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Dal Volga al Busento. Cronache cosentine di fine millennio
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E-book244 pagine3 ore

Dal Volga al Busento. Cronache cosentine di fine millennio

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La professione di Emilio Tarditi è quella del cronista, nel senso alto e originario della parola: il suo stile mette al centro dell’informazione un certo tipo di fatti che alla lunga mostra l’immagine veridica di Cosenza non solo nella sua evidenza, puramente geografica, di luogo, ma in quel rispecchiamento di speranze, di tensioni morali e di progetti che faceva parlare Cattaneo delle città come “principio ideale delle istorie italiane”.
Dalla Prefazione di F. Walter Lupi
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2012
ISBN9788881019533
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    Anteprima del libro

    Dal Volga al Busento. Cronache cosentine di fine millennio - Emilio Tarditi

    amministrazione.

    Prefazione

    Croniche di Messer Emilio Tarditi, cittadino cosentino

    Da qualche anno, Emilio Tarditi raccoglie in volume i fiori della sua saggistica. Gli affezionati lettori non possono non essere favorevoli a un’intenzione che, in questo modo, consente di trovare sempre una traccia di ciò che è avvenuto nella storia culturale della Cosenza moderna, non dentro una trattazione monolitica (una scelta che non sarebbe nemmeno opportuna, vista la collocazione volutamente minore di certe predilezioni dell’autore) ma attraverso l’attraente forma dei saggi criticamente disposti, certo più confacente a chi fa della lettura in penombra, della testimonianza volutamente locale, una parte qualificata della sua vocazione di intellettuale.

    Ho detto una volta di Tarditi che la sua è la professione del cronista, nel senso alto e originario della parola: uno stile che mette al centro dell’informazione un certo tipo di fatti, che, alla lunga, mostra l’immagine veridica di un universo, di una città, non solo nella loro evidenza, puramente geografica, di luoghi, ma in quel rispecchiamento di speranze, di tensioni morali e di progetti che faceva parlare Cattaneo della città «come principio ideale delle istorie italiane».

    Così Tarditi ha reinterpretato il senso della cronaca cittadina, come rivisitazione di tracce e personalità colte al momento di lasciare un segno nella loro comunità, benché la colpevole distrazione o la corta memoria dei sudditi si muova nel senso contrario, decretando l’oblio o la disperazione.

    Ho scelto il termine sudditi per giocare con un altro tema caratteristico della riflessione di Tarditi. La centralità della buona politica, della buona programmazione che imporrebbe ad ogni elemento pensante della comunità di migliorarne le tendenze e il destino, per quanto marginale questa realtà possa presentarsi. I personaggi scelti da Tarditi diventano subito cittadini evoluti, non temono d’essere isolati, nemmeno per un momento sarebbero indotti a pensare che il villaggio più sperduto della Calabria, la tipografia più disertata e paesana, non siano degni di una poesia, di un giornale, di un libro, di uno sforzo dell’ingegno – dunque – che quando viene alla luce ottiene l’altezza spirituale del più alto Poema, la forza civilizzatrice della testata più illustre.

    Come un meno arcaico Giovanni Villani, il Cronista Tarditi raccoglie i suoi libri, i suoi giornali, le sue poesie «per dare memoria e esempio a quelli che sono a venire», facendo di questi materiali altrettanto voci contro il silenzio, contro la dimenticanza. Ed ogni caffè di provincia diventa le Giubbe Rosse, ogni piccolo cinema la Scala con grande dignità, come l’attore, quando è bravo e passa da povero clown a grande interprete dell’umana commedia. Senza queste trasformazioni e queste utopie, non ci sarebbe cultura né sarebbe valsa la pena di scrollarsi di dosso il sonno dei cento paesi che hanno, alla fine, creato la somma espressione artistica e politica dell’Italia.

    Continuerei, ma ho paura di apparire retorico, proprio a proposito di uno scrittore come Tarditi, la cui pagina si svolge onesta e chiara, nuda di orpelli e di superbia accademica. Quante volte mi ha ricordato i suoi maestri di giornalismo, l’esempio scomodo e schietto di Montanelli, affatto privo di tentazioni retoriche!

    Pure, di fronte all’attività così resistente ed onnivora di Tarditi, senza alcuna immodestia dilettantistica, ma con un’evidente propensione a schierarsi, da intellettuale meridionale e impegnato, sarà necessario capire il perché di tanta vitalità, di tanta ininterrotta fedeltà alla letteratura, a ciò che arriva e si apprende dalla parola scritta.

    La verità è che Tarditi è un orfano di quell’umanesimo che costituisce il punto di riferimento di tutte le sue letture e dell’intera sua moralità. Egli sa bene che la sua, la nostra Cosenza non è più il centro idealizzato, fra Crati e Busento, della più antica accademia telesiana; l’esiguo Busento, anzi, è quasi straripato in Europa, non solo per la risonanza dei versi di Von Platen su Alarico. Nei luoghi ospitali della città vecchia, non circolano soltanto le ombre del Parrasio o del De Sanctis, e nemmeno soltanto i ben disposti fantasmi di vecchi, scanzonati poeti, seduti per sempre ai tavoli del Gran Caffè Renzelli: l’onnipresenza del web, ci ha prodigiosamente accostati alla vita di altri europei più sfortunati che, forse, guardando le «acque storiche» del fiume pensano, magari con rimpianto, alla Neva o al Volga. Adesso, non ha più un senso perdersi, come Luigi Rodotà, per le brevi strade e per le scalinate che si affacciano sul piccolo mondo di prima. Tarditi, intellettuale moderno, ne ha consapevolezza e fa ripartire da queste circostanze la sua cronaca, convinto, in fondo, che una Cosenza così grande in passato non è mai esistita, che Casanova e Bartels non mentivano nel descrivere l’angusta bruttezza di certi interni curiali, di certi paesaggi malarici e terremotati. Ma la posta in gioco – la somma delle memorie – è troppo alta e l’umanista è troppo appassionato e virtuoso per allontanarsi dalla sua città continovata, per assecondare l’invito dello spregiudicato erede di Montanelli, Vittorio Feltri: «Se fossi calabrese me ne andrei» (mentre la sprezzante intervista dell’estate 2011 sulla Gazzetta del Sud, trasferisce in Aspromonte il cliché di un Pasolini a Cutro, che correndo in macchina, nel ’59, riesce a notarvi «una cornice di vuoto e di silenzio che fa paura»).

    Da attento editore di Pasquale Rossi – altra ombra illustre del socialismo cosentino – Tarditi ha capito che, invero, noi calabresi non potremmo andare da nessuna parte, perché «siamo ancora stranieri a noi stessi» e che, per noi, l’unico modo di avanzare dalla miseria morale alla luce, sarebbe di innalzare il livello della nostra autocoscienza.

    Un obiettivo che, ormai, non sembra riguardare soltanto l’Italia meridionale, ma la nazione tutta, sempre più eguale, purtroppo, a un «Paradiso abitato da diavoli», un giudizio su Napoli riferito dal Croce memore di Alexandre Dumas.

    Rievocando queste parole, c’è chi ha detto autorevolmente che gli italiani oggi hanno un assoluto bisogno di «Svegliare i maestri, perché al nostro Paese servono esempi e testimoni di umanità concreta».

    Su questa linea, ho idealmente trovato il bravo Emilio Tarditi, intellettuale di razza e, come capita, maestro di se stesso, nonché di tutti i calabresi che ricevono dai suoi interventi mille buone ragioni per resistere e «farsi contaminare» dal suo essempio, se è vero – credendo alla battuta parallela di Giorgio Bocca – che talvolta un inferno potrebbe essere popolato da angeli.

    F. Walter Lupi

    Università degli Studi della Calabria

    CRONACHE DI STORIA URBANA

    1 Dal Volga al Busento

    2 Un modo di pensare la città. Cosenza città slow

    3 Lettera aperta al sindaco On. Giacomo Mancini

    4 Cosenza, una città più moderna e policentrica

    5 Cosenza e Rende due città complementari

    6 Il mare a Cosenza

    7 Cosenza: dai non luoghi alla città d’arte

    8 Carlo Bilotti mecenate cosentino

    9 Le mani sulla città quarant’anni dopo

    1 Dal Volga al Busento

    Prima del 1989, anno delle rivoluzioni di velluto, degli sconvolgimenti pacifici nell’Europa dell’est, esattamente due secoli dopo lo scoppio della rivoluzione francese, che seppellì un vecchio mondo inventando uno stato nuovo, moderno, fondato sulla divisione dei poteri, nessuno avrebbe mai accettato l’ipotesi che la caduta dell’impero comunista sarebbe stata incruenta. Così, invece, è stato.

    Indubbiamente, un fatto nuovo, che ha prodotto effetti tutt’altro che insignificanti, in tutto il mondo, soprattutto nella vicina Europa dell’ovest, democratica e libera, e al tempo stesso, ricca e all’avanguardia.

    Per la prima volta, dopo la fine della seconda guerra mondiale, abbiamo visto circolare liberamente per le strade d’Italia carovane di russi e di polacchi, soprattutto, a bordo di autobus malandati e tecnologicamente superati dai nostri gioielli Fiat e Volvo.

    Hanno dimorato, adattandosi, un po’ ovunque, nell’estate appena trascorsa, in città piccole e grandi, della costa e dell’interno, vendendo mercanzie prodotte nei loro paesi d’origine a prezzi stracciati.

    Li ho incontrati a Roma e a Venezia, a Gaeta e alle Terme di Guardia Piemontese, e nella mia Cosenza, nella piazza antistante il cinema-teatro Italia e lungo i muraglioni del Busento. Seduti su sgabellini pieghevoli, in jeans, pantaloni corti e magliette, gli uomini, in leggerissime casacche e prendisole, le donne, accompagnatrici di mariti, fidanzati e genitori. Su grezzi teloni tenevano esposte macchine fotografiche, binocoli, utensili di falegnameria e di meccanica semplice (pinze, chiavi, cacciaviti) e tante altre piccole cose, come le simpatiche matrioske e le racchette di ping-pong, o gli orologi da tasca e da polso, ovviamente a carica manuale, e aspettavano che qualcuno s’avvicinasse a chiedere il prezzo.

    Non conoscendo la lingua italiana si aiutavano con le calcolatrici elettroniche tascabili, pigiando sui tasti la cifra corrispondente in lire. Ogni tanto si udiva un niet, no problem, signore... come risposta a qualcuno che offriva poco.

    All’inizio del loro arrivo in molti non vi fecero caso, e nemmeno i commercianti locali s’erano tanto allarmati, ma quando arrivarono altri connazionali dell’est, con nuovi carichi di merce, cominciarono le proteste presso il comando dei vigili urbani.

    Russi e polacchi dovevano tornare nei loro paesi d’origine una volta finito il periodo di soggiorno e, nel frattempo, dovevano astenersi dall’esercizio dell’attività, chiamamola così, commerciale.

    Il fatto di aver trovato, dalla sera alla mattina, europei dell’est sotto casa ci ha, in un certo senso, sorpreso, e spinto anche a qualche considerazione. In particolare: possono chiamarsi poveri questi paesi che la natura ha benignamente favorito con risorse naturali d’ogni tipo, ma che l’uomo, purtroppo, non ha saputo, per cecità e cupidigia di potere, adeguatamente sfruttare?

    Al di là dell’umana simpatia verso questa gente, che ha mal vissuto e patito inaudite sofferenze fisiche e spirituali, in noi abbiamo avvertito il disagio di chi, provando ad immedesimarsi nella loro condizione, sente ferirsi il cuore.

    In idea, abbiamo provato a stare dall’altra parte e, per un attimo, tristezza e smarrimento si sono impossessati di noi.

    2 Un modo di pensare la città Cosenza città slow?

    A distanza di tempo non so ancora dire se dopo il conseguimento della laurea – or sono 30 anni – ho fatto bene, o addirittura male, a rimanere in Calabria.

    Dalla città di Cosenza non ho voluto allontanarmi, pur avendo avuto più d’una opportunità. A Bologna, o in qualsiasi altro luogo dell’Emilia, in Toscana e in Umbria, per me terre molto ospitali.

    Allora, perché qui? Ho creduto, e continuo a credere, che anche Cosenza possa diventare una città diversa: piccola ma aggraziata, aperta alle innovazioni e alle moderne correnti di pensiero, in cui una nuova urbanità può concepire soddisfacenti modelli di comportamento ed una più raffinata civiltà potrà via via affermarsi.

    Noto però che ancora oggi, nonostante molti passi avanti siano stati fatti in questi ultimi anni, si è ancora distanti dalla visione da me immaginata, che presto descriverò.

    Per progettare una città non è necessario un grandioso progetto, occorre una buona visione che sappia far convivere le caratteristiche originarie con le esigenze della modernità.

    Secondo i risultati di una recente indagine del CENSIS, gli italiani sono attratti dai piccoli centri.

    Nei comuni compresi tra i 5.000 e i 20.000 residenti, l’incremento percentuale di abitanti alla fine del 2002 è stato del 3,9%. Per contro è stato registrato un decremento di popolazione del 2,5% nelle città con popolazione compresa tra i 50.000 e i 100.000 abitanti, e del 7,8% nelle città con oltre 100.000 abitanti.

    Questa tendenza si sta così radicando che è nato anche un marchio detto città slow, una rete internazionale di città per le quali viene fissata una soglia massima di 50.000 abitanti.

    Negli anni Ottanta e Novanta del secolo appena trascorso, questa città venne abbandonata da circa 20.000 persone che andarono a vivere nelle immediate periferie. Oggi la popolazione è attestata al di sotto degli 80.000 abitanti.

    Per invertire questa tendenza nuove costruzioni si stanno edificando in luoghi che si credeva fossero destinati ad altre funzioni, presto dimenticando che non è tanto l’esigenza di altri vani ad essere soddisfatta, perché la popolazione in valore assoluto tende a diminuire, quanto quella dei servizi ancora carenti.

    La città di Cosenza alla quale ormai di fatto si sono congiunte quella di Rende e l’ibrida Castrolibero, sbaglia, a mio avviso, a promuovere un ripopolamento, che alla distanza risulterà più dannoso che benefico.

    Cosenza ha una superficie appena di 37,5 Kmq, campagne comprese; il grosso della popolazione è insediato nella parte a valle con una densità abitativa tra le più alte del Mezzogiorno, prossima a quella napoletana: 70-80.000 abitanti insediati in circa 7-8 Kmq urbanizzati, cioè 10.000 abitanti ogni Kmq.

    Su questo dato nessuno ha riflettuto più di tanto, e molti addirittura lo ignorano.

    La mobilità nella città allo stato attuale è estremamente difficoltosa e snervante, con ore e ore di perdita di tempo; l’insufficienza di strade trasversali urbane e perurbane costringe Cosenza a malsopportare i suoi spostamenti interni ed esterni.

    Perciò non è certo un bene quello di tentare di incrementare il numero degli abitanti. L’indagine del CENSIS mi dà ragione: la soglia massima della città slow è di 50.000 abitanti.

    Cosenza se vuole diventare una città di qualità deve puntare ad un sistema di mobilità urbana e suburbana efficiente, nel quale il trasporto pubblico sia determinante, con frequenti collegamenti fino alla tarda sera. Deve allargare il suo raggio d’influenza ai paesi piccoli e grandi che le fanno corona (dalla Presila alle Serre Cosentine, dal Savuto alla media Valle del Crati); nei dintorni c’è più spazio, nel capoluogo è sempre di meno.

    I cittadini vogliono una città di qualità, non una città sovrappopolata, costipata e ingestibile.

    Ovviamente, il sistema della mobilità, insieme a quello idrico e quello della sicurezza, è il più importante, ma altri sono da aggiungere, dalla scuola alla sanità, ai servizi sociali e culturali, alla raccolta e smaltimento dei rifiuti. Tutti problemi da affrontare, come di recente ha sostenuto l’ottimo assessore e docente dell’Unical Domenico Cersosimo, su scala sovracomunale sperimentando inedite architetture istituzionali, dentro e fuori il proprio perimetro urbano. (Il Quotidiano della Calabria, 3 gennaio 2003).

    Non è ancora del tutto definita la visione generale di questa città nella quale mi auguro trovino posto la comodità (possibilità di accedere ai servizi con facilità), la mobilità (i cittadini utilizzino e apprezzino i mezzi pubblici), la velocità (che accoglie i bisogni e li traduce in progetti), la lentezza (che conosca momenti di rilassatezza e ammirazione dei propri luoghi), la comunicabilità (i cittadini siano aggiornati, informati e motivati), l’innovazione (una città ove si studia, si sperimenta e si fa ricerca) e l’evasione (ove residenti e visitatori possano divertirsi e farsi contaminare dagli stimoli culturali).

    Una città così mi gratificherebbe per non averla tradita e abbandonata quando avrei potuto farlo.

    3 Lettera aperta al sindaco On. Giacomo Mancini

    Illustre Onorevole, ora che per il centro storico si è aperta una nuova stagione di speranze che lascia immaginare positivi sviluppi, mi viene da proporre al Sindaco, On. Giacomo Mancini, l’idea di abbattere quel mostro di cemento costruito negli anni Cinquanta al quale venne dato il nome di albergo Jolly.

    L’edificio non ebbe grande fortuna, tant’è che come albergo non ebbe lunga vita. Oggi è sede dell’ex Istituto della case popolari, locatario della Carical, che più infelice insediamento non poteva scegliere.

    Non v’è chi non veda la bruttezza del Mostro, e sono sicuro che in tanti ne vorrebbero l’abbattimento per porre fine al deturpamento della città.

    A Napoli, nel quartiere di Secondigliano, l’enorme edificio le Vele, considerato invivibile per il suo stato di degradazione sociale, oltre che brutto, è stato in parte fatto saltare in aria con il benvolere del sindaco Bassolino e il compiacimento della stampa nazionale ed internazionale.

    Un altro albergo, battezzato come il mostro di Fuenti, lungo la costa amalfitana, noto per la sua orribile mastodonticità, sta per seguire la stessa sorte.

    Si comincia finalmente, dopo anni di incuria e maltrattamenti del territorio, a difendere il bello. E i cento intellettuali che di recente si sono riuniti a Roma rivolgendosi al Governo, al Parlamento, alle associazioni culturali e a tutti i cittadini con queste parole: la bellezza superstite è ancora tanta in Italia, ma va amata, difesa, salvata con slancio e urgenza (Corriere della Sera, 21 dicembre 1997), può essere salutato con felicità.

    Ora, tornando a noi e alla nostra città, che finalmente potrà vedersi restituita la bellezza dei suoi fiumi senza più le pittoresche bancarelle, che nulla avevano a che fare con il cosiddetto decoro urbano, perché non si prende in considerazione

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