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L'eredità Rocheteau
L'eredità Rocheteau
L'eredità Rocheteau
E-book274 pagine2 ore

L'eredità Rocheteau

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Info su questo ebook

Tutte le sfumature del giallo in questo affresco parigino contemporaneo, dove intorno a un'eredità contesa prende vita una storia fatta di emozioni, intrecci, colpi di scena, protagonisti inattesi, legami di sangue e tradimenti. Il meglio, ma soprattutto il peggio, della natura umana in un unico romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2023
ISBN9791221470468
L'eredità Rocheteau

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    Anteprima del libro

    L'eredità Rocheteau - Valeria Valcavi Ossoinack

    Capitolo I. Il rapimento

    Boulevard de Belleville

    Pioveva che Dio la mandava.

    Non c’era quasi nessuno in giro, quel giovedì sera. La poca gente che era uscita, si era stipata nei locali. C’era solo qualche figura scura che camminava a passo spedito, riparata come poteva sotto l’ombrello. Nessuno passeggiava, nessuno si fermava a chiacchierare, nessuno si guardava intorno.

    Meglio così.

    Parcheggiò il furgone a poca distanza dal civico 19, sullo stesso lato della strada. Ebbe fortuna, perché a quell’ora e in quel quartiere, di solito, non si trovava neanche un buco. Boulevard de Belleville brulicava di vita notturna, di giovani, di artisti. E dove ci sono gli artisti, si sa, c’è sempre qualcosa di interessante da fare. Per fortuna, quella pioggia aveva fatto cambiare i programmi a molti.

    Controllò ancora che fosse l’indirizzo giusto. Aveva scritto solo il numero, dettato al telefono, su un foglietto di carta, perché quella strada la conosceva bene e non c’era il rischio che gli passasse di mente.

    Sovrappensiero, girò il foglietto e il 19 era diventato un 61. Rimase a pensarci un po’, sarebbe stato il colmo sbagliarsi così di grosso, ma poi puntò tutto sul 19.

    Si sentì come quella volta al casinò. Era andato a Mentone a giocare, e gli era andata bene. Aveva vinto ottomila franchi alla roulette, che era come dire milleduecento euro: ci mise un po’ a fare il calcolo, dopo un anno doveva ancora abituarsi. Pensò che gli sarebbe andata bene anche quella sera. Si rimise il foglietto nella tasca, e aspettò.

    Alle dieci e quarantacinque, nello specchietto retrovisore, vide un taxi che accostava davanti al 19. Il respiro gli si fermò. Tenne gli occhi incollati allo specchietto. Dopo un minuto, vide scendere dall’auto il tassista. E subito dopo una donna. I due andarono verso il bagagliaio. Per qualche momento li perse di vista. Poi la donna ricomparve con il suo trolley e il tassista risalì in auto.

    Doveva muoversi prima che entrasse nel portone.

    Guardò in giro, non c’era anima viva. Aspettò che il taxi fosse ripartito. Poi afferrò il passamontagna, se lo infilò in testa e aprì la portiera del furgone.

    Quattrocento secondi

    Fu più facile del previsto. La donna non oppose resistenza, quando sentì l’ago premere alla base del collo. Le ordinò di mettere i polsi dietro la schiena, glieli legò con una fascetta da elettricista e la spinse verso il furgone. Con l’altra mano, prese il trolley e se lo trascinò dietro. La fece salire dal portellone posteriore, sollevandola per la vita. Poi salì anche lui.

    Da quando il taxi si era allontanato, era passato meno di un minuto. Si sentiva il cuore in gola, sulle tempie, dovunque meno dove doveva essere. Aveva le pulsazioni di un martello pneumatico. E nella sua testa, facevano lo stesso rumore.

    La donna non aveva neanche gridato, tanto era stata colta di sorpresa. Aveva gli occhi sbarrati dal terrore. Le legò le caviglie come aveva fatto con i polsi. La prese da sotto le ascelle e la distese sul pavimento del furgone. Era così freddo che fu scossa da un brivido. Solo allora cercò di urlare, ma lui le mise una mano sulla bocca e la bloccò mettendole un ginocchio sul petto. Poi prese un rotolo di nastro adesivo, ne strappò un pezzo coi denti e la imbavagliò. La donna cominciò a singhiozzare. Lui le piantò la siringa nel braccio e spinse.

    Doveva andarsene da lì. Scavalcò il sedile e si mise al posto di guida. Vide un uomo che portava a spasso il cane, ma era troppo impegnato a ripararsi dalla pioggia per accorgersi di quello che stava succedendo a pochi metri da lui.

    Accese il motore, mise la freccia e si allontanò, cercando di combattere il desiderio di spingere sull’acceleratore. L’ultima cosa che voleva era attirare l’attenzione di qualche pattuglia di passaggio.

    L’appartamento era a Bobigny, nella periferia nord-est della città, a meno di tre chilometri da boulevard de Belleville. Era stato scelto vicino per rimanere in strada meno tempo possibile. Ogni minuto in più avrebbe aumentato i rischi. Era in un palazzo popolare, di quelli abitati da gente incline a farsi i fatti suoi, perché non voleva che gli altri si facessero i loro. Aveva provato il percorso per tre volte e lo aveva memorizzato: sei o sette minuti al massimo, dipendeva dai semafori.

    Svoltò a destra in rue Rébeval, a sinistra in rue Lauzin, poi ancora a destra in rue des Dunes e a sinistra in rue Manin. Trovò un rosso. Sentiva la testa che gli scoppiava. Il rumore del tergicristallo sembrava amplificato. Vide una luce blu lampeggiante nello specchietto laterale. Gli si gelò il sangue. La macchina della polizia accese la sirena, lo superò e proseguì a gran velocità. Era un bagno di sudore.

    Finalmente scattò il verde. Attraversò place Armand Carrel, girò a sinistra e poi subito a destra in rue Menaydier. Imboccò rue de Lorraine e, finalmente, dopo un’ultima svolta a destra, sbucò in avenue Jean Jaurès. Si fermò davanti al numero 152, spense il motore e si aggrappò al volante con tutt’e due le mani. Cercò di calmarsi. Poi guardò l’orologio.

    Ci aveva messo sei minuti e quaranta. I quattrocento secondi più lunghi della sua vita.

    La donna era addormentata.

    Tutto bene

    Tutto bene?"

    Sì.

    Ti ha visto qualcuno?

    Non credo.

    Non credi?

    No, non mi ha visto nessuno.

    Sicuro?

    Eravamo da soli.

    Dov’è?

    Di là.

    Come sta?

    Dorme.

    Non ti ho chiesto se dorme.

    Non le ho fatto del male.

    Bravo.

    Come faccio a richiamarti?

    Ti richiamo io.

    E se succede qualcosa?

    Non deve succedere niente.

    Capitolo II. Brevi biografie

    Il notaio Lacombe

    Era la mattina del 14 marzo 2003. Era passato poco più di un mese dal funerale.

    Aveva piovuto dalle otto della sera prima fino all’alba: una pioggia fredda e persistente, di quelle che ringrazi il cielo di aver cancellato quell’impegno a cena. Nessuno avrebbe detto che tra una settimana sarebbe stata primavera, neanche i più ottimisti. E a Parigi, gli ottimisti non erano mai stati la maggioranza.

    Edmond Lacombe era un uomo sulla sessantina, tarchiato, uno che se lo avessi visto senza il suo abito su misura di alta sartoria e non avessi fatto caso alla sua perfetta manicure, avresti potuto scambiarlo per un uomo di fatica.

    Lacombe abitava dalle parti di Les Invalides, nel VII arrondissement, e nessun uomo di fatica entrava mai in quei portoni, se non per un trasloco o per dei lavori di manutenzione. Il suo studio notarile era poco distante, in rue Saint-Dominique: una passeggiata di dieci minuti, che talvolta allungava per godersi un momento tutto per sé.

    Non quella mattina, però: la temperatura era scesa a quattro gradi e c’era un’umidità che ti entrava nelle ossa, per non parlare del vento, che ti arrivava diritto in faccia.

    La moglie gli raccomandò di coprirsi bene e gli chiese come sarebbe stata la sua giornata. Lacombe le rispose che aveva un testamento, alle dieci. Era un’eredità ricca, anche per i suoi canoni. Ricca e complicata, così temeva. Era preoccupato, ma non lo diede a vedere alla moglie. La baciò su una guancia e le augurò una buona giornata. Quella mattina, in punti diversi di Parigi, altre persone uscirono di casa per andare in rue Saint-Dominique.

    Pierre Rocheteau era morto nel sonno, lasciando una fortuna in beni finanziari e proprietà immobiliari. Avrebbe compiuto ottantotto anni tre giorni dopo. E avrebbe venduto l’anima al diavolo per assistere all’apertura del suo testamento.

    Ma neanche il diavolo può arrivare a tanto.

    Claire

    Claire soffriva di tremendi mal di testa. E aveva dormito poco e male, quella notte, nonostante la solita generosa dose di analgesico. Avrebbe voluto farne a meno, perché si rendeva conto che ne stava diventando dipendente, ma l’insonnia e il dolore avevano sempre avuto la meglio sulla sua volontà. Aveva sentito la pioggia picchiettare sulle tegole del tetto finché non si era addormentata, verso le tre. Abitava all’ultimo piano di un bel palazzo di rue de Conde, a due passi dal Jardin du Luxembourg. Nelle belle giornate, ci passava interi pomeriggi: si trovava con le amiche sotto il patio o, quand’era da sola, si sedeva vicino alla fontana centrale e osservava i bambini giocare con le barchette a vela.

    La rilassava e, finché era lì, riusciva a non pensare a niente.

    Claire Rocheteau era la figlia maggiore di Florentin, uno dei due fratelli di Pierre, entrambi deceduti. Suo padre aveva avuto un infarto due anni prima. Viveva da solo, e lei non si era mai perdonata di essere stata fuori Parigi, quel giorno. Forse avrebbe potuto salvarlo, perché era successo all’ora in cui di solito passava a trovarlo.

    Aveva cinquantadue anni e due matrimoni alle spalle. Non aveva figli. E i suoi rimpianti erano in numero superiore ai suoi sogni.

    Quando aveva saputo della morte dello zio Pierre, avvisata dal fratello, stava andando a un appuntamento con un tal Roland, un uomo elegante e con un certo fascino, conosciuto qualche sera prima a un vernissage della nipote. Claire non credeva più nell’amore, ma non c’è bisogno di crederci troppo quando ciò che si cerca è solo un po’ di calore.

    La mattina del 14 marzo si preparò con anticipo, com’era sua abitudine. Si sedette a guardare il pesante orologio a pendolo: un’eredità del padre, che ci stava come un pugno in un occhio con il resto dell’arredamento. Si disse che doveva trovare il coraggio di disfarsene.

    Quando suonarono le nove e mezzo, chiamò un taxi e si fece portare in rue Saint-Dominique.

    Jacques

    Jacques Rocheteau era la pecora nera della famiglia.

    Aveva sette anni meno di Claire, ma per senso di responsabilità, sembrava ancora un adolescente. Aveva l’aria strafottente di chi è sicuro di cavarsela in ogni situazione. Non sempre ci era riuscito e allora era stato suo padre a toglierlo dai guai: il denaro e i buoni avvocati aprono molte porte, comprese quelle della galera, se non si sono commessi reati gravi. L’ultima volta, appena cinque anni prima: Jacques era stato coinvolto in un giro di diamanti falsi, ma poi le accuse erano cadute, dopo che un paio di gioiellieri avevano finto di dimenticarsi la sua faccia e il presunto complice si era preso interamente la colpa.

    Per mettere a tacere tutti, il padre aveva dovuto vendere un appartamento in rue de Rivoli, a due passi dal Louvre.

    Era un forte giocatore. Scommetteva soprattutto sui cavalli. A Longchamps, l’ippodromo parigino, era conosciuto come il Biondo. Aveva perso ingenti somme su cavalli sicuri che poi tanto sicuri non erano, e spesso aveva rischiato grosso con gli allibratori, che non è gente che va tanto per il sottile. Una volta si era fatto dieci giorni di ospedale, per contusioni varie, tre costole rotte e un sospetto trauma cranico. Ultimamente si era dato una regolata, almeno così giurava in famiglia, per quanto nessuno desse più molto peso alla sua parola.

    Jacques non era cattivo. Sapeva essere generoso e affettuoso. Aveva anche un figlio, Lucas, di undici anni, nato da una precedente relazione con una donna che gli aveva perdonato tutto, finché era arrivato il momento che non era riuscita a perdonargli più niente. E allora se n’era andata, portandosi via il bambino e quel poco che aveva. Si chiamava Alizée.

    Un anno più tardi, Alizée aveva trovato un brav’uomo, un commerciante di calzature. Lei e Lucas vivevano in un paesino dalle parti di Lille. Jacques vedeva suo figlio una volta al mese e, nella bella stagione, lo portava al mare. A Natale e al compleanno gli faceva sempre dei bei regali. Troppo costosi, a sentire la mamma, ma lui era fatto così.

    Suo padre era morto chiedendosi ogni giorno dove avesse sbagliato con quel figlio. Sua madre era ancora viva, ma aveva una forma avanzata di Alzheimer, e da tanto tempo non si chiedeva più niente.

    Quando arrivò sotto il portone del notaio Lacombe, vide la sorella che stava scendendo dal taxi. L’abbracciò con forza. L’ultima volta si erano incontrati al funerale, nella chiesa di Saint-Sulpice. Claire notò che era taciturno, una cosa non da lui, e gli chiese se andasse tutto bene. Jacques si accese una sigaretta e le rispose di sì, con un bel sorriso.

    Il suo bel sorriso.

    E in effetti, non poteva andare meglio, perché quel testamento, ne era sicuro, lo avrebbe messo a posto per molto tempo. Non che si aspettasse un trattamento privilegiato, ma il vecchio era così ricco che ce n’era per tutti.

    Vincent

    Vincent Rocheteau era il classico uomo rispettabile, stimato da tutti: mai uno scandalo, mai neanche un’indiscrezione. Era sposato da trentadue anni con Marguerite Delbecque, una donna della buona società che si trovava a suo agio in ogni occasione pubblica ma che, in privato, sapeva stare al suo posto. Aveva avuto da lei tre figli, i primi due avviati a buone carriere in campo economico e la terza che studiava biologia all’École Normale Supérieure. L’unico suo cruccio era di non essere ancora diventato nonno, ma Fabrice, il maggiore, si era appena sposato e quindi era solo questione di tempo.

    Per quanto riguardava il resto della sua famiglia c’era poco da dire: non aveva più i genitori, non aveva fratelli o sorelle

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