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Foca. Il demone che vestì la porpora
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E-book334 pagine4 ore

Foca. Il demone che vestì la porpora

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Info su questo ebook

547 d.C. - Nell'oscurità di una capanna in un villaggio in Tracia, una donna muore.
Ha appena dato vita a un bambino senza padre, che sembra destinato come chiunque
in quelle terre lontane, a subire le usurpazioni dei barbari che da tempo
minacciano l'Impero Romano d'Oriente. Ma un vecchio soldato lo strappa alla miseria e lo porta con sé, crescendolo tra le fila dell'esercito. Quel bambino destinato alla povertà diventerà un centurione, e poi, complice uno scherzo del destino, arriverà a vestire la porpora a Costantinopoli. Ma un nemico, più vicino di quanto creda, ostacolerà le sue buone intenzioni. Questa è la storia di Foca, uno degli imperatori più malvagi e sanguinari
che la storia romana ricordi.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2018
ISBN9788829557974
Foca. Il demone che vestì la porpora

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    Anteprima del libro

    Foca. Il demone che vestì la porpora - Patrizio Corda

    RINGRAZIAMENTI

    FOCA

    IL DEMONE CHE VESTI‘ LA PORPORA

    Patrizio Corda

    In memoria di mio padre

    I

    Battesimo di Sangue

    Tracia, 547 d.C.

    «Andiamo, vieni fuori, lurido bastardo» sussurrò tetra la nutrice, digrignando quei pochi denti marci che le rimanevano ormai in bocca.

    In quel misero capanno, dentro il quale ogni tanto affluiva l’acqua che scendeva sempre più copiosa, non sembrava neanche si stesse consumando, ancora una volta, quel rituale unico e sacro che è la nascita di una nuova vita.

    Maria era giovane, forse troppo, pensò la vecchia, per fronteggiare un parto così doloroso. E la cornice stessa del travaglio, col cielo cupo eppure così gonfio di nubi tanto da poterle scorgere anche nella notte, non sembrava promettere niente di buono.

    Déi, sembrava che quella creatura volesse sventrare sua madre dall’interno, anziché venir fuori e cominciare la sua vita.

    La poveretta continuava, con la testa completamente rivolta all’indietro, a cercare un ritmo in linea coi suoi respiri, che si stavano facendo progressivamente rochi. E non c’era neppure un panno umido che potesse darle un minimo di sollievo. Anche i cenci sui quali era stata fatta accasciare si erano presto inzuppati, con qualche piccola (ma ben visibile agli occhi di chi aveva visto centinaia di parti) chiazza scura assai poco promettente.

    Maria si mosse in avanti con uno scatto ferino, ghermendo con le mani affusolate e piene di tagli il terriccio polveroso che faceva da pavimento al capanno. Fuori, intanto, non accennava a smettere di piovere. La poveretta aveva perso ormai tutte le unghie, cercando un precario equilibrio.

    Far nascere una creatura, per giunta così resistente, era quasi impossibile senza nessun ausilio, pensò la vecchia.

    In quel villaggio sperduto di poche capanne immerse nel fango sarebbe stato già molto racimolare un otre d’olio.

    Gli avvenimenti di maggior rilievo erano le sporadiche incursioni delle truppe Bizantine di passaggio. E quando gli stendardi garrivano all’orizzonte e le loriche venivano illuminate dai raggi del sole, non era mai un buon segno. I pochi viveri presenti venivano requisiti ʺper i rifornimenti dovuti all’esercitoʺ, e le donne del posto, se considerate gradevoli – e lo erano sempre, per quei porci –finivano sempre gravide e abbandonate, appigliate alla vaga promessa del ritorno del loro soldato, ricco di gloria e bottino.

    Non era mai così , e non lo era stato infatti per Maria, costretta ora a un parto che sembrava dannato, una punizione divina da affrontare senza neanche il conforto di un goccio d’unguento.

    Le vene del collo di Maria affiorarono con una veemenza inaudita, mentre lanciava un urlo assordante per poi accasciarsi di nuovo sui sottili cuscini riempiti di pagliericcio putrescente.

    «Povera creatura» sibilò la nutrice sorprendendosi per quello slancio di carità «un’altra spinta, forza!»

    Maria, un rivolo di sangue che le colava dal labbro inferiore martoriato per i morsi inflitti, sembrò raccogliere le ultime energie per la spinta finale. La nutrice le accarezzò la fronte, le guardò il volto cereo, imperlato di sudore freddo e ordinò seccamente a un’altra donna di ravvivare il fuoco, buttandoci sopra qualche essenza per agevolare la respirazione della gestante.

    La nutrice scorse la testa del bambino, piena di lunghi capelli appiccicaticci, e si preparò ad accoglierlo tra le mani.

    Poi un lento, denso rivolo di sangue scuro prese a colare tra le gambe di Maria. Sollevando di scatto lo sguardo, la nutrice sembrò vedere un perverso sollievo nella giovane contadina, quasi l’atto finale del parto, andasse tutto in malora o meno, rappresentasse una liberazione.

    Maria emise un mugolio indecifrabile. Soffriva? Si stava facendo forza? Chiedeva aiuto?

    Un fiotto, stavolta di gran potenza, infradiciò le maniche della nutrice sino all’altezza del gomito.

    Si metteva male.

    «Non abbandonarti per nessun motivo!» intimò a Maria.

    «Voi, tenetela sveglia a costo di prenderla a schiaffi! Senti, ragazza» continuò «non cedere a questa creatura maledetta che ti sta squassando. Spingila fuori, poi vedremo il da farsi».

    Maria sembrò non capire. Gli occhi vitrei si persero per un istante poi, un fascio di nervi, digrignò i denti ed emise un autentico ruggito, che si spense di colpo mentre crollava, spargendo i cuscini un po’ ovunque.

    La nutrice si ritrovò letteralmente ricoperta e circondata dal sangue: sangue nero, grumoso, maleodorante. Sangue di interiora. Mentre le altre donne accorrevano verso Maria, constatandone lo stato ormai vicino alla morte, la nutrice recise il cordone e osservò il bambino, faticando a discernerne le fattezze.

    I suoi vagiti echeggiarono striduli, sinistri e quasi lontani da quel fumoso capanno, sovrastando il rumore sommesso del diluvio.

    La vecchia prese meglio il piccolo tra le mani.

    Non un lembo di pelle era libero da quel liquido immondo, come mai ne aveva visto in decenni di parti assistiti.

    Si voltò fugacemente verso Maria. Giaceva senza vita, di un pallore raccapricciante, attorniata da altre due anziane. Sembrava quasi sorridente per essersi liberata, pur pagando con la vita, di quella piccola bestia figlia di chissà chi.

    Nessuno sapeva se la madre avesse pensato a un nome per quel bimbo.

    E sinceramente, pensò la nutrice, una creatura già capace di ridurre la sua stessa madre a brandelli in quel modo non avrebbe meritato che di essere dimenticata dal mondo quanto prima.

    II

    Un nome, uno scopo

    Tracia, 559 d.C.

    Il ragazzo sollevò lo sguardo timidamente e cercò il contatto visivo col soldato. L’uomo aveva più di cinquant’anni, e aveva da tempo superato la soglia del congedo. I capelli lunghi e grigi, come un groviglio di crini, gli scendevano sino alle spalle incorniciando un volto pieno di solchi, sporadicamente illuminato dal fugace muoversi delle iridi del colore del mare.

    L’uomo non lo considerò affatto, continuando a ruminare la carne secca dalla sua razione. Il ragazzo notò, trattenendo un sorriso, che l’enorme naso aquilino dell’uomo quasi gli sfiorava il labbro superiore mentre masticava.

    Poi gli fece ancora una volta la solita, vecchia domanda.

    «Ermanno» trovò la forza di bisbigliare, avvicinandosi «ma quindi perché ho il nome che mi hanno dato?»

    Il soldato si grattò poco signorilmente prima l’ascella, poi il mento barbuto e si voltò lentamente verso di lui.

    «Per l’ennesima volta, Foca» rispose con il latino gutturale di tutti i barbari «ti ho già raccontato che quando ti abbiamo raccattato in quel mucchio di capanni merdosi, una vecchia ha detto che ti chiamavi così».

    «Ma per quale motivo?» ribatté curioso il ragazzo.

    Ermanno pensò per un momento a quand’era stata l’ultima volta che l’aveva malmenato per averlo tormentato durante la pausa tra un turno di guardia e l’altro.

    «Che il Cielo ti fulmini» grugnì il barbaro. «Quella vecchia disse che il tuo padre, sempre che tu ne abbia avuto uno, era un soldato che veniva dalle valli della Focide, in Grecia. Peccato che abbia messo incinta tua madre e se la sia svignata. Che uomo! Nessuno ti voleva lì, e quindi ti abbiamo preso con noi».

    Foca sapeva, da come Ermanno aveva pronunciato quelle ultime parole, che l’Erulo in fondo l’aveva a cuore come un figlio. Con i suoi conterranei, provenienti dalle remote terre del Nord, ormai perennemente arruolati nell’esercito d’Oriente sotto il grande imperatore Giustiniano, avevano attraversato tutti i Balcani respingendo orde di popoli che insidiavano i confini che quel grande imperatore stava strenuamente difendendo e riconquistando. E in una delle loro requisizioni presso uno sperduto villaggio in Tracia aveva accolto le suppliche di una vecchia cenciosa che gli aveva proposto, insieme ai loro ultimi viveri, di prendersi il bambino, che aveva appena cinque anni.

    Per quanto coriaceo un soldato potesse essere, Ermanno non aveva potuto resistere a quell’ultima, illusoria speranza di avere una famiglia. La continua richiesta di milizie aveva allontanato infinitamente il giorno del suo congedo, e con esso le immagini che tante notti, prima di addormentarsi all’addiaccio, aveva ricostruito nella sua mente.

    Una donna sull’uscio ad aspettarlo dopo una giornata a lavorare i campi, una figlia giovinetta con un cesto colmo di primizie, un figlio che l’aiutasse. Un aratro e del bestiame.

    Una vecchiaia tranquilla, lontana dalla guerra e dai disagi.

    Quel bambino che nessuno voleva, in verità, gliel’aveva in parte colmato, quel vuoto. Già lo vedeva, il bastone della sua vecchiaia.

    E il ragazzo non era neppure di cattivo carattere. Sapeva stare al suo posto e subire tutte le spigolosità che il carattere di un tribuno come lui, verbalmente e fisicamente, poteva prospettargli.

    «Giusto, giusto» disse Foca distogliendolo dai suoi pensieri.

    Poi sollevò di nuovo lo sguardo.

    «Quindi sono un greco? Pensi che potremmo mai spingerci fino a lì, per…»

    «Hai rotto i coglioni, Foca!» sbraitò un grosso macedone che dormiva su un fianco poco distante dalle meste fiamme del fuoco di campo. «Piuttosto, vai a portare altra legna».

    Il ragazzo annuì, si riavviò gli arruffati capelli rossi che gli scendevano fin sugli occhi e andò a passo spedito verso il punto del campo dov’era ammassata la legna.

    Il tardo pomeriggio in Tracia era quasi come la notte. La nebbia scendeva rapidamente, e il cielo quasi sempre plumbeo si riempiva di sfumature nere e bluastre.

    Foca continuò a calpestare il fogliame secco con i suoi stivali, felice di rendersi utile. Raggiunse l’estremità del campo ancora non delimitata dalle palizzate, e per un attimo indugiò verso il bosco di faggi che cominciava a infittirsi a una decina di metri da lui.

    Era fantastico essere parte di qualcosa, rifletté. Quegli uomini l’avevano preso come servo, e non importava cosa gli chiedessero di fare, se raccogliere legna o sterco di mulo, lui l’avrebbe fatto.

    Nessuno, neanche le vecchie del villaggio, che a stento lo nutrivano, gli avevano raccontato del padre o della madre, né del perché nessuno lo considerasse. È un mostro , aveva sentito bisbigliare.

    Ma lui non ne capiva il perché. Né capiva perché quella gente vivesse nella miseria senza cercare di sollevarsene, quasi aspettassero con rassegnazione la fine dei tempi.

    Poi l’esercito era arrivato, e lo sguardo truce di Ermanno l’aveva notato. Ricordava vagamente l’Erulo che parlava con la vecchia – di cui mai aveva saputo il nome – e poi il tribuno che lo caricava su un carro carico di sacchi e armi.

    Lì era nato Foca, non qualche anno prima in quelle capanne di paglia umida e fango.

    L’esercito gli aveva dato uno scopo e delle certezze. Ecco perché chiedeva sempre a Ermanno di ricordargli chi fosse. Perché gli anni in cui era stato nessuno e di nessuno, ne era certo, l’avrebbero perseguitato a vita.

    Ma lui avrebbe cercato di riscrivere il suo destino, e sarebbe quantomeno diventato una figura degna di rispetto come il suo padre putativo. Degno di portare un nome.

    Si vide adulto, in marcia tra i faggi a respirare l’aria intrisa del fumo delle torce e della pesante umidità della nebbia.

    Poi Ermanno cacciò un urlo, e felice di sentire ancora una volta il suo nome, il ragazzo corse veloce con la legna verso il bivacco.

    III

    I confini dell‘impero

    Costantinopoli, Novembre 565 d.C.

    Sette giorni. Da soli sette giorni si trovava a capo dell’impero, e già aveva a che fare con le grane che quell’imbelle di Giustiniano non aveva saputo risolvere, perso com’era a cercare di riconquistare quanto era andato perduto decenni prima.

    Giustino faceva fatica anche solo a seguire le formule di rito che gli ambasciatori degli Avari stavano enunciando, da quando erano stati introdotti dagli eunuchi di corte nel crisotriclinio del Palazzo Imperiale.

    Se non altro, pensò tra sé e sé, guardandoli così dall’alto, impassibile e imperscrutabile, non avrebbe dato modo a quegli zotici vestiti di pelli di rendersi conto della sua distrazione.

    Dannato Giustiniano! Cos’aveva concluso nel suo regno? Aveva sprecato la vita a riannettere all’impero terre inutili… l’Italia.

    Che restava dell’Italia? Pensava forse che recuperare quelle terre ormai aride, infestate da barbari primitivi, avrebbe giovato all’Impero? E dire che pure Papa Pelagio l’aveva ammonito!

    Giustino ripensò alle missive recuperate dagli archivi di palazzo e alle parole rassegnate dell’allora Papa. Aveva definito Roma abbandonata a sé stessa, vittima di creature avverse al verbo del Nostro Signore e irrecuperabile nella morale ormai perduta.

    No, non aveva senso. Giustiniano era stato un folle, un irrazionale nostalgico. Aveva perduto decine di migliaia di vite umane per recuperare Africa, Italia e una porzione della Spagna Meridionale. Ma perché?

    Sollevò quindi gli occhi, quasi a cercare risposte, lambendo la sommità dell’immensa cupola della sala dei ricevimenti.

    Sentì addosso gli sguardi degli eunuchi. Non fossero stati tanto utili alla causa della corte imperiale, si disse, li avrebbe decimati senza fare troppi complimenti.

    Un fascio di luce calò dalle vetrate smaltate e lo riportò alla realtà, strappandolo alla nebbia dei suoi pensieri contorti.

    Già, gli Avari.

    Quando qualche anno prima la cupola di Santa Sofia era crollata, in tanti si erano prodigati ad interpretare quel cenno come qualcosa di più sinistro di un comune terremoto. C’erano delle minacce che incombevano su Costantinopoli, ed erano più vicine di quanto sembrasse. Erano quei popoli misteriosi, sorti dalla bruma e dai miasmi delle paludi Nord-Orientali, che avevano bussato all’impero decenni prima e che col tempo avevano strappato ad imperatori molli e impauriti accordi sempre più vantaggiosi per loro, quanto segreti ed ignominiosi per chi, circondato dall’oro, si faceva vanto di illuminare e reggere il mondo.

    Giustino incrociò lo sguardo dello sconosciuto dignitario degli Avari, emissario del loro khagan Baian. Un uomo dai lunghi e ondulati capelli color della paglia, con una barba curata, avvolto in vesti barbariche, con stivali ormai consunti. Aveva deposto ai piedi del trono una sequela di monili e gioielli – senz’altro ottenuti tramite chissà quale razzia – che Giustino aveva accettato con un impercettibile cenno del capo.

    Dopo averlo fissato per qualche istante, l’imperatore trovò un gesto imperioso, sistemandosi il mantello tempestato di gemme. Pensò ironicamente, in quell’atmosfera regale ma lugubre, di essere forse la principale fonte di luce della sala, malgrado le torce e la bella giornata che si intravedeva dalle finestre, con tutto l’oro e le pietre preziose che portava addosso.

    Si rese conto che doveva pur dire qualcosa.

    «E così voi chiedete…»

    L’emissario trasalì. Aveva appresso dei monaci vestiti di stracci che tenevano la testa bassa fino a toccare i mosaici del pavimento.

    «Il grande khagan Baian, augusto» gorgogliò l’uomo a capo chino «chiede come segno della tua fiducia che sia confermata la sovvenzione che già il tuo illuminato predecessore, l’augusto Giustiniano, aveva accordato per i servigi che il glorioso popolo degli Avari ha prestato sinora».

    L’emissario sollevò impercettibilmente il capo, vagliando la bontà del discorso che aveva preparato. Pur alzandosi in piedi, non avrebbe potuto incrociare lo sguardo di Giustino.

    Questi, a sua volta, contro l’etichetta di corte, si passò la mano destra tra le due folte sopracciglia, che erano quasi unite. Diede l’impressione di riflettere sulla richiesta fatta.

    Tutt’altro.

    Negli anni in cui era stato maestro di palazzo, aveva costruito una solida rete d’informatori. L’influenza, aveva sempre creduto, gli sarebbe valsa l’elezione, e così era stato. Tramite questa rete, aveva saputo della vergognosa cifra che Giustiniano elargiva agli Avari ogni anno perché si tenessero lontani dai confini dell’impero. Spesso, però, quei selvaggi avevano sconfinato fino in Grecia.

    Che importava se il pericolo mortale bussava all’uscio di casa? L’Urbe era tornata sotto il dominio della santa città sul Bosforo!

    Ma Giustiniano era morto, e per quanto lo riguardava, tutto ciò che aveva fatto poteva andare con lui. Avrebbe gestito l’impero come riteneva più opportuno. A costo di lasciar andare pesi morti come Italia, Spagna e Africa.

    Che andassero pure a Longobardi, Visigoti e Berberi!

    Giustino si sporse leggermente dal trono, stringendo con rabbia i braccioli mentre prendeva fiato. Sentì un bisbiglio tra le file di eunuchi ai suoli lati. Sapeva che stava contravvenendo all’etichetta che lui stesso aveva contribuito a creare anni addietro.

    Ebbene, se ne sarebbero fatti una ragione, o la cosa li avrebbe perduti.

    «Quali servigi, emissario» rispose trovando una voce insolitamente cavernosa «ritenete di aver fornito alla causa imperiale?» domandò con tono inquisitorio.

    L’Avaro sentì le parole morirgli in gola.

    «Qual è il tuo nome?» domandò allora Giustino senza dargli il tempo di riaversi.

    L’uomo fece per replicare, sollevando timidamente la mano, ma l’imperatore sollevò il palmo destro interrompendolo. I monaci sussurrarono sommessamente qualche supplica in una lingua incomprensibile.

    «Poco importa, in verità. Sappi, tuttavia» riprese alzando progressivamente la voce «che l’impero che voi millantate di difendere è pieno di uomini e cavalli, truppe più che sufficienti a salvaguardare le frontiere che dite di presidiare. Frontiere che pullulano di barbari, quali voi siete. Ma gli stessi popoli che vi soggiogarono tempo addietro ci garantiscono la loro alleanza. Dovremmo quindi attingere ai nostri tesori» proseguì sentendo la rabbia montargli dentro, «tassando i nostri sudditi per accogliere le vostre suppliche? Voi che fuggite dai nostri stessi alleati, e subdolamente violate i confini dello stesso impero che dite di difendere?»

    L’uomo non rispose. Farfugliò parole di supplica inintelligibili.

    «Nostro zio» - sì, pensò Giustino con fastidio, perché pur di succedergli aveva dovuto sposarne la nipote Teodora - «nella sua infinita sapienza, fu ingenuo con voi».

    Giustino si fermò, e guardò con un ghigno soddisfatto gli eunuchi a bocca aperta ai lati della sala. Che provassero a correggerlo, quelle creature egoiste e melliflue.

    «L’augusto Giustiniano fu ingenuo, fu commosso dalle vostre suppliche. Fu un’elemosina, mai una paga giustificabile.

    Da noi riceverete solo la conoscenza della vostra debolezza, perché debole è chi reca una supplica, emissario. Ritiratevi, dunque» concluse con voce che suonò infinitamente distante «perché così avrete salva la vita. E dì al nobile Baian che non avrà che la nostra benevolenza, se si presenterà a chiedere il nostro perdono».

    L’emissario attese qualche secondo, poi fu scortato dalla guardia del corpo imperiale fuori dalla sala.

    Con un cenno, Giustino congedò tutti, rimanendo assiso a guardarli defluire dall’ingresso principale, con le loro vesti fruscianti. Gli parvero quello che erano sempre stati. Serpi.

    Ora sarebbe cambiato tutto, disse a sé stesso. Le escrescenze purulente dell’impero sarebbero state abbandonate a loro stesse. Costantinopoli era il fulcro dell‘impero, e lui il fulcro del mondo intero, con un potere inferiore solo a Dio.

    Avrebbe protetto Costantinopoli, a costo di eliminare chi sembrava imprescindibile anche tra le mura del Sacro Palazzo.

    E il suo braccio per quest’impresa, che fosse sul Bosforo o tra le foreste impenetrabili ai confini dell’impero, sarebbe stato il suo esercito.

    IV

    Il Messaggio

    Macedonia, Gennaio 566 d.C.

    Baian si stropicciò gli occhi sottili come fessure, si lisciò la barba che portava lunga e affilata sotto il mento, poi, vestito un mantello militare volse verso il corteo che gli era stato annunciato ore prima dagli esploratori.

    Sorrise mentre lanciava occhiate veloci qua e là per il campo. Tende di pelli animali erano sparse a perdita d’occhio, spesso rattoppate alla bene e meglio e tutto fuorché impermeabili. Eppure gli uomini erano di buon umore. Baian sperò che Teodoro, il più nobile tra i suoi emissari – nonché l’unico capace di parlare latino – avrebbe portato ulteriori buone novelle.

    E se così non fosse stato, avrebbero inviato a loro volta un nuovo messaggio, assai meno deferente del primo.

    Baian abbracciò Teodoro, sollevando l’anziano nobile mentre questi si inginocchiava portando la mano destra al cuore.

    «Seguimi, caro Teodoro» disse dandogli una pacca sulla spalla «avremo di che parlare, ma il Cielo mi fulmini se lo faremo senza prima esserci dissetati».

    Una volta tornati al palazzo a lui riservato – più che altro una grande costruzione provvisoria in legno, con una base di grosse pietre a supporto– Baian ordinò che fosse portata della birra per sé e per il suo emissario.

    Notò subito però l’imbarazzo del nobile.

    «Che c’è, Teodoro?» chiese sporgendosi dal tavolo imbandito sommariamente «vorresti forse riposare, prima? Non farti problemi. Capisco che sia stato un duro viaggio».

    «Signore» esordì Teodoro a capo chino, «sono in verità costernato. Disponi della mia vita come vorrai perché non porto buone notizie per il popolo degli Avari».

    Baian si fece serio, ma senza apparire minaccioso.

    «Parlami, Teodoro» rispose levandosi il berretto di pelo e rivelando una lunga e folta chioma corvina «nessuno ti torcerà un capello, a meno che tu non ometta volutamente qualcosa».

    Teodoro si torse le mani che teneva giunte, e sollevò il capo sforzandosi di mantenere un atteggiamento degno del suo rango.

    «Ho parlato col nuovo imperatore Giustino, presso il Sacro Palazzo. Egli ha rinnegato il donativo concesso dal suo predecessore, l’augusto Giustiniano, e ha insultato il nostro popolo. Ci ha definito degli occupanti, dei meschini supplichevoli che nulla hanno a che vedere con l’esercito che sorveglia i confini dell’impero. In più» continuò sorpreso di come non fosse ancora caduto in errore «ha asserito che l’esercito è già equipaggiato di uomini a protezione dei confini, e che l’unica cosa che riceveremo dall’impero sarà compassione se torneremo a supplicarli. Se tu ti presenterai a Costantinopoli e ti prostrerai ai suoi piedi».

    Baian bevve un lungo, lentissimo sorso di birra senza staccare lo sguardo da Teodoro, che chinò il capo pronto a subire le conseguenze di quanto aveva ottenuto con la sua ambasceria.

    «Giustino…» disse Baian quasi ringhiando. «Sembra che soffi un nuovo vento a Costantinopoli. Addirittura un imperatore che preferisce mostrare le palle anziché aprirci i forzieri» fece con quanto più disprezzo trovò. Posò poi il boccale.

    Teodoro si alzò istintivamente dalla sedia, e fece per inginocchiarsi.

    «Riconosco il mio fallimento, signore, e accetto qualsiasi pena mi sarà inflitta. Anche

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