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Le avventure di Gordon Pym
Le avventure di Gordon Pym
Le avventure di Gordon Pym
E-book173 pagine2 ore

Le avventure di Gordon Pym

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Info su questo ebook

Le avventure di Gordon Pym, unico romanzo scritto da Edgar Allan Poe nel 1838, sono il resoconto di un immaginario viaggio per il mare alla ricerca del polo Sud ma, nello stile originale dell’autore, l’artificio della scrittura invade l’universo; i labirintici baratri di un’isola sconvolta dal terremoto corrispondono a caratteri alfabetici e un’arcana figura si eleva, nel finale, bianca da uno spazio bianco, prefigurazione degli arcani archetipi del Moby Dick di Melville.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2013
ISBN9788874172900
Le avventure di Gordon Pym
Autore

Edgar Allan Poe

Edgar Allan Poe (1809–49) reigned unrivaled in his mastery of mystery during his lifetime and is now widely held to be a central figure of Romanticism and gothic horror in American literature. Born in Boston, he was orphaned at age three, was expelled from West Point for gambling, and later became a well-regarded literary critic and editor. The Raven, published in 1845, made Poe famous. He died in 1849 under what remain mysterious circumstances and is buried in Baltimore, Maryland.

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    Anteprima del libro

    Le avventure di Gordon Pym - Edgar Allan Poe

    XXIII

    Informazioni

    In copertina: Ludolf Backhuysen, Boats in a Storm, 1696

    © 2019 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata su una traduzione del 1935 delle edizioni Minerva. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

    CAPITOLO I

    Il mio nome è Arthur Gordon Pym. Mio padre era un rispettabile commerciante fornitore della marina a Nantucket, mia città natale.

    Il mio nonno materno, uomo assai facoltoso, mi era molto affezionato; pensavo anzi che egli mi amasse sopra ogni altra cosa e quindi era legit­tima la mia speranza di ereditare, alla sua morte, la maggior parte delle sue ricchezze.

    Quando avevo sei anni, egli mi mise a scuola presso il vecchio Ricketts, un vero gentiluomo, che aveva un solo brac­cio e dei modi originali. Tutti coloro i quali hanno visitato New-Bedford conoscono Ricketts e quindi è superfluo parlarne.

    Continuai a frequentare quella scuola fino a quando ebbi sedici anni, epoca in cui ne uscii per passare all’istituto diretto da mister Rouale, dove feci amicizia col figlio di un capitano di bastimento, un tale Barnard, che solitamente viaggia­va per la Società Lloyd e Vredenburg. Questo Barnard è anch’egli molto noto a New-Bedford; inol­tre ad Edgarton son certo che egli ha molti parenti. Suo figlio si chiamava Augustus ed era maggiore di me soltanto di due anni. Questo ragazzo mi parlava senza fine delle sue avventure sull’Oceano Paci­fico del Sud. Spesso mi portava a casa sua ed io vi rimanevo per delle giornate intere e spesso anche delle intere notti. Durante le notti in cui rimanevo con lui, Augustus non faceva altro che narrarmi delle caratteristiche degli isolani dì Tiniau e di altre località dove egli era stato.

    Fu così che nacque lentamente in me un for­tissimo desiderio di viaggiare, di attraversare i mari.

    Avevo allora un mio canotto a vela che avevo battezzato « Ariel » attrezzato come uno « sloop » e che valeva settantacinque dollari. Non ricordo il suo peso con precisione. Quel che ricordo è che poteva comodamente accogliere circa dieci persone.

    Con questo canotto ci spingevamo nelle più audaci escursioni e, ripensandoci, mi pare un mi­racolo l’essere ancora vivo.

    Voglio raccontarvi una fra le tante avventure che mi capitarono sempre a causa di quel canot­to.

    Una sera partecipai ad una festicciola in casa del signor Barnard. Ancor prima che fosse al termi­ne, io ed Augustus eravamo già alquanto brilli. Con­formemente alle mie abitudini in simili occasioni; anziché ritornarmene a casa, rimasi con lui a dormire. Era circa l’una del mattino, gli invitati si erano ritirati proprio allora dall’abitazione del signor Barnard.

    Ci eravamo messi a letto da circa una mezz’ora e stavo per addormentarmi, allorché Augustus, improvvisamente, bestemmiando come un carrettie­re, prese a protestare che non sarebbe mai successo che egli dovesse dormire mentre fuori tirava una deliziosa brezza di sud-ovest. Poiché non capivo do­ve volesse arrivare, supposi che le libazioni abbon­danti gli avessero annebbiato il cervello.

    Ma Augustus, passando all’improvviso alla cal­ma più cosciente, mi disse:

    — Comprendo perfettamente che tu mi ritie­ni ubriaco; però ti sbagli. Sono soltanto un poco stanco. Ma questa non è certo una buona ragione per starsene a letto in una notte tanto bella. Suvvia! Io sono deciso a rivestirmi e ad uscire per una gita in canotto!

    Augustus non aveva ancora finito di farmi questo discorso, che un impeto di gioia si imposses­sò di me. La proposta del mio amico non era affat­to insensata, anzi.

    Ci si trovava alla seconda metà di ottobre. Il vento fuori era quasi di burrasca ed il freddo si fa­ceva già sentire pungente. Tuttavia balzai fuori dal letto come preso da una improvvisa febbre e dichia­rai ad Augustus che neppur io ero del parere di re­starmene a letto e che mi associavo di buon grado a qualunque passeggiata. In un batter d’occhio ci rivestimmo ed andammo a prendere il canotto.

    L’Ariel era ormeggiato nelle vicinanze del can­tiere Paukei e C. sul molo vecchio. Le onde erano già tanto alte che il canotto era già per metà pieno di acqua. Augustus vi entrò per primo e cominciò a vuotarlo. Non appena ebbe finito alzammo il fioc­co e la vela grande e ci dirigemmo verso il largo. Augusto si pose al timone, io mi sedetti presso l’al­bero sul ponte della cabina e l’Ariel balzò sulle on­de con una velocità fantastica.

    Da quando avevamo lasciato la spiaggia, non ci eravamo scambiati una sola parola. Infine doman­dai ad Augustus dove intendesse dirigersi e quando pensasse di tornare a terra.

    Egli mi rispose rudemente:

    — « Per conto mio » mi dirigo verso l’alto ma­re; « per conto tuo » se credi, sei liberissimo di tornartene a casa.

    Allora lo guardai stupito ed osservai che il mio amico si trovava in uno stato di grande eccitazione. Era pallido in viso come un morto e la sua mano era agitata da un tremito che riusciva a stento a te­nere il timone.

    Una grande inquietudine si impossessò di me. Allora non ero molto esperto nell’arte di dirigere un bastimento ed ero quindi assolutamente alla mer­cé del mio amico. Il vento che soffiava sempre più burrascoso, ci spingeva continuamente al largo. Però io avevo vergogna di lasciar trapelare tutta la paura che mi agitava e per tutta un’ora me ne stetti zitto. Ma infine, dato che quella situazione diveni­va per me insopportabile, espressi ad Augusto il mio desiderio di ritornare verso terra.

    — Ma subito! — mi rispose — Tempo ce n’è... ce ne torniamo a casa... su due piedi!

    Stavolta osservai Augustus con maggior atten­zione.

    Egli aveva le labbra livide; le sue gambe tre­mavano così violentemente da sbattere una contro l’altra e mi sembrava davvero impossibile che egli potesse rimanere in piedi.

    — Mio Dio Augustus! — esclamai folle di spa­vento — Cos’hai? Che succede?

    — Che succede? — ripeté Augustus con un to­no stupefatto e, lasciando andare il timone si rove­sciò bocconi sul fondo del canotto — Che succede? Ma nulla... nulla di nulla... Torniamo a casa, pro­prio a casa... Perdinci! Non lo vedi anche tu?

    Allora capii finalmente e gettandomi su di lui mi sforzai di rialzarlo. Egli era ubriaco, sconciamen­te ubriaco. E la sua ebbrezza non gli consentiva di stare dritto, nè di parlare né di comprendere.

    Preso da disperazione cessai di sorreggerlo ed egli si abbandonò come un corpo inerte, in fondo all’imbarcazione nello strato d’acqua che vi si tro­vava.

    Era chiaro che egli avesse bevuto una maggiore quantità di liquori di quanto prima io avessi cre­duto ed i suoi discorsi e le sue azioni erano la con­seguenza di uno di quegli stati di ebbrezza che, si­mili alla follia, permettono spesso a chi ne è colpi­to di imitare le persone perfettamente lucide di mente.

    Sotto il suo soffio l’energia fittizia dello spiri­to era venuta a mancare e la nozione vaga che Augustus doveva aver certamente afferrato della nostra critica situazione, non aveva giocato ad al­tro che ad affrettare il tracollo. Ed ora egli giaceva inerte nella pozza d’acqua e non v’era da sperare di farlo tornare in sé. Non è possibile immaginare l’immensità della mia angoscia.

    Nel frattempo, l’imbarcazione, sempre col vento in poppa, correva a velocità spaventosa, te­nendo la prua costantemente immersa nella spuma e senza che la vela o il fiocco facessero la minima grinza. Era uno vero prodigio che non fosse già co­lata a picco. Come già ho detto, Augustus aveva lasciato andare il timone ed io avevo perso talmente la testa che non avevo nemmeno pensato a prenderlo io. Fortunatamente riuscii infine ad acquistare una re­lativa calma. Avevo le membra intirizzite tanto che avevano perduto ogni possibilità di sensazione. Nella mia disperazione ricorsi ad un espediente estremo; mi gettai sopra la grande vela e la mollai completamente.

    Come avevo previsto l’imbarcazione scattò di­ritta in avanti e la vela tutta quanta sommersa, trascinò nella sua caduta tutto quanto l’albero.

    Fu questo che mi sottrasse all’inevitabile prossima catastrofe. Procedendo soltanto col fiocco, po­tevo ritrarmi davanti al vento, ricevendo di tanto in tanto qualche enorme ondata che mi giungeva da poppa; comunque ormai ogni pericolo immanente era evitato.

    Abbrancai il timone: v’era ancora una proba­bilità di salvezza.

    Augustus era ancora là inerte in fondo al canot­to, rischiando di morire affogato. Là dov’egli era ca­duto, l’acqua raggiungeva l’altezza di trenta cen­timetri; affinché rimanesse alquanto sol­levato mi sforzai di farlo restare seduto e, legatogli una corda attorno al busto, ne assicurai l’estremi­tà ad un anello sul ponte della cabina.

    Dopo aver provveduto in tal modo alle neces­sità più urgenti, mi affidai alla misericordia divina e decisi di armarmi di tutto il coraggio di cui ero capace per affrontare quanto poteva capitarmi.

    Avevo appena fatto queste riflessioni allorché un urlo prolungato, come il grido uscito da mille bocche diaboliche lacerò l’aria passando sopra la no­stra imbarcazione. Mai, fino a che sarò vivo, dimen­ticherò l’immenso terrore che quel grido mi causò! Sentii che i capelli mi si drizzavano sulla testa e il sangue mi si gelava nelle vene! La vista mi si annebbiò e, senza nemmeno avere il tempo di render­mi conto della causa della mia angoscia, mi abban­donai inerte sul corpo del mio compagno.

    Quando rinvenni mi trovavo su di una grossa baleniera, il « Pingouin » che era diretta verso Nantucket. Attorno a me vidi alcune persone cur­ve a guardarmi attentamente ed Augustus che, molto pallido in volto, si dava da fare a farmi dei massag­gi alle mani. Non appena vide che riaprivo gli oc­chi, le sue espressioni di riconoscenza e di giubilo indussero al pianto ed al riso quei rudi marinai.

    Eravamo salvi! Che gran prodigio! Ben presto mi fu spiegato come s’era svolto il prodigio. L’Ariel era affondato colpito dalla baleniera che face­va rotta a vele spiegate verso Nantucket e che quin­di ci correva addosso ad angolo retto. Dei marinai che si trovavano di guardia a prua avevano visto la nostra imbarcazione quando ormai non era pos­sibile evitare la catastrofe. Era stato il loro grido di allarme che mi aveva tanto atterrito.

    La grossa baleniera, a quanto mi narrarono, era addirittura passata sulla nostra imbarcazione senza arrestarsi cosi come sarebbe scivolata su una piuma.

    Neppure un grido si era alzato dal canotto sfa­sciato. Si era soltanto sentito un lieve rumore, come uno strappo nel momento in cui era passata sulla fragile barca, la pesante chiglia del suo car­nefice, rumore che si era perduto nel fragore del vento. E questo fu tutto. Pensando che il nostro battello, che era già privo dell’albero, fosse uno dei tanti battelli in disarmo abbandonati, il capita­no E. T. V. Block di New-London, si accingeva a proseguire il suo viaggio senza curarsi dell’incidente quando, due marinai che erano fortunatamente di guardia, corsero da lui per informarlo che ave­vano visto un uomo attaccato al timone e che for­se non era ancora troppo tardi per salvarlo.

    Qui vi fu una discussione ma Block incolleri­to, dichiarò che non era affar suo preoccuparsi del salvataggio di ogni barchetta di cartapesta e che per una tale inezia la sua nave non avrebbe virato di bordo. Se era annegato un uomo... ebbene, tanto peggio per lui! E proseguì ancora un poco su questo tono. Ma il suo secondo Henderson, preso da giu­sto sdegno (e tutto il resto dell’equipaggio era d’ac­cordo con lui), rispose in tono deciso al capitano che, per conto suo egli non era altro che un pen­daglio da forca e che pertanto non avrebbe ubbidito ai suoi ordini neppure a costo di essere impic­cato appena a terra per questa sua disobbedienza. Il capitano divenne pallido ma se ne stette zitto. Henderson, scostandolo con una brusca spinta, si precipitò al timone e con tono deciso trasmise gli ordini all’equipaggio, Gli uomini corsero tutti al loro posto e la nave virò di bordo velocemente.

    Intanto che l’imbarcazione era ancora in pan­ne, il secondo fece calare un canotto e balzò dentro accompagnato dai due marinai che avevano detto di avermi visto al timone. Erano appena scesi da bordo quando l’imbarcazione fu scossa da un pro­lungato e violento rullio dalla parte dove spira­va il vento. Intanto Henderson gridò ai suoi di far marcia indietro.

    I due marinai cercavano di proseguire più ve­locemente che potevano ma nel frattempo la bale­niera si era voltata e ricominciava a procedere in­nanzi nonostante che a bordo tutti quanti facessero il possibile per ammainare le vele ed arrestarla.

    Nonostante il pericolo, appena fu in grado di farlo, il secondo si attaccò ai grandi portasartie. Una nuova forte ondata sollevò la costa di tribordo al di sopra delle onde, fin quasi alla chiglia e final­mente l’oggetto delle ansiose ricerche di Henderson gli si rivelò.

    Il corpo di un uomo era impigliato in una ma­niera davvero curiosa sul fondo del canotto. Il « Pingouin » era rivestito di rame ed urtava violentemente contro il canotto ad ogni movimen­to della carena. Quel corpo era il mio!

    Dopo parecchi tentativi fatti ad ogni nuovo ur­to della nave

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