Le ali di Alì
Di Lidia Masci
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Info su questo ebook
«Cammina sempre verso nord e arriverai da tuo zio Ibrahim che vive in Francia, a Marsiglia. Lui ti troverà un lavoro, ti darà ospitalità e, forse, ti presenterà una bella ragazza wolof» gli aveva detto il padre Mohamed. Non sapeva però, non poteva saperlo, che il viaggio sarebbe stato pieno di insidie, di sofferenza, di perdite, ma anche di nuove amicizie e nuovi amori.
Questo romanzo affronta senza retorica un tema quanto mai attuale, mostrando l’altro volto dell’immigrazione, un volto fatto il più delle volte di speranze disattese e soprusi. Un volto che può diventare però anche quello della felicità, la felicità di chi ce l’ha fatta.
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Anteprima del libro
Le ali di Alì - Lidia Masci
Tirelli
1. La realtà del sogno
La giornata era limpida, una brezza gli accarezzava i capelli e tutto il suo corpo era percorso da piacevoli brividi, che non riuscivano però a penetrare nel profondo, a dilatare le sue tristi emozioni e trasportarle lontano. La rete di cinta intrappolava il cielo in tanti quadrati uguali e ospitava piccoli passeri che sostavano per lisciarsi le piume arruffate e combattere contro il vento di tramontana, che cercava di sospingerli troppo lontani dal nido. Li contò: erano sette passeri che si stagliavano immobili contro un cielo blu cobalto, sette piccole sagome uguali che, nonostante il vento volesse ingoiarli nei cerchi del suo turbinio, restavano ben saldi con i piccoli artigli aggrappati alla rete. I fili metallici, investiti dalle folate, creavano una miriade di suoni alti, bassi, acuti e morbidi, seguendo lo spartito composto dal vento, invisibile direttore d’orchestra che creava d’istinto.
Guardò i piccoli volatili con la nostalgia nel cuore e restò immobile per non disturbare quel quadro animato fatto di vento e di piume, dove la libertà si conquistava solo sbattendo le ali.
La spossatezza gli fece piegare le ginocchia fino a toccare la terra, bagnata dalle piogge invernali; la testa trascinò il busto a valanga e gli occhi non videro più il cielo. Dopo una settimana nel centro di prima accoglienza, si sentiva sporco dentro e fuori e non sapeva come pulirsi. Il dormitorio era sovraffollato: gli odori e il sudore di mille uomini si mescolavano in un profumo che sapeva di bordello, rendendogli il risveglio amaro e doloroso. Non c’era acqua per lavarsi o per le abluzioni prima delle preghiere quotidiane, e topi grossi come nutrie, con la complicità delle tenebre, si aggiravano ovunque indisturbati, ripulendo quel ristretto spazio di terra dai pochi residui di cibo abbandonati. Desiderava ardentemente, a ogni risveglio, una di quelle piogge africane violente e scroscianti, con l’illusione che gli avrebbe mondato l’anima e azzerato i ricordi dolorosi, ma il freddo bacio del cielo alla terra non arrivava mai. E ora, aggrappato alla rete, con il dolore che gli fermentava nell’anima, tramutando la tristezza in disperazione: pianse. Pianse come non gli era mai capitato, come se gli si spezzasse il cuore!
I leoni non piangono, si disse trattenendo le lacrime, ma queste scorrevano come un fiume impazzito.
Pianse ancora e a lungo, sia per la disperazione sia perché non era in grado di trattenere le lacrime, ora che i ricordi avevano spazzato via gli argini che li contenevano e, come ruggine, avevano intaccato il suo cuore che credeva d’acciaio. Erano ricordi di una notte senza luna, una notte in cui la nebbia, come una spessa cortina di fumo, nascondeva le stelle, e il mare, oltraggiato dall’ennesimo gommone a motore che disturbava il suo sonno, si scagliava inferocito contro quella povera umanità con onde alte due metri. Alì e suo fratello quella notte, con l’angoscia nel cuore, abbracciati dentro un cerchio di estranei, gli occhi sbarrati dalla paura, i pochi indumenti fradici e stracciati, avevano combattuto disperatamente contro la forza delle onde e le spinte di oscure mani assassine che li volevano morti. La lotta era durata ore e l’alba aveva visto un fratello piangere l’altro, poiché non era riuscito a salvarlo.
2. L’acre colore del ricordo
«Cammina sempre verso nord e arriverai da tuo zio Ibrahim che vive in Francia, a Marsiglia. Lui ti troverà un lavoro, ti darà ospitalità e, forse, ti presenterà una bella ragazza wolof; il francese imparato a scuola ti servirà solo quando avrai attraversato le alte montagne che racchiudono l’Italia in un abbraccio possente. Non abbandonare mai tuo fratello.» Queste erano state le ultime raccomandazioni accorate di suo padre, quando ancora Alì era a Fandène e correva al tramonto, quando tutto il sahel si colorava di viola, quando sentiva l’affanno e la stanchezza che gli toglievano ogni preoccupazione e pensiero, prima di ritornare a casa, la sua casa: una baracca di legno, terra e lamiera, che durante la stagione delle piogge si trasformava in un ombrello bucato e in un forno per il pane durante quella secca.
Aziz, il primo dei figli, era rimasto in Senegal con i genitori, il fratello più piccolo Aliou e le tre sorelle, Fatima, Koura e Satou.
Quel pomeriggio di fine giugno, mentre la terra si spaccava, urlando la propria sete contro un cielo avaro di pioggia, il vecchio Mohamed riunì i figli maschi sotto l’ombra frastagliata del vecchio baobab, come faceva ogni qualvolta voleva obbligarli a percorrere un cammino diverso dal solito, in cui solo i pensieri, e non l’abitudine, potevano animare il percorso e aiutare a raggiungere la meta.
«Siamo in miseria, – iniziò con tono solenne – il lavoro manca e per guadagnare quel poco che portate a casa, vi dovete rompere la schiena a Dakar; i campi, ora che la sabbia ha ingoiato il pozzo, dovranno aspettare la pioggia per permettere ai semi che tengono in grembo di germogliare; il piccolo Aliou deve portare le capre rimaste sempre più lontano, verso sud, per trovare la poca erba che cresce, dove il sole non scalda la terra, ma la fatica del ritorno scava il ventre di quelle povere bestie e assottiglia l’ombra di vostro fratello; la mia forza è svanita e, ora, quando rivolto le zolle aride fatte di granelli di nulla, il peso del tempo mi toglie il respiro e la zappa è diventata un macigno! Vi vedo crescere, non posso far nulla per migliorare la vostra vita e mi assale la paura di vedervi inghiottiti dalla sabbia del grande deserto che, pian piano, sta ricoprendo la nostra terra sacra, la terra dei Wolof!».
Fece una pausa e, poi, ricominciò con il tono disperato di un padre che si aggrappa ai figli per non scivolare nelle sabbie mobili del suo residuo di esistenza: «Cosa possiamo fare per sopravvivere? Cosa possiamo fare per cambiare il corso della nostra vita, per non aver paura del giorno che nasce col sole e muore col buio delle tenebre? Aiutatemi a trovare una soluzione meno dolorosa, diversa da quella che la mia mente mi ha già messo di fronte!». Così dicendo abbassò la nivea testa e aspettò che lo stupore e il silenzio dei figli si tramutassero in parole.
Aziz espresse con poche parole la sua sottomissione alle decisioni del padre, che considerava frutto di profonda saggezza.
Alì e Assane si sedettero ai suoi piedi prima di parlare. La sabbia era rovente anche all’ombra del vecchio baobab; la potenza del sole rimbalzava sulla spianata deserta, creando miraggi che regalavano effimere immagini di fiumi, laghi e mari dove, come fantasmi imprigionati alla terra, si rispecchiavano le poche piante rimaste.
«Padre, parla» disse Alì. «La tua saggezza ci aiuterà a capire, ci spianerà la via! Hai ragione, la miseria sta diventando giorno dopo giorno insopportabile, ci sta portando alla disperazione, e il pugno in cui tenevamo saldamente la nostra vita si sta aprendo, lasciandola sfuggire. Ieri sera, quando la vecchia madre ha posto nel centro un paniere mezzo vuoto per la cena, ho capito che la fame, sorella della miseria, non ci avrebbe più abbandonati.»
Era il turno di Assane, ma lui, con lo sguardo nel labirinto dei suoi miraggi, volteggiava lontano con il pensiero, come un’aquila intenta a seguire i percorsi del vento. Gli occhi di tutti erano puntati su di lui, in attesa, ma Assane restò muto perché si era perso in quel cielo, costantemente identico a se stesso, che permetteva alle nuvole di colmare il vuoto della sua eterna miniera blu solo durante l’ hivernage, la stagione delle piogge.
Il padre aspettò pazientemente il ritorno del figlio sulla terra, poi, quando capì che doveva tarpargli le ali perché smettesse di volare, lo svegliò con un brusco tocco del bastone sulla spalla. «Perdonami – disse lui –, non ho parlato perché non riesco a riordinare le mille parole che ronzano come zanzare nella mia mente per formulare un discorso. Poco fa pensavo di averne uno pronto, ma si è sgretolato come il piccolo recinto di pietra e sassi per le galline che ho cercato di costruire per la vecchia madre! Quali sono le tue decisioni? Cosa hai progettato per il nostro futuro?»
L’amore e la tenerezza per quel figlio sognatore, che ora riempivano il cuore del vecchio Mohamed, sembrarono cancellare l’espressione drammatica che da giorni gli appesantiva il viso, ma fu solo un attimo di tregua da se stesso, un raggio di sole fra le nuvole