brumoso. Una donna avvolta in uno scialle nero la strinse e lei, riemergendo dall’abbraccio, lo vide perdersi in controluce tra le bancate.
Tumularono la bambina nel cimitero del paese, perché lì a Cagliari avrebbero potuto bombardare anche il camposanto. Si trattava del paese di Alfredo, che poi era proprio suo. Nel senso che gli apparteneva. Vigneti, grano, carciofi, allevamenti, tutto della sua famiglia, sin dai tempi giudicali.
Maria non riusciva a pensare ad altro che a quell’incontro, guardò la valeriana posata sul comodino con sospetto: era avvenuto davvero? Alle sei del mattino seguente fu svegliata da ronzii, provò a stringersi la testa nel cuscino, non erano zanzare, era un ronzio dentro di sé. Si liberò dal cuscino e fissò il soffitto. Con gli occhi strabuzzati su una crepa parlò al marito.
– Alle dieci abbiamo appuntamento con un dottore all’ospedale.
– Ma che dici Maria? – Alfredo d’improvviso sembrava stare meglio, andata e ritorno di vent’anni in poche ore. La pelle