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L’ultimo canto di Orfeo
L’ultimo canto di Orfeo
L’ultimo canto di Orfeo
E-book128 pagine1 ora

L’ultimo canto di Orfeo

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Fantascienza - romanzo breve (101 pagine) - Ritorna un grande maestro con una pregevole riscrittura dei miti dell'antica Grecia


Nel corso della sua lunga e straordinaria carriera Robert Silverberg ha prodotto centinaia di racconti e romanzi, svariando in tutti I generi letterari. L’ultimo canto di Orfeo, la sua ultima storia di una certa lunghezza, è un gioiello letterario di eccezionale fattura, una magnifica riscrittura dei miti greci, e in particolare di quello che forse è il mito più poetico e toccante della civiltà occidentale. In questo romanzo breve Silverberg ci racconta, da un punto di vista autobiografico, la vita di Orfeo, vagabondo, semidio, ed eccezionale musicista. Con tono limpido e struggente Orfeo ci narra le sue vicende, il suo amore per Euridice e il triste epilogo del suo viaggio nell’Ade alla ricerca della sua amata. Ma ci narra anche le avventure degli Argonauti e della loro odissea alla ricerca e riconquista del leggendario Vello d’Oro. È un racconto di uomini e di dèi, di incontri miracolosi, e del potere inesorabile del Fato. Ma è anche una riflessione acuta e saggia sulla forza dello spirito creativo, e dell’eterna ricerca da parte dell’uomo di un equilibrio armonioso in un universo dominato dal caos. Costruito in maniera magistrale, questo romanzo ci mostra Silverberg al meglio delle sue capacità narrative, maturo e stilisticamente perfetto: nelle sue mani i vecchi miti assumono una luce nuova e originale, e ci fanno meditare sulla natura umana e sul suo ruolo nel mondo.


Robert Silverberg è unanimemente riconosciuto come uno dei massimi autori della fantascienza contemporanea. Nato a Brooklyn (New York) il 15 gennaio del 1935, iniziò a scrivere SF d'avventura negli anni '50, diventando ben presto uno degli autori più famosi e prolifici e ottenendo il premio Hugo come autore più promettente del 1956. Durante la metà degli anni sessanta però, spinto dal desiderio di dimostrare a se stesso e agli altri le sue capacità di vero scrittore, e di essere in grado di realizzare anche opere di qualità, Silverberg impresse una svolta decisiva allo stile dei suoi romanzi, iniziando a produrre opere di maggiore impegno umano e letterario. Tra gli scritti più importanti di questo secondo periodo ricordiamo Ali della notte (con cui vinse anche un premio Hugo), Brivido crudele, Torre di cristallo, forse la sua opera più completa e riuscita, Vertice di immortali, Paradosso dei passato, e Mutazione, che si inserisce in quel gruppo di romanzi dedicati da Silverberg alla descrizione e all'esplorazione dell'esperienza mistica della trascendenza. A Silverberg abbiamo dedicato molti numeri di questa collana, e L’ultimo canto di Orfeo, scritto con grande maestria, rimane una delle sue migliori novelle dell’ultimo periodo.

LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2021
ISBN9788825415117
L’ultimo canto di Orfeo
Autore

Robert Silverberg

<p>Robert Silverberg has won five Nebula Awards, four Hugo Awards, and the prestigious <em>Prix Apollo.</em> He is the author of more than one hundred science fiction and fantasy novels -- including the best-selling Lord Valentine trilogy and the classics <em>Dying Inside</em> and <em>A Time of Changes</em> -- and more than sixty nonfiction works. Among the sixty-plus anthologies he has edited are <em>Legends</em> and <em>Far Horizons,</em> which contain original short stories set in the most popular universe of Robert Jordan, Stephen King, Ursula K. Le Guin, Gregory Benford, Greg Bear, Orson Scott Card, and virtually every other bestselling fantasy and SF writer today. Mr. Silverberg's Majipoor Cycle, set on perhaps the grandest and greatest world ever imagined, is considered one of the jewels in the crown of speculative fiction.</p>

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    L’ultimo canto di Orfeo - Robert Silverberg

    9788825413304

    1.

    Ora pizzica la lira d’oro. Suona un accordo squillante. Un altro, più forte. Ancor più forte: un accordo che svegli i morti. Sì, persino questo: neanche la morte può resistere alla tua musica. Così pizzica la lira; sveglia i morti; fai piangere i fiumi, Orfeo, e fa che gli alberi si svestano delle foglie per il dispiacere.

    E pizzica un altro accordo, ancor più forte. E poi più smorzato, e ancor più smorzato.

    Canta, Orfeo!

    Canta la tua vita, e la comprensione di cose sacre che ti è stata concessa, e le opere che gli dèi ti hanno assegnato, e le sofferenze mentre compivi quelle opere, e la tua morte. E l’eterno rinnovamento che segue la morte.

    Canta!

    2.

    Questo sarà l’ultimo mio canto, che io suono per te, Museo figlio mio, raccontando tutto quel che c’è da dire della mia vita. Il mio ultimo canto, ma anche il mio primo, perché nella mia fine è il mio principio, e per me non ci sono né fini né principi ma solo il cerchio che è l’eternità. Il mio senso di spazio e tempo non è come il tuo, perché io so meglio di te, meglio di quanto potrà mai qualsiasi mortale, che il serpente Tempo è curvo su se stesso e si afferra la coda con la bocca. Io sto fuori; io contengo tutto; io percepisco l’alfa e l’omega e per me essi non hanno lo stesso ordine delle cose e la stessa disposizione che hanno per te. Passato, presente, futuro: per me, come per tutti coloro i quali sono completamente o in parte divini, sono qualcosa di totalmente inseparabile. I miei ieri sono i miei domani, i miei domani sono i miei ieri. Fu decretato che devo rivivere per sempre il mio passato, indistinguibile dal mio futuro, ed entrambi costituiscono un eterno presente. Ho vissuto e sono morto, e ho vissuto nuovamente e sono morto ancora, e così sarà, ripetutamente e ripetutamente e ripetutamente, nei secoli dei secoli.

    Se ti dico cose che già conosci, perdonami, perché gli dèi ritengono necessario che tu le ascolti nuovamente.

    Io sono Orfeo, figlio di Apollo. Almeno, questo si dice, che egli fosse mio padre. Non lo nego. Ma dicono anche che mio padre fosse Eagro, re di Tracia, che governava sul rozzo popolo analfabeta dei Ciconi, e non nego neanche questo. Non nego nulla; né confermo nulla. Ma posso almeno dire che, al di là di ogni dubbio, mia madre fu la musa Calliope. Fu lei che m’insegnò come comporre versi da cantare, e Apollo che mi diede la lira d’oro, che Hermes costruì con le sue mani. E così la musica è sgorgata da me per tutta la mia vita come da una fontana inesauribile. Come a dire che c’è stata musica nel mondo fin dall’inizio dei tempi e che la musica durerà fino alla fine dei tempi, e oltre di essa, fino al momento del nuovo inizio.

    Ero solo un ragazzo quando Apollo venne a me con quella lira. Non giovane, in verità – non fui mai giovane, come non sarò mai vecchio – ma questo accadde nel tempo della mia vita in cui ero un ragazzo. Vivevo in Tracia alla corte di mio padre re Eagro, e la vita che conducevo era quella di qualunque giovane principe, e cioè cacciare e padroneggiare i giochi e presenziare ai riti e ai sacrifici e più tardi prendervi parte e imparare come maneggiare una spada e una lancia e in minor misura come creare dei versi e metterli in musica. Mio padre era un uomo grezzo, distante, dalla folta barba, forte e cupo, come spesso sono i re. Non ero il suo unico figlio e ci parlavamo di rado, per quanto egli fosse buono con me per quanto gli era possibile. S’era consacrato al dio Dioniso e spesso eseguivamo i riti turbolenti appropriati a quella divinità, le feste alla luce delle torce e il sacrificio delle bestie e il canto di canzoni e le bevute di vino e talvolta anche di sangue.

    Mia madre Calliope la vedevo assai poco. Non risiedeva a corte, ma di tanto in tanto mi dicevano che era venuta a vedermi, e io andavo in una caverna nella foresta che era considerata un luogo sacro per ricevere il suo abbraccio materno. Era alta e bella, veramente bellissima, una donna dal seno prorompente e dagli occhi luminosi con lunghi capelli lustri. C’era attorno a lei come una luce speciale che mi diceva – anche in un tempo quando non capivo quasi nulla – che doveva essere di origine divina. Ma alla fine spettò alla mia balia di rivelarmi che lei era una delle nove muse, le figlie di Zeus e Mnemosine, e che, come molte sue sorelle, andava di tanto in tanto tra i mortali e giaceva con loro e gli dava figli, così che gli speciali doni delle Muse sarebbero passati dagli Olimpici alla razza del genere umano. Così lei aveva adescato Eagro in quella caverna in un giorno di lampi e pioggia torrenziale, mentre lui se ne andava a caccia e aveva avuto improvvisamente bisogno di un riparo, e lì gli si era concessa, e io ero il frutto di quell’unione. Così disse la mia balia, in ogni caso. Quello fu un momento meraviglioso per me, quando mi venne detto che mia madre era divina e che io ero nipote di Zeus.

    Ma doveva ancora giungere una rivelazione più grande, non molto tempo dopo. Stavo inseguendo un cinghiale nella foresta in una giornata scura, con le nubi che incombevano basse e spesse. Mentre correvo in una fitta radura una voce dal nulla pronunciò il mio nome, una voce tranquilla che comunque incuteva rispetto come quella di cento re.

    – Orfeo – disse, e io mi fermai e mi voltai, stupefatto, e tra due possenti querce si fece avanti un uomo snello dai capelli d’oro di tale bellezza che io immediatamente seppi trattarsi di un dio. Nelle sue mani reggeva una lira di straordinaria fattura, e potevo vedere i corni di un’altra lira che s’alzavano dietro di lui, assicurata alla sua schiena. Con quella stessa voce gentile e sbalorditiva disse: – Ho un regalo per te, Orfeo.

    Mi porse la lira. Ne avevo avuta una mia dalla tenera età, e m’ero illuso di suonarla con una certa abilità, ma non ne avevo mai vista una come questa. La sua cassa armonica era un guscio di tartaruga, ma un guscio di tale bellezza e perfezione del disegno che non s’era mai vista in questo mondo, e bracci e traversa non erano di legno bensì d’oro; quanto alle corde – ce n’erano sette – anch’esse erano d’oro, come lo erano i pioli ai quali erano assicurate. Tenevo la mia mano sospesa su di esse e le mie dita tremavano.

    – Suvvia – disse lo straniero. – Toccale!

    Al suo comando le toccai – avevo sempre usato solo le dita, mai un plettro, con le mie lire – e da esse venne un suono che mi fece tremare e smuovere il cuore nel petto.

    Non c’è suono come quello della lira. Non trafigge le orecchie come quello del flauto, né scuote le colline come un tamburo colpito a dovere, né fa battere il cuore con impulsi guerrieri come lo squillo della tromba. Ma riesce a compiere altre cose, e sono grandi cose, perché accompagna perfettamente la voce umana, adattandosi al contorno del suono del canto alla maniera del corpo di una donna che s’adatta a quello di un uomo. Le sottili sfumature del suo suono non hanno paragone nella loro bellezza, e nelle mani di un maestro la lira cattura il cuore dell’ascoltatore e lo tiene in una presa irremovibile. Nel momento in cui toccai la nuova lira che il dio mi aveva dato – perché non avevo dubbi che di un dio si trattasse – seppi che sarei stato un maestro del genere, e che tutto il mondo si sarebbe arreso al potere del mio canto.

    – È per te – disse. – È opera di Hermes, e c’è n’è solo un’altra di questo tipo in tutto il mondo. – Che ora lui prese dalle sue spalle; e ne sfiorò le corde amorevolmente e trasse da loro una musica che non somigliava a nessuna musica che orecchie mortali avessero mai ascoltato.

    In un attimo sconvolgente giunsi a comprendere che dovevo essere alla presenza dello splendente Apollo in persona, e che in un certo senso ero suo figlio come lo ero di Eagro. Suonò una melodia e mi fece cenno col capo e io ne suonai un’altra in risposta, e lui sorrise – finché non avete visto il sorriso di Apollo non potete capire cosa possa essere un sorriso – e rispose al mio motivo esitante con una fiorettatura tutta sua, alla quale replicai con più coraggio, raccogliendo forza e fiducia con ogni movimento delle mie dita contro quelle corde d’oro, così che dopo un po’ la musica che veniva da me era quasi altrettanto potente quanto quella che lui m’offriva. E per diverso tempo restammo lì nella radura segreta, a suonare l’uno per l’altro, finché non fui più sicuro di chi tra noi fosse Orfeo e chi Apollo.

    Poi lui chiuse la nostra canzone con una fiorettatura finale e tutto fu silente e io ero nuovamente soltanto Orfeo, ma un Orfeo trasformato per sempre.

    – Ora sai chi sei e chi sarai – disse.

    E sì, era vero: ero Orfeo, il creatore di canzoni. Apollo venne spesso da me in quella foresta e mi istruì sull’arte della melodia così che ciò che usciva dalla mia lira poteva toccare il cuore persino di una pietra, e quando andai da mia madre Calliope nella sua grotta, lei m’insegnò i segreti per creare versi che avrebbero incantato la gente allo stesso modo in cui poteva catturarli un incantesimo; e così

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