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Il Ritorno di Astaroth
Il Ritorno di Astaroth
Il Ritorno di Astaroth
E-book229 pagine3 ore

Il Ritorno di Astaroth

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Info su questo ebook

In un mondo post apocalittico, la tranquilla vita della nuova razza degli elfi Liosalfar della città di Kalahari, circondata dall'omonima foresta, viene minacciata dal ritorno del Mago-Demone Astaroth, il quale, riportando dall'Averno antiche creature sconosciute, è deciso a sterminare la razza elfica e tutte le altre razze che le sono alleate.

Sarà la stirpe reale elfica degli Adervein, con l'aiuto del potente Mago Shutarka, del suo giovane adepto e dei Ma-Ha-El, ad avere il compito di fermarlo in ogni modo e ad ogni costo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 set 2022
ISBN9791221413397
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    Anteprima del libro

    Il Ritorno di Astaroth - Sosio Gagliardi

    CAPITOLO 1

    GLI ADERVEIN

    Il sole era sorto già da alcune ore sulla Foresta di Kalahari, il popolo degli Elfi della stirpe Liosalfar era nel pieno delle attività mattutine. Mentre la rugiada evaporava sotto i caldi raggi solari, i giardinieri potavano le siepi della residenza degli Adervein, la famiglia reale che governava quelle terre.

    Il maniscalco ferrava i cavalli, gli agricoltori curavano gli orti reali, tutti, da buoni elfi, dedicavano attenzione alla madre terra, ai suoi frutti e agli animali che ci vivevano.

    Per un elfo questo veniva prima di ogni altra cosa.

    Solo Erik Adervein ancora dormiva. Nonostante i vari rimproveri di suo padre, re Plinio Adervein, il ragazzo continuava ad alzarsi tardi e a non seguire la vita reale con i suoi annessi impegni.

    Era un ragazzo al di sopra delle regole, anzi verso queste ultime nutriva proprio una noncuranza riprovevole, ma, nonostante ciò, era un ragazzo di sani princìpi, anche se era cresciuto senza madre: Brinda era morta quando Erik aveva solo dieci anni e il padre, oberato di lavoro, lo aveva seguito meglio che poteva.

    Di animo buono e molto intelligente, adorava la natura, spesso rimaneva ore a fissare gli uccelli o le piante, ammirando anche il lavoro dei curatori del regno, a volte anche aiutandoli con felicità smisurata nei loro compiti, creando in alcuni servitori momenti di imbarazzo.

    Erik avrebbe voluto essere un elfo qualsiasi, in quanto la vita reale non faceva per lui.

    Eppure, un giorno, dopo la dipartita del padre, lui sarebbe diventato re; volente o nolente, il serio impegno di proteggere e guidare il suo popolo era il suo destino.

    Era quasi ora di pranzo, quando Kurgan, il fedele gnomo servitore del principe, bussò alla porta delle sue stanze.

    «Mio signore, è ora di alzarvi, il re chiede di voi» disse con umile voce il servo fedele.

    Il ragazzo si tirò su a sedere con sguardo perplesso e assonnato.

    «Grazie, Kurgan, già so che mio padre vorrà rimproverarmi, ancora una volta, per i miei comportamenti poco reali» disse accennando un sorriso.

    Lo gnomo sorrise e, prima di uscire, porse al principe il vassoio con la colazione: del buon latte appena munto, pane caldo e frutti della foresta, così rossi da sembrare rubini.

    Erik consumò in fretta la sua colazione e si lavò ammirandosi allo specchio, era molto narciso verso il suo aspetto.

    Aveva trentacinque anni, non era molto alto, circa un metro e settanta centimetri, ma aveva un fisico perfetto, asciutto e scolpito, lunghi capelli ricci e biondi incorniciavano il suo viso dai lineamenti precisi, quasi disegnati, quasi femminili, per la loro perfezione; i suoi occhi celesti e la sua classica bellezza elfica incantavano le persone, anche se egli non sfruttava questa sua virtù, preferiva essere conosciuto per la sua personalità.

    Vestitosi, scese verso lo studio del padre.

    Lo studio di Plinio era molto ampio, le grandi vetrate garantivano una luce così immensa e calda che sembrava di essere nel giardino reale, le pareti erano adorne di librerie cariche di nuovi e antichi volumi sull’essere elfo e vivere da elfo raccolti nel corso dei secoli, Plinio stesso, essendo re da oltre quarant’anni, ne aveva scritti alcuni.

    In fondo alla stanza c’era un tavolo ovale di quercia con sei scranni posti intorno, era usato nelle riunioni dell’Alto Consiglio Elfico.

    Nella parte opposta della stanza, re Plinio stava seduto dietro la sua scrivania e consultava i vari documenti inerenti alle spese di gestione dell’esercito elfico.

    Plinio era un padre e un monarca molto severo, ligio al dovere, al codice e alle formalità, anche se allo stesso tempo amava girare tra il popolo senza scorta reale, ascoltando i bisogni e le problematiche di qualsiasi membro del regno.

    I suoi occhi grigio ghiaccio e la sua alta statura ingannavano riguardo alla sua personalità, ma era comunque un re molto rispettato e benvoluto dal suo popolo.

    Il suo motto era «Un vero re si deve amare, non temere». Concentrato sui suoi documenti, sussultò quando qualcuno bussò alla porta.

    «Avanti!» esclamò il re.

    «Buongiorno, padre.»

    «Erik, figlio mio, era ora!» esclamò guardando il figlio con aria severa.

    «Padre, perdonami, ma ieri sera ho letto fino a tardi e stamane ero esausto» cercò di giustificarsi Erik con aria colpevole.

    «Figliolo, devi imparare a essere onesto prima con te stesso se vuoi esserlo con gli altri. Hai quasi trentacinque anni, alla fine diventerai re, e quando giungerà il momento dovrai essere in grado di proteggere, guidare e rappresentare il tuo popolo.»

    «Padre, so che ti reco dolore nel dire questo, ma ti ho già spiegato più volte che la vita reale non crea in me interesse alcuno, preferisco essere sincero che assecondarti. L’unica cosa che posso garantirti è che, se non ci sarà alternativa, un giorno, il più tardi possibile, governerò il nostro popolo con la massima serietà, come mi hai insegnato.»

    Dopo una pausa riflessiva, Plinio riprese parola.

    «Ad essere sincero non sei sulla buona strada, ma, per dimostrarti che ho fiducia in te, ti concedo la possibilità di accompagnarmi nel mio viaggio verso le rive del lago Malaren, devo conferire con lo Shutarka. Le sentinelle che sorvegliano il lato nord-est della foresta mi hanno comunicato la richiesta di quest’ultimo di parlare con il re in persona, solo con il re, ma non credo ci siano problemi se tu mi accompagnerai.»

    «Sappiamo già di cosa si tratta, padre?» chiese con curiosità Erik.

    Plinio sospirò: «No, come detto, vuole parlare solo con me, ma non mi aspetto nulla di buono, difficilmente lo Shutarka si sposta dalla sua dimora, e ogni volta che lo fa sono brutte notizie; oramai è pazzo, il conoscere e praticare la magia lo ha consumato nel corso degli anni. Rimane in ogni caso una risorsa per tutti i popoli che albergano nei nostri territori, nelle difficoltà è sempre stato al fianco di chi non possiede magia.»

    Alzandosi e aprendo la porta, aggiunse: «Lo conosco bene da molti anni, fidati di me, in un altro momento ti darò maggiori informazioni, promesso».

    Plinio si diresse verso la scrivania e volse il suo sguardo ai documenti davanti a lui.

    Erik capì che la conversazione era terminata, salutò il padre avviandosi verso i giardini reali, rimuginando sui loro discorsi.

    Il principe si sedette su una panca del giardino, gli occhi preoccupati di suo padre ancora gli balenavano nella mente, ma ancora ignorava il motivo per cui una semplice richiesta di colloquio dello Shutarka agitasse così il re e questo agitava anche lui.

    L’esatto contrario di Erik era suo cugino Rupert, un elfo basso e tozzo: i suoi capelli a caschetto, il suo trascurarsi, l’essere molto goffo nei movimenti e la sua ossessione per il cibo, erano fonte di continue burle (senza cattiveria) del principe che lo definiva un incrocio tra un troll e un nano o un maiale con la parrucca. Quello che distingueva Rupert, però, era il suo modo di vivere la vita sempre col sorriso scherzoso e il suo animo gentile verso tutti. Il popolo degli Elfi lo amava anche più di Erik.

    Rupert si avvicinò al cugino e si sedette accanto a lui, dopo alcuni secondi d’indugio disse: «Erik, cos’è quella faccia da troll? Lo zio ti ha rifilato la solita bacchettata per i tuoi atteggiamenti nobili?».

    Un debole sorriso forzato segnò il volto di Erik.

    «No, è solo che... non ne posso parlare con nessuno» disse in fretta.

    «Non mi sembra che io sia nessuno!» esclamò fingendosi offeso Rupert.

    «Hai ragione, perdonami, ma non dire a mio padre che ho proferito parola con te riguardo a ciò che sto per dirti!»

    Sorridendo Rupert giurò: «Prometto, dovessi diventare uno gnomo peloso!».

    Erik raccontò la conversazione avuta con il padre con cura, marcando ogni piccolo dettaglio, compreso l’evidente stato di preoccupazione del re.

    Rupert ascoltava attento e silente per non perdere una parola, poi espresse il suo parere.

    «Non è che tutte queste letture, sugli esseri umani che volano su potenti uccelli di ferro e viaggiano su strane carrozze di metallo senza cavalli, ti fanno diventare paranoico?»

    E scoppiò in una risata palesemente forzata per sdrammatizzare il momento.

    «Ti sembra il caso di scherzare? La cosa è delicata e comunque le leggende sull’antica razza umana sono vere, non me le sono inventate» disse esterrefatto Erik.

    «Già che sono leggende... comunque, stavo solo cercando di distrarti, caro principe dei miei stivali. In ogni caso non ci resta altro che aspettare e conferire con lo Shutarka, poi decideremo cosa fare.»

    Vedendo lo stupore di Erik aggiunse: «Certo, hai capito bene: decideremo! Vengo anche io. Abbiamo sempre fatto tutto assieme, poi lo sai che sono un impiccione. Parlerò io con mio zio. Ora andiamo a pranzo, tuo padre ci starà aspettando e io muoio di fame, sono due ore che non mangio nulla».

    I due cugini si destarono e presero la strada per il salone, in cui la famiglia Adervein desinava parlando di come organizzarsi per il viaggio.

    Nei giorni seguenti, né i cugini né il re parlarono della faccenda, tutti erano impegnati nei preparativi per il viaggio. Anche Rupert, all’insaputa del re, si preparò accuratamente grazie al cugino. Il lago Malaren distava due giorni e mezzo a cavallo, dovevano portare coperte e viveri sufficienti per il viaggio di andata e ritorno.

    La sera prima della partenza, Rupert bussò alla porta dello zio.

    «Avanti!» esclamò il vecchio elfo.

    «Oh, Rupert, a cosa devo la tua visita?»

    Senza esitare e girare intorno al discorso, Rupert disse:

    «Salve, zio, so già che non approverai. Sono venuto a parlarti riguardo al tuo viaggio verso il lago Malaren: vengo anche io con voi. Io ed Erik siamo sempre stati molto uniti e credo sia giusto che vi accompagni...». Poi, «Sarei utile per cucinare nelle soste», aggiunse, sperando di risultare simpatico a suo zio, già viola in volto.

    Re Plinio si alzò dalla sedia, raggiunse il nipote e posò una mano sulla sua spalla dicendo: «Avevo espressamente detto a Erik di non proferire con nessuno della cosa, ma come al solito quel ragazzo non mi ascolta; il viaggio è secretato in quanto non ne conosco neanche io il significato. Ti ha spiegato che è lo Shutarka che mi ha convocato? Non so il perché, ma sento a pelle che potrebbero esserci dei pericoli.

    Porto Erik solo per cercare di dare qualche responsabilità a quel ragazzo che rifiuta ogni regola».

    «So tutto, zio. Visto che ho quasi quarant’anni e visto che si tratta della mia famiglia, credo di essere abbastanza adulto da poter decidere se è il caso o meno di venire.»

    Guardava Rupert fisso negli occhi con affetto. Da quando Caius, il fratello maggiore di Plinio, era morto, lui si era preso cura come poteva di Rupert come se fosse figlio suo.

    Rupert non sapeva il perché, ma spesso aveva l’impressione che lo zio si sentisse in colpa. Brinda e Caius erano morti lo stesso giorno di malaria e nonostante le sacrosante insistenze di Rupert ed Erik, Plinio non aveva mai voluto parlare con loro dei dettagli, il che gli recava ancora più dolore del pensiero dei congiunti scomparsi.

    La somiglianza tra il fratello e il nipote, però, lo poneva in soggezione, cosa che il giovane sfruttava quando poteva per avere l’appoggio dello zio.

    Ritornato in sé, Plinio disse al nipote: «D’accordo. In due magari riusciremo a tenere lontano dai guai quell’incurante di tuo cugino. Ma ti avviso: seguirai ogni mia direttiva, queste sono le condizioni. Adesso vai, ci aspettano due giorni e più di viaggio e domani si parte all’alba... Buonanotte, Rupert, mi raccomando puntuale».

    Lentamente Rupert si avviò verso la porta, si voltò, salutò e ringraziò lo zio augurandogli una buonanotte, poi corse via sorridendo perché aveva avuto la meglio come sempre.

    Si diresse verso i suoi alloggi senza passare da Erik, ora che aveva visto anche lui negli occhi di Plinio la preoccupazione il sorriso era svanito... era diventato pensieroso e serio in volto, in effetti non c’erano abbastanza elementi per essere preoccupati così, a meno che suo zio non nascondesse qualcosa, qualche informazione non rivelata.

    Plinio era molto di più per lui, era un padre, un amico, era un esempio da seguire, lo idolatrava come un dio, lo aveva cresciuto come se fosse suo figlio, nonostante le tante difficoltà personali. Ritrovarsi vedovo e senza un fratello, a governare un popolo e a crescere due adolescenti nello stesso tempo, non era stato facile, Rupert sapeva in cuor suo che lo zio ci aveva messo tutto sé stesso per essere all’altezza.

    Un breve attimo di commozione sorprese i suoi occhi mentre si coricava, pensando a quanto fosse importante per lui essere un Adervein, ne era molto onorato.

    CAPITOLO 2

    IL RITORNO DEI VALPUGISNACK

    All’alba la compagnia era pronta per il lungo viaggio. Re Plinio comunicò le ultime direttive da seguire raccomandandosi con i due ragazzi.

    «Mi raccomando, non fatemi pentire di avervi portato con me: fate ciò che vi dico anche se non lo ritenete giusto, non fate passi affrettati, siamo un gruppo unito e uniti si rimane.»

    «Padre non capisco tutta questa filippica per un viaggio di due giorni, io e Rupert siamo andati tante volte in quelle terre per pescare nel Fernaidor, sei certo che vada tutto bene? Non voglio mancarti di rispetto, ma sembra proprio che tu nasconda qualcosa» sbottò adirato Erik.

    Il monarca sospirò e si scusò con i due ragazzi.

    «Perdonami, Erik... anche tu, Rupert, a volte dimentico che non siete più gli adolescenti in cerca di guai che mi hanno fatto ammattire. Ora siete uomini e da un bel po’, anche se siete sempre i miei ragazzi.

    Ora andiamo, si sta facendo tardi e non voglio farmi vedere mentre partiamo. Vi prometto che alla prima occasione ne parleremo assieme.»

    Detto questo, salì in groppa al suo cavallo norico, invitando Rupert ed Erik ad accelerare la partenza.

    Passarono inosservati varcando le mura di cinta della fortezza, in quanto la sentinella di turno si era appisolata: se per loro non fosse stata favorevole la situazione alle mura, l’atteggiamento della guardia del corpo reale sarebbe stato condannato a dovere. Procedendo a passo lento e senza parlare, si addentrarono nella foresta che circondava la città di Kalahari, da cui il reame prendeva il nome.

    A metà giornata si fermarono per pranzare, fu un pasto veloce a base di frutta e pane che colse le lamentele di Rupert.

    «Non potevamo accendere un fuoco? Avrei preferito di gran lunga della carne d’agnello o uno stufato di pollo con verdure, se non mangio bene sono nervoso... senza contare che avevi promesso di parlare di questo viaggio e non l’hai fatto.»

    Il re fece un debole sorriso e disse: «Questa era solo una breve pausa, in modo che per il calar della notte saremo a metà strada. Stasera, se raccoglierai la legna per il fuoco, avrai il tuo agnello o quello che preferisci e parleremo. Ora rimettiamoci in cammino, è in arrivo un temporale e vorrei aver montato la tenda per la notte quando ci sorprenderà».

    Borbottando Rupert risistemò la sella pronto per continuare il viaggio e i due continuarono a scherzare sulla troppa importanza del cibo da parte del giovane.

    Solo Erik se ne stava per le sue pensieroso e turbato, ma gli altri non se ne accorsero; era fatto così, quando una cosa gli sfuggiva rimuginava in continuo tormentandosi senza trovarne il motivo.

    Man mano che proseguivano, la foresta si infittiva sempre più, i grossi rami dei grandi abeti rossi si intrecciavano l’un l’altro quasi a formare una rete che li proteggeva dai diretti raggi solari. Più di una volta Erik rimase in disparte, convinto di aver sentito un rumore alle loro spalle, ma apparentemente erano soli; forse aveva ragione il cugino a dargli del paranoico, anche se non ne era proprio convinto.

    Usciti dal tunnel di rami, stavano costeggiando le rive del fiume Fernaidor, che tagliava in due la foresta formando su entrambi i lati due piccole pianure, quando Erik notò qualcosa di insolito: le acque del fiume erano opache e ambrate, come se qualcuno ne rimescolasse di continuo il fondale sabbioso, la cosa più raccapricciante era l’infinità di pesci morti che galleggiavano in superficie.

    Erik ricordava bene quel tratto di fiume, lui e Rupert andavano spesso a pescare da adolescenti su quelle rive, l’acqua era sempre stata pura e limpida da sembrare di cristallo… vedere quell’orribile scenario lo rattristava ulteriormente.

    Notando che la cosa era sfuggita ai due compagni di viaggio, preferì ignorare per il momento la faccenda e proseguire senza turbare anche loro.

    Avevano percorso un buon tratto di foresta, quando il sole cominciò a tramontare.

    Re Plinio convenne che era arrivato il momento di trovare un luogo adatto per l’accampamento notturno, avvistarono un grosso abete rosso a circa quindici metri dalla riva, ottimo posto per montare la tenda e accendere un fuoco senza il rischio di incendiare involontariamente la foresta, senza contare l’ampia visuale di sicurezza che avevano.

    Smontando da cavallo Plinio disse al nipote: «Rupert, vai a raccogliere un po’ di legna mentre io ed Erik montiamo la tenda».

    Pensando già all’agnello, Rupert sparì dalla vista dei due compagni in cerca di ramoscelli e legna per il fuoco, con lo stomaco che brontolava per la fame.

    Rimasti soli a sistemarsi per la notte, Erik pensò che fosse il momento buono per parlare al padre di ciò che aveva notato nel fiume, e dopo un bel sospiro chiese: «Padre, hai

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