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Un delitto efferato
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E-book206 pagine3 ore

Un delitto efferato

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Info su questo ebook

Mario De Santis è il titolare di uno dei più noti studi legali della città. Da anni siede in parlamento come deputato. La sua famiglia è originaria di Minori e nel piccolo centro della Costiera Amalfitana conserva molte proprietà. Tra le altre un edificio a strapiombo sul mare, in cui da generazioni, i maschi De Santis dispongono di una garçonniere. Custode dell'edificio e dei segreti legati al libertinaggio dei De Santis è un povero cristo, figlio di una ex cameriera della famiglia, ai tempi del padre dell'onorevole. La moglie di Mario De Santis è anch'ella avvocato. Il suo carattere forte e la sua indole indipendente hanno, col tempo creato una tensione nei rapporti di famiglia. Un giorno Mario De Santis viene trovato morto nel suo studio, ucciso a coltellate. Il cadavere viene rinvenuto dalla donna delle pulizie che spaventata chiama la polizia. Il commissario Esposito ed il suo fido ispettore Liuzza cominciano ad indagare.
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2018
ISBN9788833430164
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    Anteprima del libro

    Un delitto efferato - Giuseppe Esposito

    GIUSEPPE ESPOSITO

    Un’altra inchiesta del

    commissario Esposito

    UN DELITTO EFFERATO

    GIUSEPPE ESPOSITO

    Un’altra inchiesta del commissario Esposito

    UN DELITTO EFFERATO

    Prima edizione cartacea 2017

    Isbn 978-88-3343-016-4

    Lello Lucignano Editore

    Tutti i diritti sono riservati. © Copyright LFA Publisher

    Via A. Diaz n°17 80023 Caivano - Napoli – Italy

    Tel. e Fax 08119244562

    www.lfaeditorenapoli.it - www.lfapublisher.com - info@lfapublisher.com

    Partita IVA 06298711216

    Facebook, Twitter, Instagram & Youtube: LFA Publisher

    ¡Oh, sola gracia de la amarga tierra,

    Rosal de aroma, fuente del camino!

    Auras... Amor. ¡Bien haya primavera;

    Bien haya abril florido,

    Y el solo amado enjambre de mis sueños,

    Que labra moel al corazòn sombrìo!...

    (Y estas palabras inconexas)

    Antonio Machado

    Capitolo 1

    Il clamore, per la morte della signora Gigli-Ferrara, si era quasi sopito. Nei primi giorni dopo l’evento luttuoso si erano diffuse voci su un’inchiesta, aperta dalla questura, su quella morte. Voci mai ufficialmente confermate, né smentite. Solo chiacchiere udite in giro nei salotti e nei luoghi di ritrovo abituali. I salernitani pensavano che se effettivamente la questura avesse aperto un’inchiesta, prima o poi qualcosa avrebbe dovuto succedere. Se dei colpevoli fossero stati scoperti, si sarebbe sparsa la notizia del loro arresto. Alla fine tutti avevano ritenute quelle voci, sull’indagine, infondate. La realtà era invece un’altra. In seguito all’accertamento del suicidio, compiuto dal commissario Esposito, in questura c’era stata una riunione. Nell’ufficio del questore dottor Serra erano stati convocati il suo vice dottor Giraudo ed il commissario Esposito. Si era discusso dell’opportunità di rendere note le risultanze dell’inchiesta. Si erano tenute presenti le condizioni del marito della defunta, signor Renato Ferrara e della figlia signorina Marisa. A fronte del fatto che la signora Linda era già stata sepolta e che la sua morte, dal verbale del medico curante, dottor Giuffrè, era stata ritenuta come naturale si era ritenuto inutile ed anzi dannoso scaricare su quella famiglia, già tanto duramente provata, il peso ulteriore di uno scandalo. Il questore aveva pertanto deciso, sentito anche il giudice istruttore , di secretare gli atti dell’inchiesta. Il dottor Giraudo ed il commissario Esposito erano stati invitati ad imporre ai collaboratori che, in quella indagine, erano stati coinvolti, di rispettare la disposizione. Altrimenti si era ventilata l’ipotesi di perseguire coloro che, eventualmente avessero contravvenuto, per abuso di atti d’ufficio. In questo modo col passare del tempo il velo dell’oblio stava, lentamente, calando su quei fatti.

    Quell’esperienza aveva, tuttavia, introdotto nella vita di coloro che avevano vissuto quella esperienza, un elemento di discontinuità. Se prima di allora la routine era stata considerata come norma, dopo quell’esperienza l’ordinaria amministrazione veniva sopportata a fatica. I componenti del piccolo gruppo, utilizzato dal commissario nelle indagini, rimpiangevano l’attività di quei giorni. Tutti cominciavano a sperare che presto potesse avvenire un qualche fatto che avrebbe loro permesso di rivivere nuovamente l’eccitazione di allora, il contatto col mondo esterno, con la vita e con quella realtà con cui, chiusi nei loro grigi uffici, rischiavano di perdere il contatto.

    I mesi invece passavano senza che nulla di straordinario accadesse. Ne erano già trascorsi quasi sei. Si era ai primi di dicembre, il sei, per la precisione, quando il fatto, tanto auspicato, avvenne. Quel pomeriggio, intorno alle diciotto, il commissario Esposito era davanti alla finestra del suo ufficio a guardare fuori. Il buio della sera era già calato ma la città, come tutti gli anni, in quel periodo, brillava di mille luci. Erano quelle della Mostra di arte luminosa denominata: Luci d’Artista. Tutti gli anni, con un certo anticipo rispetto alle feste di Natale, l’Amministrazione comunale indiceva un concorso cui partecipavano in molti. Una commissione apposita sceglieva il progetto ritenuto più meritevole. Sotto la direzione dell’artista vincitore venivano realizzate le luminarie.

    Ogni anno il tema della mostra cambiava. Quell’anno il tema scelto era costituito da Stelle cadenti, Lanterne magiche ed Arcobaleno. Le luci si stendevano per un percorso complessivo di ventisette chilometri lungo le vie cittadine. Alla prima accensione presenziava il sindaco in persona. Dalle altre città della Campania ed anche oltre, arrivavano comitive di turisti per ammirare lo spettacolo. L’illuminazione rallegrava la città per tutta la durata delle feste di Natale. Il commissario, davanti alla finestra, osservava, dunque, le luminarie installate nella Villa comunale. In quel momento udì il telefono squillare alle sue spalle. Lentamente si portò presso la scrivania e sollevò l’apparecchio. La voce dell’agente di servizio al centralino gli disse: Commissà, scusate, vi passo la telefonata di una signora, sembra una pazza. Strilla e piange, dice che c’è un morto e che dobbiamo correre. P. udì il clic del centralino che commutava la chiamata e subito dopo dovette allontanare la cornetta dall’orecchio. La voce di una donna, probabilmente, in preda ad un attacco isterico gridava aiuto: Presto, presto, per carità, correte qui è successa una disgrazia. Lo hanno ucciso. Correte… Correte subito, fate prestoooo! Il commissario impiegò cinque minuti buoni per farsi dire, dalla voce al telefono, da dove stava chiamando. Alle fine riuscì a capire che l’indirizzo a cui dovevano accorrere era quello di via Velia quindici. P. indossò il soprabito, uscì dall’ufficio e si sporse oltre l’uscio della stanza dell’ispettore Liuzza: Liù, presto dobbiamo andare. È successo un fatto grave.

    Dove dobbiamo andare, commissà?

    Ci ha chiamati una donna da via Velia, al numero quindici, deve essere successa una cosa grave. Forse un delitto. Liuzza sentì scorrere l’adrenalina lungo le vene, saltò dalla sedia prese a volo il cappotto e seguì il commissario lungo il corridoio. La sera era piuttosto fredda e ventilata, come spesso a Salerno. Si ficcò in testa una sorta di passamontagna di lana. Sul portone d’ingresso il commissario lo guardò e sorridendo gli disse: Meno male che non ci hanno chiamato per una rapina, altrimenti la scambiavano per uno dei rapinatori.

    Commissà – rispose Liuzza – qua fa un freddo cane e all’età mia mi debbo riguardare la carcassa. A proposito, come andiamo, a piedi o con una macchina?

    Meglio a piedi – disse il commissario – qua con stò casino delle luminarie facciamo prima che con la macchina. Poi si avviò, seguito da Liuzza. Si immersero nella folla natalizia di gente che col naso all’insù ammirava le luci di Natale. Le Luci d’Artista, come pomposamente l’amministrazione comunale le aveva battezzate. Al commissario sembravano luminarie di una festa di paese. Un anacronismo o uno spreco come la parte politica avversa al sindaco sosteneva. Si diceva che fossero costate svariati milioni di euro. Soldi che avrebbero potuto essere destinati ad impieghi migliori, pensavano in molti.

    Fendendo la folla giunsero al civico quindici di via Velia. Un palazzetto a due soli piani. Un’edilizia anni venti, del secolo scorso. L’ingresso era posto lateralmente, in un vialetto chiuso da un cancello. Il palazzo era senza portiere. Una piccola folla di curiosi si era già radunata, richiamata dalle grida della donna. Salirono le scale ed al primo piano, davanti ad una porta spalancata un altro piccolo drappello di curiosi, chiacchierava, fermo sul pianerottolo. Al passaggio dei due poliziotti si scostarono, lasciando uno stretto passaggio al centro. Il commissario, tallonato dall’ispettore varcò la soglia e guidato dai lamenti che si udivano, fin dalle scale si ritrovarono in un piccolo salottino. I mobili intorno erano tutti di un legno scurissimo. Un divanetto a due posti e due poltroncine in legno, con dei cuscini a rendere meno scomoda la seduta, erano sistemati intorno ad un tavolino basso. Alle pareti vedute di una Salerno di più di ottant’anni prima. L’appartamento non era adibito ad abitazione pensò il commissario. Nell’entrare infatti aveva lanciato uno sguardo oltre l’uscio delle altre stanze che si aprivano sul piccolo ingresso adibito apparentemente a sala d’attesa. Sembrava uno studio di avvocato. Forse era questo che si poteva leggere sulla targa, posta accanto all’ingresso. Il commissario si chinò sulla donna dal volto rigato di pianto e dalla chioma scarmigliata, per chiederle dove fosse successo il fatto. La poveretta, che doveva aver esaurito tutto il fiato nel lanciare le urla isteriche, che P. aveva sentito al telefono, fece cenno con la mano in direzione dell’ultima porta che si apriva in fondo ad un breve corridoio. P. fece cenno a Liuzza di seguirlo. Entrarono nella stanza indicata. Uno studio, con la scrivania sulla parete di fronte, una libreria a vetri a destra ed un divanetto sulla sinistra. Quasi nell’angolo una finestra che dava sul vialetto di accesso. Davanti alla scrivania, sul tappeto rosso a disegni floreali, su cui anche il tavolo poggiava,vi era un uomo riverso sul fianco sinistro, una mano sull’addome e l’altra tesa oltre la testa, le gambe flesse. Il sangue sgorgato da una ferita, probabilmente all’addome aveva formato una larga chiazza, in parte assorbita dal tappeto e parte giunta fin sulle mattonelle, del pavimento. Appena entrati il commissario sentì Liuzza prorompere in una esclamazione: Maronna mia, che impressione. P. lo guardò corrugando lo sguardo e gli disse: Liù, per la miseria, si contenga un po’. Diamine che figura, davanti a tutta stà gente. La polizia che si impressiona alla vista del sangue.

    Dottò – cercò di porre riparo l’ispettore – io fino ad oggi un morto ammazzato non l’avevo mai visto.

    E già – rispose seccato il commissario – io invece li frequento tutti i giorni i cadaveri. Piuttosto cominci a farsi dare le generalità da tutti questi spettatori. Inoltre cominci a chiedere se c’è qualcuno tra di loro che ha visto o sentito qualcosa. Io chiamo in questura per il medico legale, la squadra della scientifica e un’ambulanza. Poi aggiunse: Lei chiami in ufficio e si faccia mandare un paio di persone. Così ci aiutano a tenere lontani i curiosi. E aiutano lei a controllare tutta stà gente che si accalca. Mentre Liuzza, con grande sollievo, andava fuori a registrare le generalità degli astanti, il commissario si mise ad osservare la scena. L’uomo era stato colpito probabilmente all’addome. Non si capiva, data la posizione se da un arma da taglio o da un proiettile. Indossava un completo grigio di buon taglio, una camicia azzurra ed una cravatta che il commissario aveva visto nella vetrina di uno dei negozi di abbigliamento maschile tra i più cari tra quelli sul corso. In attesa del medico, tornò nella stanza accanto dalla donna che aveva dato l’allarme. Si era alquanto ripresa, ma parlava a fatica. Signora – le disse il commissario – se la sente di parlare? – la donna fece cenno di si – Come si chiama?

    Mi chiamo Cioffi Anna.

    Mi può dire a chi appartiene la casa?

    Questo è lo studio dell’onorevole Mario De Santis. Lui usa la stanza a fianco quando è... – poi si corresse – quando era a Salerno.

    L’onorevole è quello? E il morto della stanza qua vicino?

    Si, è proprio lui, madonna santa mia. Che paura.

    Lei che ci faceva qua dentro?

    "Io faccio le pulizie dello studio, tutte le sere.

    E c’era solo lei, stasera, quando ha scoperto quello che è successo?

    Si stasera c’ero solo io. Ma normalmente c’è sempre qualcuno a quell’ora. Qualcuno degli avvocati, la segretaria. Stasera invece non c’era nessuno.

    E come mai? Lei lo sa?

    No non lo sapevo. Comunque io ho le chiavi, per ogni evenienza.

    E normalmente, quante sono le persone che lavorano nello studio?

    La donna compitando sulle mani cominciò a dire: Allora l’onorevole, due praticanti, la segretaria e poi un altro avvocato anziano che poi è il suo socio, da prima che fosse eletto, quando ancora seguiva le cause anche lui. Poi c’è anche un avvocato donna, anzi due, perché anche la moglie dell’onorevole fa l’avvocato e lavora qui nello studio.

    Cioè - disse il commissario – in totale ci sono, normalmente, sette persone?

    Eh si – disse la donna – li avete contati pure voi no?

    Si li ho contati, sono sette.

    Il commissario chiamò Liuzza e gli disse: Sembra che il morto, che per inciso, dovrebbe essere l’onorevole, avvocato Mario de Santis, abbia una moglie. Guardi nella stanzetta vicino all’ingresso. Dovrebbe essere l’ufficio della segretaria, ci dovrebbe essere un’agenda. Sempre che ancora le usano e non hanno registrato tutto sul computer. Comunque, se la trova, veda di reperire il numero di casa di questo onorevole.

    Mentre dava indicazioni a Liuzza arrivarono il medico legale, la squadra della scientifica e due portantini con una barella. Il commissario raccomandò di non muovere nulla e di lasciare che la scientifica terminasse il suo lavoro. Poi si accostò a quello che sembrava essere il medico legale e disse: È lei il medico? Piacere sono il commissario Esposito. Non ci siamo mai conosciuti fino ad oggi. Ha già dato un’occhiata al cadavere? Si? E cosa può già dirmi?"

    Piacere commissario, sono il dottor Giovanni Pastore, medico legale. Non ho molto da dirle, per il momento, apparentemente sembra che sia stato colpito da due coltellate al ventre. Non credo che sia morto subito. Ci ha messo un po’ di tempo.

    E secondo lei da quanto tempo è morto?

    Giudicare dalla temperatura e dal rigor mortis che ho potuto rilevare, è da poco iniziato, direi che non sono trascorse più di tre ore dalla morte.

    Ha riscontrato altre ferite, oltre a quelle che hanno causato il decesso? Che so alle mani alle spalle?

    Ho capito commissario che cosa vuole sapere. No non c’è stata colluttazione, né il nostro ha tentato di resistere. Probabilmente è stato colpito a sorpresa e non ha avuto il tempo di difendersi. L’assassino gli doveva stare di fronte. Lo ha colpito, credo con un movimento dal basso verso l’alto con una lama affilata. A proposito, l’arma del delitto, l’avete trovata?

    No dottore, non abbiamo trovato nessun arma. Credo che l’assassino se la sia portata via. Inoltre non ci sono gocce di sangue da nessuna parte, probabilmente, dopo l’omicidio l’assassino deve aver ripulito la lama sul tappeto. Ho visto delle striature di sangue in un angolo.

    Va bene commissario, dopo che la scientifica ha terminato, me lo fa portare lì in istituto. Il personale dell’ambulanza sa dov’è. La saluto.

    Mentre il dottore andava via arrivò una donna, giovane, tailleur blu, camicetta bianca e foulard al collo. Chiese del commissario, poi lo vide e si presentò: "Il commissario Esposito? Piacere sono Marina Grimaldi, il giudice istruttore. Mi hanno avvertito dalla questura che l’avrei trovata qui. Cosa mi dice?

    Guardi dottoressa, ho appena finito di parlare col medico legale. L’onorevole De Santis è stato ucciso probabilmente con due coltellate all’addome. La morte presumibilmente risale a circa tre ore fa. A scoprire il cadavere è stata la donna delle pulizie. Manco a farlo apposta all’ora in cui questa viene a pulire gli uffici c’è sempre qualcuno. Oggi invece non c’era nessuno. La poveretta è sotto choc.

    Il magistrato andò a dare uno sguardo alla scena del delitto, poi tornò subito dal commissario. Appariva alquanto stravolta. Evidentemente, anche lei, come molti altri poliziotti o magistrati non aveva, forse, mai avuto a che fare con un morto ammazzato. Si avvicinò, con uno strano pallore in volto e disse: Commissario, va bene. Ho visto quello che avevo da vedere. Mò faccia un rapporto e mi tenga informata. Ci vediamo domani. Io vado.

    Il commissario, mentre la donna si avviava all’uscita, con un passo malfermo chiese: Dottoressa, vuole che la faccia accompagnare? C’è giù una nostra macchina."

    No grazie, commissario, credo che un po’ d’aria non può farmi che bene. Ed uscì.

    P. si spostò nell’ingresso e si mise ad osservare le persone che che Liuzza interrogava e di cui riportava su un notes generalità e dichiarazioni. Quando Liuzza si accorse che il commissario si era portato nell’ingresso, tirò fuori dalla tasca della giacca, una piccola rubrica. La porse al commissario dicendo: Dottò, questa stava sul tavolo della segretaria. Ho dato una guardata, ci sono un sacco di numeri di telefono. Può vedere lei se trova quello della casa del morto?

    P. prese la rubrica dalle mani di Liuzza e cominciò a sfogliarla. Trovò il numero e ne digitò le cifre sul cellulare. Il telefono squillava ma nessuno rispondeva. Guardò l’indirizzo e pensò di mandare qualcuno ad avvisare la moglie. Mentre stava per farlo, si udì un brusio sulle scale. Poi la siepe di curiosi si aprì ed entrò una donna sulla quarantina, pallida, nervosa. Entrò nell’appartamento e rivolgendosi al commissario, l’unico che in quel momento non era alle prese con

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