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Il disinvolto
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E-book223 pagine2 ore

Il disinvolto

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Info su questo ebook

Il cadavere di un uomo viene ritrovato con un colpo di pistola alla nuca e una mano infilata in tasca. Questo contrasto tra la tranquillità della posa e la modalità violenta della morte infiamma l’immaginazione degli investigatori. Il maresciallo Fini, in fase di divorzio, e il maresciallo Fulco, affetto da ludopatia, iniziano a lavorare al caso del “disinvolto”, tra affiatamento personale e competizione professionale.
Al plot investigativo si intrecciano le vicende di Janko, capo di un’organizzazione di narcotrafficanti, di Maksim, suo fratello minore, e dell’avvocato Federica Marullo.
Dietro lo pseudonimo dell’autore di questo romanzo si cela un Maresciallo dei Carabinieri che, stanco di vedere fiction in cui le indagini vengono raccontate in modo ingenuo, ha scritto con l’obiettivo di presentare la realtà delle tecniche investigative moderne nell’Italia contemporanea.
LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2022
ISBN9788855392617
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    Anteprima del libro

    Il disinvolto - Nico Moretti

    Nico Moretti

    Il disinvolto

    EEE - Edizioni Tripla E

    Nico Moretti, Il disinvolto

    © EEE - Edizioni Tripla E, 2022

    ISBN: 9788855392617

    Collana Giallo, Thriller & Noir, n. 46. Prima edizione

    EEE - Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Cover: credits to Canstockphoto.com/leolitang.

    Questa è un’opera di fantasia; ogni riferimento a fatti o persone esistenti o esistite è da considerarsi casuale.

    A mia moglie G, lei sa perché.

    CAPITOLO 1 - IL RITROVAMENTO

    Piovetella

    17 novembre ore 15.30

    La campagna era bagnata e fangosa. Fulco continuava a imprecare contro il morto, nell’inutile tentativo di mantenere le scarpe pulite. Andrea si stringeva nella giacca di panno, anche lui maledicendo l’uomo senza identità. Il freddo non aiutava l’umore, tuttavia non era quello il vero problema. Si sentiva sempre così, ormai, all’inizio di un’indagine: incazzato. Ogni rottura di palle diventava colpa del povero Cristo di volta in volta strangolato, sbudellato, accoltellato. Come se il cadavere, prima di diventare tale, fosse obbligato a prendere le misure con la loro vita.

    ‘Siete pregati di non morire mentre siamo a una festa, a letto con una bella figa, ubriachi oppure a pranzo da mamma. Specialmente se ha cucinato la parmigiana di melanzane. Gradita anche morte in luogo facile da raggiungere e ben riscaldato. Astenersi perditempo’. Perché non potevano mettere un cartello del genere fuori dalla caserma? Di certo avrebbe giovato alla loro serenità lavorativa. Invece sul tesserino c’era una loro foto con la testa rasata, ricordo sbiadito dei tempi del corso, il numero di matricola e in chiare lettere la scritta: disponibili H24.

    In realtà c’era scritto il grado – Maresciallo – e il corpo di appartenenza - Nucleo Investigativo. Ma erano dettagli insignificanti. La forma non cambiava la sostanza. E la sostanza era che in qualsiasi momento, con qualsiasi clima, di qualsiasi umore fossero, se il comando chiamava per un omicidio loro dovevano alzare il culo e correre sul posto. Senza protestare.

    «Manca ancora parecchio?» Fulco sembrava prossimo a perdere la pazienza. Andrea sorrise, suo malgrado: per Luca Fulco il concetto di assenza di protesta era difficile da digerire. Sudava, nonostante il gelo di quel novembre incazzato, e camminando non riusciva nemmeno ad accendersi la sigaretta.

    «Direi di no» rispose, indicando un gruppetto di persone raccolte intorno al consueto, discutibile nastro di plastica.

    «Il circo è aperto» sputò a terra Fulco, prima di stringere tra le labbra l’agognata Marlboro.

    Il loro arrivo non passò inosservato. Dalla sommità della collina gli venne incontro in tutta fretta uno sbarbatello, con la divisa fresca di tintoria e gli alamari splendenti.

    «Carabiniere scelto, nientedimeno» gli diede di gomito Fulco.

    «Non fare lo stronzo, come al solito» lo rimbrottò Andrea. Ma anche lui rideva. Da quando vestiva in borghese, i colleghi in divisa gli apparivano sempre inadeguati, goffi. Il pantalone troppo largo, il cappello troppo grande, le maniche troppo corte. Avevano tutti quell’andatura circospetta, pinguini rossi e neri che si ostinano a rimanere immacolati anche in mezzo alla merda. Come in quel momento.

    «Siete del Nucleo Investigativo?» li interrogò il ragazzo.

    «No, della buoncostume. È qui il Passion?» lo prese in giro Fulco.

    Il carabiniere scelto strabuzzò gli occhi. Quello non aveva bisogno di tesserino, il curriculum operativo ce lo aveva scritto in faccia: giovane, senza esperienza, spedito in quel paesino dimenticato da Dio appena fuori dalla Scuola Allievi. Alle prese nientedimeno che con un omicidio. Il primo, vero avvenimento diverso dall’incidente tra una mucca e un trattore. Andrea ebbe pena di lui e gli batté una mano sulla spalla.

    «Non fare caso al collega, è incorreggibile. Come ti chiami?»

    «Enrico Calabrò» rispose il giovane, guardando storto Fulco che sogghignava tra un tiro e l’altro.

    «Hai trovato tu il morto, Calabrò?» lo interrogò Andrea.

    «Sì. Cioè, no» si confuse.

    «Sì o no, pivello?» Fulco buttò la cicca lontano, mettendosi di fronte a Calabrò con le braccia conserte. Non gli arrivava nemmeno alle spalle, eppure la strafottenza che metteva in ogni gesto lo trasformava in un gigante.

    Calabrò, vedendosi appellato in quel modo, sembrò recuperare un briciolo di autocontrollo. «Il corpo è stato trovato da quel contadino laggiù» rispose, indicando un vecchio seduto su un masso. «Io sono stato il primo della caserma ad arrivare qui» concluse.

    «E quando lo hai trovato hai fatto tutti i compitini? Cinturato l’area, chiamato l’AG e richiesto il medico legale?» elencò Fulco.

    «E chiamato il Nucleo Investigativo» aggiunse Calabrò, torvo. «Che forse arriverà e inizierà a fare il proprio lavoro, dopo che io ho finito con diligenza il mio.»

    Fulco spalancò la bocca, poi si voltò verso Andrea scoppiando in una risata il cui eco rimbombò nella valle. «Ne ha di fegato, il pivello, eh?»

    Andrea alzò gli occhi al cielo. Fulco non aveva voglia di fare un cazzo, quel giorno come tanti altri che erano venuti prima e come tanti altri che sarebbero venuti dopo. Aveva voglia di rompere le palle, di far incazzare qualcuno, di vomitare il veleno della sua vita in faccia al prossimo. Andando avanti di quel passo, si sarebbe trovato a prendere di petto qualche superiore, e allora le cose avrebbero preso una piega più brutta, quella della sospensione dal servizio. O forse no: Fulco era stronzo, ma non stupido. Si limitava a sfogarsi con i più deboli. Comunque fosse, al solito toccava a lui fare la parte del buono, tenere corto il guinzaglio del collega e nel frattempo cercare pure di portare a casa la giornata.

    «Io sono il maresciallo Andrea Fini, Nucleo Investigativo» si presentò. «Questo è il mio collega, maresciallo Luca Fulco. Forse ha visto un po’ troppe volte Die Hard, ma in definitiva è innocuo.» Calabrò lo stette a sentire con la mascella contratta e i pugni serrati. «Vuoi dirci cosa è successo?»

    Dopo aver respirato a fondo, il pivello scelto dovette decidere dentro di sé che non valeva la pena dare troppa importanza a Fulco. Si rilassò e per tutto il tempo del racconto guardò solo Andrea, dritto negli occhi.

    «Ho parcheggiato l’auto in fondo allo sterrato, come penso abbiate fatto anche voi, perché su questa mulattiera si può salire solo a piedi. Ottocento metri di fangosa salita. Giunto sul luogo, ho verificato le informazioni fornite dal testimone.»

    Andrea represse un sorriso. Calabrò parlava come nelle informative di servizio: un burocratese inutile, buono solo per le barzellette.

    «Accostatomi al luogo in cui si trovava il corpo, ho notato subito una ferita alla nuca con fuoriuscita di frammenti cerebrali. La persona, di sesso maschile, si trovava a faccia in giù con la mano sinistra in tasca e la mano destra sotto il corpo…»

    «Aspetta, aspetta. Come hai detto che stava?» lo interruppe Fulco. Calabrò lo guardò storto.

    «Ho detto che si trovava a faccia in giù, con la mano sinistra in tasca e la destra sotto il corpo.»

    «E chi minchia muore con una mano ficcata in tasca?» si stupì Fulco.

    «Effettivamente questo particolare ha colpito anche me» ammise Calabrò.

    «Il medico legale è arrivato?» si inserì Andrea. Non amava fare congetture prima di aver visionato la scena del crimine, e prima di aver sentito il parere del personale specializzato nella raccolta dei reperti. Tuttavia si rese conto che il dettaglio dell’uomo con la mano in tasca gli aveva acceso i sensi, facendo correre l’adrenalina nelle vene.

    Prima di diventare effettivo al Nucleo Investigativo non avrebbe mai creduto possibile ammetterlo, ma anche quel lavoro all’apparenza imprevedibile poteva trasformarsi in una routine. Chiusi in sala d’ascolto, ogni giorno si sciroppavano una serie infinita di telefonate, registrate o in diretta, tra mignotte e papponi, spacciatori e clienti, usurai e poveri disgraziati. Cambiavano i nomi, cambiavano gli indirizzi, ma la merda era sempre la stessa e il copione si ripeteva senza sosta. Quando arrivava il morto era festa grossa, almeno all’inizio. Si usciva per strada, alla caccia dell’assassino, come vampiri bramosi di succhiare la giustizia. Poi Andrea aveva fatto l’abitudine anche a quello. Lo stomaco non si contorceva più per la nausea, per quanto macabra fosse la scena interveniva il distacco professionale da obitorio. Le prime ventiquattro ore si correva di qua e di là, come tossici in crisi d’astinenza, alla ricerca di indizi e collegamenti. Poi saltava fuori il solito delitto passionale, la confessione del giorno dopo. La giostra chiudeva i battenti, dall’oggi al domani. E loro restavano con l’adrenalina in eccesso, da smaltire a proprio piacimento. Come se fosse facile, da smaltire, tutto quel carico.

    Invece ecco uscire dal cilindro del fato quel cadavere sperduto nella campagna gelata, morto a faccia in giù con una mano allegramente ficcata in tasca. Un semplice dettaglio cambiava il copione visto e rivisto. Niente più della mina vagante eccitava il suo istinto.

    «Sì, il medico legale è arrivato qualche minuto prima di voi.» La voce di Calabrò lo riscosse dai suoi pensieri.

    «Bene, allora sai che facciamo?» si inserì Fulco, gli occhi scintillanti. Di colpo, anche per lui, sembrava riaccendersi la fiammella dei bei tempi andati. I tempi in cui metteva passione nelle cose che faceva, quelli in cui combattere il crimine non era una vuota frase fatta da fiction di serie B. Andrea si augurò che non si trattasse di un abbaglio. Amava fare il proprio lavoro e gli piaceva farlo insieme a Fulco. Quando era il vero Luca Fulco, non la scadente caricatura degli ultimi mesi.

    «Che facciamo?» lo assecondò.

    Fulco aveva già iniziato ad allontanarsi in direzione del nastro, del morto, del centro dell’azione. «Tu vai a sentire cos’ha da dire il vecchio contadino. E fai in fretta, perché vista l’età e lo spavento, potrebbe non arrivare a sera.»

    «E tu che fai?» Andrea conosceva già la risposta.

    Fulco sfoderò il sorriso da squalo, prendendo sottobraccio Calabrò in un gesto che non aveva niente di cameratesco. «Io vado a sentire cosa dice di interessante il medico legale sul disinvolto.»

    Andrea rimase solo, a bocca spalancata. Luca lo stava lasciando al palo, e lui non opponeva resistenza. Erano davvero tornati i vecchi tempi.

    «L’identità di chi?» gli gridò dietro, le parole tranciate dal vento gelido.

    «Il disinvolto» gridò a sua volta Fulco. «Tu come minchia lo chiami uno che muore sparato con la mano in tasca?»

    CAPITOLO 2 - L’ANTICA LOCANDA

    Cervara

    17 Novembre ore 12.30

    Max rimaneva seduto, lontano da lei, incazzato. La pazienza sembrava disperdersi nella stanza, una boccata alla volta. Il verde liquido dei suoi occhi era offuscato dalla rabbia. Fumava e intanto fissava l’accendino. Acceso, spento. Acceso, spento. Un gesto ripetuto, ossessivo.

    Fede lo guardava, aspettando che parlasse. Seminuda, sul letto, con solo il lenzuolo come riparo se quella rabbia si fosse tramutata in furia. Non era molto, ma sarebbe bastato. Max non le aveva mai fatto del male, non fisicamente. Era la mente che da qualche tempo si trovava sotto pressione, costretta a continue e snervanti rassicurazioni. Quella mattina, in particolare, l’incontro stava prendendo una piega amara, dolorosa. Non era mai facile per loro stare insieme, incastrare impegni di lavoro e bugie per godere di un sesso infantile, quasi ingenuo. Un sesso per il quale valeva la pena spararsi cinquanta chilometri di curve, con la ricompensa di due ore scarse in quella stanza che un tempo avevano chiamato nido d’amore. Ora, con l’aria densa di una tensione non espressa, Fede la vedeva per quello che era realmente: una squallida pensione in un buco di culo di paesino. Paese delle stelle, lo chiamavano. Come no. Un paese di vecchi e pietra, testimoni decrepiti della passione sbagliata che li consumava.

    Non appena l’aveva vista, Max l’aveva avvolta nel grande corpo muscoloso e tutto era stato come sempre. Ma adesso, dopo la frenesia e l’orgasmo, era diventato torvo, irrequieto. Le aveva messo pressione al telefono, dicendole di avere poco tempo per loro. Dov’era adesso quella fretta? Sembrava evaporata, dispersa negli umori del sesso.

    «Maksim?» lo chiamò, lasciandosi scivolare il nome sulla lingua. Abbastanza piano da sembrare suadente, non spaventata.

    «Che cazzo vuoi?» le ringhiò contro lui, continuando a fissare l’accendino. Acceso, spento. Acceso, spento. Boccate d’aria velenosa, l’odore della Marlboro a impregnare l’aria.

    «Vieni vicino a me?» provò ancora Fede, toccando piano il bordo del letto. Max rimase immobile, senza guardarla. Era concentrato sulla fiammella, come se da quella potesse arrivare chissà quale risposta.

    «Devi dirmi una cosa, Fede.»

    Eccolo, l’uragano. Iniziava con quella voce roca, resa ancora più ruvida dal fumo. Fede ebbe un brividio, non solo paura ma anche piacere.

    «Dimmi.»

    Max poggiò l’accendino sul tavolo. Dritto in piedi, luminoso. Poi prese il pacchetto di Marlboro, un po’ schiacciato, e glielo mise accanto. Fece tutto con calma, metodo. Una calma che non gli apparteneva, la calma che era di qualcun altro. Quando ebbe finito, incrociò i suoi occhi. Erano velati di lacrime. Non se lo aspettava. Max poteva essere molte cose, ma non un uomo che piangeva. Quell’ombra liquida le fece più paura di mille sedie sbattute contro il muro.

    «Lo vedi questo?» indicò l’accendino. Fede annuì. «Questo sono io.»

    Silenzio.

    «Lo vedi questo?» indicò di nuovo, questa volta il pacchetto di sigarette. Fede annuì ancora. «Questo è lui.»

    Silenzio.

    Le lacrime sparirono dagli occhi di Max, senza aver superato la soglia di guardia. Furono sostituite da lampi di fuoco. Allargò le gambe, incrociò le braccia al petto e si rilassò sullo schienale. «Dimmi perché.»

    Attendeva in silenzio una risposta, mentre Fede non era nemmeno sicura di aver capito bene se quella fosse una vera domanda.

    «Perché cosa?» temporeggiò.

    «Perché lui conta sempre più di me.»

    Chiaro, semplice. Infantile. Impossibile da risolvere.

    Fede ci provava da tanto, da oltre un anno. Forse anche da prima di incontrare Max. Di sicuro, da quando le loro strade si erano incrociate, tutto si era fatto difficile. Complicato. E pericoloso.

    Prima di Max viveva dentro una sorta di bolla, anestetizzata. Moreno era una certezza, Moreno non si poteva mettere in discussione. Prima.

    Fede sentì il petto farsi di piombo, un peso che non voleva portare si era di colpo caricato sul respiro. Max non le stava chiedendo di scegliere, no. Era troppo furbo per cadere in quell’errore. Le stava chiedendo di spiegare perché Moreno continuasse a contare così tanto, come mai lui contasse così poco. Doveva aver ingoiato chili di orgoglio prima di riuscire a compiere quel gesto, sputando fuori la domanda.

    «Vieni qui» ripeté ancora Fede, e questa volta Max si decise a muoversi. L’asciugamano che aveva in vita rotolò a terra, il corpo nudo e massiccio la raggiunse nel fresco delle lenzuola. L’abbracciò senza calore e lei si accontentò.

    «Non è vero» provò a blandirlo.

    «Invece lo è. E devi dirmi perché.»

    «Non lo so.»

    «Sì che lo sai» la pressò Max, stringendole piano il braccio.

    Fede non poteva dire la verità. Non voleva dirgli la verità. Se avesse confessato di non riuscire a lasciare Moreno per paura, era certa che Max l’avrebbe rinchiusa dentro quella stanza. A costo di inchiodare assi alle finestre.

    «Io credo di amarti» sussurrò, esausta. Lo sentì irrigidirsi, l’abbraccio si fece ancora più glaciale.

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