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L’isola delle lusinghe
L’isola delle lusinghe
L’isola delle lusinghe
E-book327 pagine4 ore

L’isola delle lusinghe

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Info su questo ebook

L’isola delle lusinghe è un romanzo-verità di carattere storico-antropologico sulla Sardegna, in particolare della zona nord-est, sconvolta dalla speculazione edilizia. È un’opera che arieggia, per alcuni aspetti, certi romanzi fluviali del Novecento, mettendo in scena una sorta di saga familiare in un’epoca di profonde trasformazioni quali sono gli anni dell’espansione economica del dopoguerra. La sua prosa analitica, che si distende a tratti in un periodare di ampio respiro, si rivela un potente scandaglio in grado di mettere in luce le motivazioni dell’agire umano, riflettendole nelle sfaccettature delle personalità che interagiscono nella narrazione.
Nell’opera, l’isola non è solo paesaggio e ambientazione della vicenda, ma un personaggio a tutti gli effetti; non semplice tessera di un mosaico multicolore, ma filo rosso di una trama complessa. Infine, pare che questa bellissima isola, con la sua sobria, dignitosa popolazione, possa solo conoscere, in alternativa, o una chiusura gelosa e passatista, o una modernità ambigua e dissacratrice.
LinguaItaliano
EditoreCondaghes
Data di uscita7 nov 2017
ISBN9788873569220
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    Anteprima del libro

    L’isola delle lusinghe - Sandro Manoni

    Sandro Manoni

    L’isola delle lusinghe

    Romanzo

    seconda edizione

    ISBN 978-88-7356-922-0

    Condaghes

    Indice

    Dedica

    Prefazione

    L'isola delle lusinghe

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    L'Autore

    La collana Narrativa tascabile

    Colophon

    a mia madre e a mio padre

    Prefazione

    L’Isola delle lusinghe mette a confronto quattro generazioni, e ne illustra il passaggio sofferto dal mondo antico della prima, alla conservazione della natura da parte della seconda, fino ad arrivare alle ultime due, le quali, in modo conflittuale, porteranno alla speculazione e alla cementificazione selvaggia del territorio, avallata dalla complicità di parte della classe politica e delle istituzioni.

    Il romanzo è ambientato in un microcosmo in cui cultura agro-pastorale e speculazione turistica si incontrano e si abbracciano, quasi improvvisamente, per tentare un’impossibile convivenza, ma anche per scontrarsi con una realtà in cui fino ad allora i sardi erano abituati a vivere.

    L’Autore mette in risalto il contrasto tra i cosiddetti innovatori, proiettati verso un inserimento nel mondo imprenditoriale, e i conservatori, che vengono quasi isolati dal contesto, poiché fortemente ridimensionati nel loro ruolo dalla propulsione innovativa dei primi, che non lascia loro spazio di manovra.

    Quella dei De Cortes è una sorta di saga familiare, raccontata magistralmente dallo scrittore in questo romanzo-verità, di carattere storico e sociologico.

    La storia inizia con il patriarca Gavino, commerciante che ben due secoli prima crea una piccola flotta navale che opera tra Terranova (Olbia) e Golfo Aranci in Sardegna e il porto borbonico di Napoli. Il personaggio, fortemente radicato a quei luoghi di origine, diverrà poi proprietario di tutti quei terreni che collegavano i due porti sardi.

    La situazione paesaggistica era rimasta immutata fino agli anni Settanta del secolo scorso quando il caso vuole che il giovane architetto veneziano Lorenzo incontri Tommaso, l’ultimo discendente della dinastia dei De Cortes. Da questo incontro nasce l’idea di proiettarsi verso la valorizzazione turistico-edilizia di quei terreni, alla conquista di una ricchezza e di un potere per i quali sono disponibili a pagare qualsiasi prezzo.

    Così avviene il passaggio a questa nuova generazione, più colta e più urbana, ma che non sembra però essere in grado di preservare la saggezza e il pragmatismo dei propri padri. Infatti questo nuovo modo di agire confonde i sentimenti e provoca la divisione della famiglia, spezzandola in due tronconi: da una parte i figli di Leonardo, Tommaso e Matteo, e dall’altra le due schive sorelle che parlano attraverso le voci dei loro coniugi. Ma le dinamiche all’interno della famiglia saranno improvvisamente sconvolte dall’intervento dell’Anonima Sequestri. L’urto causato da questa violenza sarà devastante e duraturo.

    Sandro Manoni descrive questo mondo incantato attraverso una prosa a dir poco poetica, dimostrandosi capace di raccontare con dovizia di particolari le vicende di questi ultimi due secoli di storia, soffermandosi a evidenziare gli aspetti umani, anche i più reconditi, di tutti i personaggi che a vario titolo compaiono in questi avvenimenti.

    Il romanzo riserva innumerevoli sorprese, da scoprire pagina dopo pagina, in un’atmosfera che solo la Sardegna, quest’Isola delle lusinghe, misteriosa e affascinante, arida e dura, ma allo stesso tempo tenera e dolce, può farvi ­assaporare.

    Angelo Curreli

    L’isola delle lusinghe

    I

    Imbruniva. Un leggero ponente scompigliava appena la sommità delle tamerici, e faceva ondeggiare i piumini alti dei ginerei disseminati nel prato. Una siepe di sempreverde separava il giardino del villaggio dalla spiaggia, dove la sabbia bianca lambita dal mare rendeva l’acqua cristallina prima di diventare di un bel blu, al largo, per l’approfondirsi dei fondali. Lontano dal litorale, impercettibili refoli ne increspavano la superficie piatta in lunghe e opache striature. Tutto intorno, il profilo controluce dei crinali della costa, e la quinta poderosa dell’isola di Tavolara con le sue pendici illuminate dagli ultimi raggi del sole al tramonto, chiudevano, come un anfiteatro naturale, il Golfo degli Aranci.

    Era un pomeriggio inoltrato di fine settembre, il cielo limpido e il tempo mite prolungavano l’estate. Il villaggio sembrava deserto, non un suono, non una presenza nelle case affacciate sul giardino. Uscito sul balcone della sua stanza, le braccia sul parapetto, Matteo De Cortes osservava distrattamente i pochi bagnanti sull’arenile che si godevano l’ultimo sole. Ascoltava, nel silenzio, il rumore monotono della risacca, e si distraeva a seguire le lente evoluzioni dei gabbiani a sfruttare la brezza che ne sorreggeva il volo. Da un po’ di tempo si sentiva come estraneo nella sua terra, sembrava gli fosse diventata all’improvviso ostile. Lo colse un fastidioso senso d’ansia e invidiò quegli ospiti del villaggio sulla spiaggia, tranquilli e rilassati in quel luogo a lui costato anni d’impegno e di lavoro. Questo pensiero professionale lo distolse dallo stato contemplativo e lo riportò bruscamente alla realtà di un momento per lui incerto. Guardò l’orologio proprio nell’attimo in cui il fischio conosciuto di Lorenzo echeggiò tra le case in penombra nel giardino solitario.

    Matteo era rimasto al villaggio tutto il giorno. Aveva sistemato appunti, rivisto contratti, esaminato pratiche. Aveva rimestato ricordi dei tanti anni dedicati alla realizzazione della Grande Impresa, come amava chiamarla, con la quale aveva dato nuovo smalto alla fama, da alcuni anni appannata, dei De Cortes.

    Riordinò le carte sparse sul tavolo davanti a sé, le ripose ordinatamente nella sua ventiquattrore e scese rapidamente al pianoterra nel grande soggiorno, dove l’amico già lo aspettava.

    L’architetto Lorenzo Vivian si era vestito in modo formale per l’occasione: un abito grigio scuro di fresco lana, camicia azzurra e cravatta regimental, perché si recava a una riunione del Consiglio di amministrazione della Società di cui era amministratore delegato. Matteo, che ricopriva la stessa carica, aveva un aspetto più casual, l’aria apparentemente distratta, il fare indifferente.

    Si scambiarono con un gesto un breve cenno di saluto.

    – Hai visto l’avvocato?

    – Certo… sono andato a prenderlo all’aeroporto. L’ho lasciato al Cala di Volpe. Ha approfittato del jet della Società per portare la moglie in Sardegna – riferì Lorenzo, che nel frattempo si era messo a sfogliare una rivista.

    – Beh, avete parlato, gli hai esposto la situazione? Che cosa ne pensa? – incalzò Matteo.

    – Lui la nostra situazione la conosce perfettamente! Ci aspetta in albergo dopo la riunione per ragguagliarlo dettagliatamente. Ci sconsiglia la sua presenza in questa fase. La ritiene prematura per noi e provocatoria per loro – rispose l’altro con calma.

    – E allora?

    – E allora, e allora… – ripeté Lorenzo quasi fosse annoiato dalla curiosità del socio - ci suggerisce di esporre le nostre riserve e nel frattempo sondare le loro intenzioni. Parlare poco e ascoltare molto. Poi si vedrà il da farsi. Lui eventualmente si trattiene anche nei prossimi giorni, se mai dovessero sorgere complicazioni che richiedano la sua presenza.

    – All’anima della strategia! Avevamo proprio bisogno di far venire il legale da Milano per avere un consiglio tanto prezioso! Non è che si defila perché la moglie stasera vorrà andare a cena a Portorotondo?

    – Andiamo che è già tardi… – tagliò corto l’amico, incurante del sarcasmo.

    La Jaguar della Società era parcheggiata in una piazzola sul retro della casa. L’autista aspettava passeggiando lentamente nei pressi e, alla vista dei due, si affrettò ad aprire un portello posteriore, quindi si sistemò al posto di guida.

    Si avviarono alla volta di Olbia, lungo la panoramica, a velocità piuttosto sostenuta. La strada correva, sinuosamente, parallela al mare, a mezza costa, e rivelava a ogni curva un paesaggio suggestivo per la luce del crepuscolo che esaltava i colori del golfo. Giù in basso il sole dardeggiava radente i tetti rossi delle case di Golfo Aranci. Più lontano, sovrastavano il paesaggio il ripido e frondoso pendio di Punta Filasca e l’imponente promontorio di Capo Figari. Al di là di un breve braccio di mare, si ergeva la verde forma a tronco di cono dell’isolotto di Figarolo, sulla piatta e azzurra monotonia del mare prospiciente.

    Lorenzo conosceva quei luoghi nei minimi particolari; li aveva visitati, misurati, analizzati minuziosamente, dato il lavoro che vi era andato svolgendo.

    Era incredibile a pensarci e difficile a crederlo! Tutta quella costa che lo sguardo poteva abbracciare, frastaglia e pittoresca, ricca di spiagge e scogliere, di anfratti e calette naturali, e le alture che la sovrastavano con i loro crinali, facevano parte di un’unica, enorme proprietà. E la famiglia che godeva di una tale grazia era quella di Matteo che gli sedeva appresso: i De Cortes.

    Come i pensieri di Lorenzo, la strada scorreva rapida sotto la vettura.

    – Chissà cosa vorrà da noi tuo padre con questa improvvisa riunione… e perché avrà voluto convocare formalmente il Consiglio d’Amministrazione? – formulò la domanda ad alta voce, dopo che le sue interiori congetture erano rimaste senza risposta.

    – Mah! Non lo so di preciso. Spesso quell’uomo è un enigma anche per me. Certo, qualcosa deve frullargli per il capo… qualcosa che ci riguarda… so che la mia famiglia al completo si è riunita più volte, in questi giorni, in modo informale. Non credo sia un buon segno, perché io e Tommaso non siamo stati invitati.

    – Ecco cosa mi sfugge della questione… la vostra improvvisa esclusione – disse Lorenzo pensieroso.

    – Abbiamo già discusso della faccenda. Noi siamo sardi, siamo imprevedibili, non ostinarti ad applicare a noi la tua logica! Sai quanto siamo introversi e complicati, legati alle nostre gestualità. Finiamo a volte per non comprenderci tra noi, figurati se lo puoi fare tu! – Matteo fece una pausa d’insofferenza, poi riprese: – Se non hai capacità divinatorie non ti resta che aspettare gli eventi. Abbiamo analizzato i fatti, sospettiamo che mia madre, le mie sorelle e i miei cognati abbiano messo mio padre contro me e Tommaso, forse contro di te. Le cause di questa nuova situazione, in ogni modo, resteranno indecifrabili ancora per poco.

    – Però, – continuò Lorenzo – possiamo presumere che gli avvenimenti drammatici di questi ultimi mesi abbiano giocato un loro ruolo. Sappiamo che, anche se ingiusto, un addebito, quasi una colpa, è stata scopertamente rimproverata a Tommaso, e non solo a lui.

    – Presumi quello che ti pare! – rispose spazientito Matteo – Trovo che fare congetture su personaggi imprevedibili non mi entusiasma affatto. A ogni buon conto, qualsiasi cosa ci aspetti, ti pregherei di frenare la tua indole impulsiva.

    Nel dire questo pensava alla difficoltà di frenare l’amico nell’ipotesi malaugurata che qualcuno fosse riuscito a provocarne la suscettibilità.

    Lorenzo ora aveva perso interesse alla conversazione. Guardava distrattamente, dal finestrino, il rapidissimo succedersi dei cespugli di cisto che infestavano il bordo della strada. Il pensiero, per veloce associazione d’idee, era andato a ripescare il ricordo di quei mesi che avevano messo a soqquadro sentimenti, certezze, equilibri che sembravano da anni consolidati. Tutto aveva avuto inizio nel corso di quel periodo sciagurato. Lì doveva trovarsi, sicuramente, il bandolo della matassa che la sua logica e la sua razionalità faticavano a dipanare. Prima di allora la famiglia aveva risentito sempre di divisioni interne, ma gli schieramenti erano diversi quando lui, giovane architetto veneziano, era venuto in contatto con i De Cortes, ed era così iniziata quella collaborazione che, per lunghi e proficui anni, avrebbe segnato i destini di entrambi e legato alle loro esistenze.

    L’origine della vastissima proprietà De Cortes non nasceva da una grande vocazione agraria o pastorale della famiglia, come si potrebbe arguire dalle tradizioni locali, bensì da una bizzarra vanità del bisnonno del nostro Matteo. L’epoca in cui tale vanità venne soddisfatta stava negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

    Fino ad allora la famiglia aveva sempre avuto più rapporti con il mare che con la terra. Già dalla metà dell’Ottocento, con la scomparsa dalla Sardegna del regime feudale e l’introduzione dello statuto Albertino che ne legava definitivamente le sorti alla storia d’Italia, i De Cortes si erano occupati di pesca, e la praticavano con una certa rilevanza. Possedevano allora una piccola flottiglia di barche che batteva il tratto di mare di fronte alle coste nord-orientali dell’isola. Il naturale ricovero delle loro imbarcazioni era sempre stata la profonda e ben protetta insenatura di Terranova Pausania, come si chiamava la città di Olbia prima del 1939. Perciò, per molte generazioni, essi avevano vissuto del prodotto pescato, che li aveva spinti a navigare anche oltre i limiti delle abituali zone di operazione, al di là del mare, fin sulle coste della Campania. La conoscenza di altre realtà così diverse dal loro mondo angusto e geograficamente emarginato, soprattutto della città di Napoli, allora capitale del Regno Borbonico e grande centro amministrativo, culturale, commerciale, aprì agli intraprendenti De Cortes la strada a nuove iniziative. Capirono, nel fervore commerciale del capoluogo partenopeo, che molte di quelle merci, ammassate sulle banchine del porto, avrebbero potuto essere trasportate sulla loro isola. Forse non era un’operazione difficile, perché il mare lo sapevano navigare e il pesce che trasportavano era, in fondo, una merce come un’altra. Si trattava di dotarsi di imbarcazioni diverse, più grandi, adatte a contenere prodotti eterogenei.

    Alcuni anni dopo la scoperta di queste nuove opportunità, agli albori dell’unità d’Italia, la famiglia aveva dimezzato la flottiglia da pesca e ora possedeva un bastimento a vapore che navigava regolarmente tra la Sardegna e il continente, come allora — ma il sostantivo è tuttora usato — veniva chiamata la terraferma.

    Più tardi, il bisnonno di Matteo, Gavino era il suo nome, sarebbe diventato un piccolo armatore, titolare di una società di trasporti marittimi, la De Cortes Navigazione, che, sul finire appunto del XIX secolo, con due piccoli bastimenti a vapore, trasferiva merci d’ogni genere, oltre a occasionali passeggeri, dal continente alla Sardegna, e viceversa. I due moli sardi per i suoi battelli erano quello di Terranova Pausania e quello di Golfo Aranci, dove, dal 1883, era già in funzione una tratta delle ferrovie dello Stato, elemento fondamentale per smistare le merci nel resto dell’isola. Le condizioni economiche del bisnonno Gavino dovevano essere state, già allora, decisamente buone. Si era costruito una grande villa in una posizione elevata e panoramica, prospiciente l’approdo di Golfo Aranci, e, a pochi anni di distanza, si accinse a edificare a Terranova Pausania un palazzotto di aspetto austero e di mole considerevole.

    Quando l’edificio fu pronto, con la sua posizione centrale e strategica sul porto, con il suo parco di cinque ettari cintato da un altissimo muro che proteggeva la riservatezza dei suoi abitanti, la famiglia De Cortes, armi e bagagli, vi si trasferì. Tale presa di possesso segnò una promozione sociale che la metteva indiscutibilmente al vertice della locale comunità.

    Non fu il caso a suggerire all’intraprendente Gavino l’ubicazione di queste due dimore. Esse erano entrambe in prossimità degli approdi in cui attraccavano, con la dovuta regolarità, le sue piccole navi. Egli poteva, da lì, controllare le merci in arrivo e partenza, e, a volte, ospitare clienti di riguardo e uomini d’affari con cui intratteneva importanti relazioni. Il suo lavoro lo portava, quindi, spesso e con regolarità, dall’una all’altra delle sue case, o meglio dall’uno all’altro di questi luoghi d’approdo.

    Di buon mattino faceva attaccare al calesse la sua cavalla preferita, e percorreva i diciotto chilometri che separano le due località. Seguendo l’antico tracciato di quella che, con poche correzioni di percorso, sarebbe diventata la strada panoramica. Amava compiere questi spostamenti da solo, sia per il rustico piacere di guidare il calesse, sia perché il tempo dedicato al tragitto lo teneva assorto a riordinare un po’ le idee sui suoi affari correnti e a farsene venire delle nuove per gli eventuali futuri. Ma anche perché amava contemplare in solitudine lo splendido paesaggio della costa e del golfo, ammirare i colori della natura che si accendevano violenti, o si spegnevano sbiaditi e smorti, al mutare delle ore del giorno, dei mesi, delle stagioni. Riconosceva prontamente ogni località, eppure si sorprendeva sempre per la sua bellezza e la sua amenità come fosse una recente, gradevole scoperta. La cadenza dei passi della cavalla sull’acciottolato e il dondolio del calesse cullavano la piena soddisfazione che provava in quei momenti l’armatore Gavino. Egli si riteneva a ragione, e ne godeva al pensiero, un uomo molto fortunato. L’azienda prosperava, il denaro si accumulava abbondante e con rapidità, la sua famiglia gli dava le giuste soddisfazioni che un uomo probo e lavoratore come lui meritasse. Inoltre, quel piccolo mondo di provincia in cui conduceva la sua felice esistenza, lo teneva nella massima considerazione e stuzzicava la sua vanità non tralasciando occasione per esternargli la sua deferenza e il suo rispetto. Si sarebbe detto che l’armatore Gavino fosse un uomo che non aveva più nulla da desiderare.

    Invece, in quel suo andirivieni tra i due scali marittimi, nel mezzo dei suoi molteplici pensieri, uno in particolare cominciava a togliere, con il passare del tempo, sempre più spazio agli altri, fino a diventare fisso e invadente. L’idea che occupava quasi del tutto la mente di Gavino De Cortes era, a un tempo, ambiziosa e bizzarra: desiderava ardentemente percorrere quel tragitto, quasi giornaliero, tra Terranova Pausania e Golfo Aranci, rimanendo costantemente all’interno di una sua proprietà. Dei due aggettivi che definivano l’idea fissa dell’armatore, il primo si riferiva al fatto che, per realizzarla, era necessario acquistare una quantità di terra smisurata, il secondo derivava dalla sua assoluta mancanza di senso pratico. Quei terreni, ancorché magnifici da un punto di vista paesaggistico, lo erano molto meno per un loro utilizzo agricolo o pastorale. Quest’ultimo aspetto, comunque, forniva il vantaggio che tali terreni, incolti e improduttivi, avevano a quel tempo un valore di mercato enormemente inferiore ad altri più fertili e lontani dal mare. Infatti, tutta la fascia costiera, rocciosa e spesso impervia, infestata dalla folta macchia mediterranea, battuta dai venti e flagellata dalle mareggiate, mal si prestava al pascolo degli ovini o a qualsivoglia coltivazione. Inoltre, le numerose spiagge disseminate lungo la costa, così deliziose e ridenti a vedersi, con i loro arenili di sabbia bianco-rosata, delimitavano quasi sempre degli stagni retrodunali, dove si raccoglievano le acque degli impluvi soprastanti e dove era endemica la zanzara anofele portatrice della malaria.

    Tali ragioni, sommate alla caparbietà e alla determinazione del personaggio, finirono, nel breve volgere di alcuni anni, e forse con uno sforzo finanziario non eccessivamente oneroso, per mutare in realtà un sogno bizzarro. Il quale, se sollevò nei contemporanei delle legittime perplessità sul suo autore, avrebbe invece influito in modo determinante sulle sorti economiche dei suoi successori.

    Dopo aver portato a compimento una simile opera di acquisto, la sua proprietà, da tutti allora ritenuta un inutile investimento o una capricciosa ostentazione, misurava diverse migliaia di ettari e si estendeva, senza soluzione di continuità, dalla piatta bassura del lido di Pittulongu, sino a Punta Volpe, che chiudeva a nord-est l’incantevole Golfo di Marinella.

    Ora il possidente Gavino poteva ritenersi finalmente soddisfatto e, poiché il nuovo secolo si era già affacciato all’orizzonte della storia e la sua età non era ormai delle più verdi, la sua attenzione cominciò a rivolgersi verso la famiglia più di quanto non avesse fatto in passato. Lì si trovavano, in fondo, tutte le ragioni del suo indefesso lavoro e da lì sarebbero usciti coloro che avrebbero dato un senso e una continuità alla sua opera.

    La famiglia De Cortes, dato il luogo e i tempi, era organizzata su base patriarcale. Le questioni economiche, i rapporti con la parentela, le relazioni sociali, le decisioni erano prerogative del capo famiglia.

    La moglie di Gavino, donna Ester, era sempre stata una figura complementare al marito, l’aveva sempre seguito docilmente e discretamente nelle sue faccende senza interferire, senza consigliare, senza criticare. Il suo compito era prendersi cura della casa, della servitù, delle incombenze quotidiane per consentire al marito di occuparsi degli affari in un clima familiare ordinato e sereno. Gli aveva dato due figli maschi, Francesco e Giuseppe, che, pur se allevati sotto le sue costanti attenzioni, avevano dimostrato nel crescere due caratteri visibilmente diversi. Il maggiore aveva subito manifestato un’indole remissiva, era disponibile e ubbidiente, appariva sempre tranquillo e spensierato. Il più giovane, invece, aveva rivelato fin dagli anni della sua infanzia una natura complessa, introversa, che mal sopportava la disciplina della sua importante famiglia e le regole che ne informavano la condotta.

    All’epoca in cui il padre aveva portato a compimento l’acquisizione della grande proprietà terriera, i due figli si erano entrambi da poco ammogliati. Francesco aveva accettato le ataviche regole di sudditanza dal padre come la cosa più naturale del mondo, mentre Giuseppe, con il suo carattere chiuso e insofferente, aveva più volte manifestato segni di intolleranza all’autorità paterna, e per questo era tenuto ai margini degli affari di famiglia. Il personaggio incorso nella collera del padre sarebbe diventato di lì a poco padre, a sua volta, di Leonardo, che avrà un ruolo determinante nel corso di questa storia.

    Quando Lorenzo giunse in Sardegna, Tommaso, il figlio maschio più grande di Leonardo, per una sorta di singolare nemesi storica, si veniva a trovare nella medesima situazione del nonno Giuseppe, a distanza di più di mezzo secolo.

    Tommaso era un uomo appena sopra la trentina, dai caratteri somatici degni di un trattato sull’etnia sarda: aveva capelli nerissimi, folti e ispidi, colorito olivastro, occhi neri e profondi, un viso squadrato dalle mascelle prominenti, un’espressione enigmatica poco propensa all’ilarità. I suoi modi però contrastavano con la durezza dell’immagine esteriore. Era colto, signorile, vestiva sempre con molta cura ed eleganza. Negli anni Settanta, i figli dei notabili sardi dell’ultima generazione cominciavano ad affrancarsi dalla chiusa mentalità isolana. Curavano di più l’aspetto esteriore della persona, perdevano i connotati agro-pastorali propri dei loro predecessori, e ne assumevano altri decisamente e scopertamente borghesi.

    I contrasti tra Tommaso e il padre Leonardo, che avevano portato alla rottura definitiva dei loro rapporti, erano iniziati qualche anno prima e, con molta probabilità, erano stati di natura talmente formale che, se interrogati in proposito, entrambi non avrebbero saputo fornire chiare spiegazioni sulla natura della controversia. Tant’era che, dato il loro carattere chiuso e caparbio, continuavano a ignorarsi a vicenda e avrebbero continuato a farlo fintantoché una nuova situazione non avesse fornito, a quello dei due che ne era meno provvisto, il pretesto per vincere la sua cocciutaggine.

    Simonetta, la moglie romana di Tommaso, aveva abbozzato già da tempo dei timidi tentativi, in combutta con la suocera, per avvicinare tra loro i due irremovibili congiunti, ma la stessa inconsistenza delle motivazioni del contrasto era l’ostacolo maggiore a una buona riuscita dell’ambasciata.

    Non avevano interesse a una definizione positiva della vicenda le due sorelle di Tommaso, Maria Giovanna e Maria Beatrice, e tanto meno i loro mariti che, dall’emarginazione del figlio maschio maggiore, si sentivano investiti di importanti responsabilità e si ritenevano delegati a gestire l’azienda agricola di famiglia, la quale, negli ultimi anni, grazie a importanti leggi regionali di sussidio all’agricoltura, aveva assunto discrete dimensioni commerciali.

    Non aveva voce in capitolo il fratello Matteo, minore di Tommaso di una decina d’anni, tra l’altro appena trasferito a Milano, a studiare economia in un ateneo del capoluogo lombardo. Lui era diverso fisicamente e caratterialmente dal resto della famiglia. Aveva ereditato i connotati del nonno materno, un inglese trapiantato in Sardegna, perciò il suo incarnato si presentava pallido, i capelli biondi, la statura più alta dei sui parenti; era simpatico, allegro, aveva uno spirito critico e ironico rispetto alla serietà e chiusura mentale degli altri componenti della famiglia. A Milano avrebbe presto intrecciato nuove amicizie, si sarebbe fatto coinvolgere dall’ambiente universitario in quel periodo piuttosto turbolento di contestazioni. Insomma, per qualche anno sarebbe vissuto libero dai legami che lo costringevano nella sua angusta provincia.

    Nelle occasioni in cui tutta la famiglia si radunava, il padre e Tommaso comunicavano tra loro per interposta persona, la madre soprattutto. La signora Elena teneva i labili contatti, provvedeva a interessarsi delle esigenze del figlio e, intercedendo presso il marito, a sopperire alle sue necessità. Il tempo, per lui, era quasi una categoria immota. Se non fosse stato per i segni lasciati dalla crescita dell’unico figlio, egli non avrebbe colto il suo inesorabile trascorrere. Ma se la sua vita di tutti i giorni si svolgeva monotona e tediosa, non così erano i suoi pensieri. I cambiamenti che stava subendo in quegli anni la sua terra, l’avanzare di novità clamorose, le trasformazioni delle classi sociali che andavano provocando, lo persuadevano che, invece, il tempo dispiegava la sua opera senza che lui potesse in qualche modo parteciparvi.

    A ogni buon conto, la rispettabilità di cui egli godeva per il nome portato, la mancanza di problemi economici, l’appartenenza a una famiglia del cui ingente patrimonio un giorno sarebbe stato un erede, gli toglieva di fatto ogni stimolo a intraprendere un lavoro che gli desse una qualche indipendenza.

    A meno che tale lavoro non coinvolgesse in qualche modo gli interessi generali della proprietà. Infatti, da qualche tempo, due vaghi disegni si stavano facendo strada nella mente di Tommaso per uscire da quel vicolo cieco che stava divenendo insopportabile, ed erano l’uno complementare all’altro. Doveva riappacificarsi con il padre e intervenire sulla grande proprietà con un’operazione che l’avrebbe valorizzata enormemente e che prescindeva dal presente utilizzo agrario e pastorale. Con tale intervento, di cui aveva ancora un’idea

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