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Raphael
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E-book313 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Tre storie, distanti nei luoghi e nei tempi, si incrociano in un intreccio sapiente, ricco di continui colpi di scena. Dalla Ferrara di Alfonso d’Este il lettore segue due padri gesuiti, Rodolfo d’Acquaviva e Antoni de Montserrat, che viaggiano nell’India della seconda metà del Cinquecento per incontrare il potente sultano Akbar, il Gran Mogol, nella sua capitale, Fatehpur Sikri. Ai nostri giorni si svolge la storia d’amore tra Catherine Mercier e Giulio Corsi, lei assistente di un grande maestro indiano, il professor Surendranath, lui docente di Storia dell’arte a Venezia. A far da collante un misterioso dipinto e una rete di spietati assassini, su cui indaga il commissario Chetan Krishan della polizia di Mumbai. Un inedito Raffaello, colto nella sua dimensione intima, completa il mosaico. Un racconto originale, un thriller raffinato che è insieme un romanzo storico, d’amore e di formazione, sullo sfondo di un mondo minacciato dal buio del fanatismo.
LinguaItaliano
EditoreGM Libri
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788855289023
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    Anteprima del libro

    Raphael - Giuliano Pisani

    Kabir

    Il rarissimo tra i rari

    Ferrara, lunedì 9 aprile 1520

    «Per voi, insomma, Lutero avrebbe i giorni contati?»

    «Senza dubbio, Eccellenza. Il Papa ha mosso le pedine con il concistoro di gennaio e da un momento all’altro gli intimerà di abiurare, pena la scomunica.»

    Il Duca scosse la testa, per niente convinto.

    «Da quanti anni va avanti questa storia, mio caro Celio?»

    «Quattro, oramai.»

    «Decisamente troppi, non trovate?»

    «Gli equilibri politici richiedono grande prudenza.»

    «Ah, in questo i Medici sono abilissimi e quel Giovanni è astuto come una volpe.» Un lampo attraversò gli occhi di Alfonso d’Este.

    «Lo Spirito Santo ha scelto bene, Eccellenza: papa Leone...»

    «Non era lui il nostro candidato, ma Ippolito preferì restarsene in Ungheria.»

    «Non mi pare ci siano problemi tra il Santo Padre e il Cardinale vostro fratello. Anzi, direi che tra loro c’è una certa sintonia. L’amore per le arti...»

    «Lo avete incontrato di recente?»

    «Poche settimane fa, a Roma, a una festa a Villa Farnesina.»

    «E come lo avete trovato?»

    «Asciutto e arguto, come sempre, Eccellenza.»

    «Asciutto... beato lui! E non è che faccia digiuni o rinunce.» Si passò una mano sul ventre rigonfio e guardò con occhio divertito il suo interlocutore: «Ditemi di mio figlio».

    «Ippolito è un ragazzino intelligente, Eccellenza, molto più maturo della sua età e per Vostra Signoria nutre un’assoluta devozione. Sono onorato di fargli da precettore.»

    «Perdere la madre a nove anni è stato un colpo durissimo per lui. Lucrezia gli era teneramente affezionata, come una donna del popolo. Troppo, perfino. Chi l’avrebbe detto che una Borgia...»

    Si alzò facendo cenno al suo interlocutore di rimanere seduto e raggiunse la finestra.

    «Non smette di piovere. Una primavera pazza come quest’anno...» Attraversò la stanza fino al grande camino di marmo e ne ravvivò la fiamma, mentre Calcagnini continuava a decantare le virtù del suo giovanissimo allievo. «Ippolito e io siamo felici del vostro lavoro. Il bambino parla con entusiasmo di voi» sorrise il Duca. «E a Roma, che novità ci sono?»

    «È un cantiere a cielo aperto, Eccellenza; il Papa ha promosso scelte urbanistiche audaci: vuole recuperare i monumenti della Roma imperiale e...»

    Un bussare discreto. La guardia aprì la porta e fece entrare il segretario del Duca.

    «Che c’è, Marcello?»

    «Perdonate, Eccellenza, è giunta una missiva del Paolucci.»

    «Leggete pure: non abbiamo segreti per il nostro ospite.»

    Il segretario lacerò i sigilli e spiegò il foglio.

    Roma, 7 aprile 1520

    Illustrissimo et Excellentissimo Signor mio Colendissimo...

    «Via via, per carità! Andate al dunque!» Il segretario si schiarì la voce:

    In Roma sono tutti sconvolti. Il Santo Padre stesso ne ha avuto smisurato dolore. Pochi giorni addietro, il 21 marzo, riferivo alla Signoria Vostra del colloquio avuto con Raffaello da Urbino e della sua parola di dar finalmente principio alla pittura. Non so come dirvelo, Eccellenza Reverendissima: il Signore Iddio l’ha chiamato a sé ieri, a ore tre dopo l’Ave Maria, nella notte tra il dì della morte di Nostro Signore e il Sabato Santo. Stroncato a trentasette anni dopo una lotta di otto giorni contro una febbre continua e acuta, nato e morto lo stesso giorno, il Venerdì Santo. A ripensarci, negli ultimi tempi mi era parso stanco, pallido, un po’ gonfio, ma come prevedere... Il Santo Padre mandò più volte a confortarlo e a pregare per lui. L’han sepolto oggi alla Rotonda e...

    «Date qua!» Alfonso d’Este gli strappò la lettera dalle mani. La scorse con lo sguardo, come a verificare che ci fossero scritte proprio quelle parole, poi la accartocciò e la scagliò a terra con un gesto pieno di rabbia.

    Calò il gelo.

    Il segretario, immobile, a capo chino, aspettava la reazione del Duca come un contadino paventa l’imminente tempesta.

    «Sono turbato e commosso dalla scomparsa di un artista di talento, un autentico genio» ruppe il silenzio Celio Calcagnini, sistemandosi sulla seggiola.

    «Già, voi l’avete incontrato.»

    «In più occasioni... Un uomo raro, Eccellenza. Anzi, per meglio dire, rarissimo tra i rari.»

    «Come no! Sono anni che ci deve un dipinto!» sbottò il Duca, mentre Calcagnini, con improvviso imbarazzo, dava la giusta interpretazione al gesto stizzito di prima: «Anni! Lettere, lusinghe, anticipi, minacce... Niente! Da quell’infido solo rinvii, menzogne, inganni».

    «So che era oberato di commissioni... Il Papa gli affidava incarichi sempre più onerosi.»

    «Chiunque contava per lui più del Duca di Ferrara! Voi non vi rendete conto.»

    L’aria si era fatta irrespirabile. Sul viso ossuto di Calcagnini prese a pulsare una vena, proprio sotto l’occhio destro.

    «Il faldone, qui, presto!» ruggì Alfonso, puntando l’indice sul tavolo fratino di fronte alla libreria.

    Il segretario si allontanò a passo svelto.

    «Ci ha trattati come signori di rango inferiore, capite? Alla stregua di plebei! E quanto al Papa... un Medici, figuriamoci!» e batté il pugno sulla scrivania facendo sobbalzare il candelabro a sei braccia e il calamaio di bronzo a forma di granchio.

    «Sono un ecclesiastico, Eccellenza, e per quanto gravi siano i motivi della vostra ira...»

    Alfonso gli piantò gli occhi in viso con durezza: «Lo sdegno, quello almeno, mi è consentito?».

    Calcagnini si passò una mano sulla fronte, mentre la vena continuava a battere come impazzita. In quella rientrò il segretario assieme a un servo che reggeva con ambo le braccia un voluminoso faldone. Lo sistemò sul tavolo, sciolse i lacci vermigli, lo aprì e si mise in disparte.

    «La prima lettera del nostro incaricato. Eccola qua! 30 marzo 1517: tre anni fa, capite? Tre anni fa! Raffaello si impegna a fornire il quadro e a procurarci medaglie, teste, figure antiche...»

    Silenzio.

    «Sei mesi dopo arriva qui un suo garzone con un disegno a penna... un inchiostro nero su tracce di carboncino... uno schizzo affollato di figure. Ecco qua. Guardate!»

    «Un gioiellino, davvero» si lasciò sfuggire Calcagnini, che avrebbe voluto mordersi la lingua.

    «Bacco e Arianna che irrompono su un cocchio trainato da ghepardi» mormorò il Duca, mentre l’irritazione cedeva il passo allo stupore e all’ammirazione. «Osservate, Celio, la finezza con cui ritrae questa frenesia di satiri, baccanti, coribanti...»

    Calcagnini ne approfittò.

    «E l’elefante al centro, con questa enorme proboscide?»

    «Un elefante indiano... Gli avevo richiesto un Trionfo di Bacco in India per il mio camerino.»

    Il Duca lo fissò per qualche istante, dritto negli occhi. Poi ricollocò al suo posto il disegno. Pareva essersi improvvisamente placato.

    Attraversò con passo deciso la stanza, ma sulla soglia si arrestò di colpo, si volse e puntò l’indice su un punto preciso del pavimento: «La lettera, Marcello, raccoglietela, stiratela e inseritela nel faldone. Venite, Celio, seguitemi».

    Pochi minuti dopo si trovavano all’interno di un complesso di stanze adorne di sculture, rilievi marmorei, soffitti affrescati. Dipinti grandi e piccoli riempivano di colori e luci lo smorto fondale delle pareti. Il Duca era in preda a una gioia che rasentava l’estasi.

    «Questo è il mio preferito: Il festino degli Dei. Che ve ne pare, Celio?»

    «Un cromatismo mirabile. Posso chiedervi l’autore?»

    «Leggete la sua firma qui in basso: Joannes Bellinvs Venetvs pinxit MDXIIII. Il maestro aveva la sua bella età, ottanta e passa, ma è stato di parola, lui.»

    «Non avrei mai pensato a Giovanni Bellini. Come l’avete convinto a dipingere un soggetto profano?»

    Alfonso lo guardò con un sorrisetto compiaciuto: «L’importante è esserci riuscito, non trovate?».

    «E questo tripudio di bambini e amorini?»

    «Di un altro veneziano, un montanaro.»

    «Tiziano!»

    «Bravo!» si compiacque il Duca. «A breve ci fornirà altri due quadri.»

    «Sempre sullo stesso soggetto?»

    «Sì, certo. Un’Arianna abbandonata e un baccanale che si annuncia strepitoso. Questo invece è il nostro Dosso, amico mio: L’Arrivo di Bacco nell’isola di Nasso

    In mezzo ai suoi dipinti Alfonso d’Este pareva trasfigurato: non più il condottiero rispettato e temuto, ma un’anima dolce, sensibile alla bellezza e alla malia dell’arte. Un uomo rude e tenero insieme, come il suo castello: solida roccia e pesanti bastioni, poggiati su uno specchio d’acqua placida, quasi a galleggiare, senza gravità.

    «E questo spazio vuoto?» si sorprese a domandare.

    «Appunto! Era quello destinato a Raffaello, al Trionfo di Bacco in India

    «Perdonate l’ardire, Eccellenza... ma non è che si stia esagerando con queste divinità pagane? Veneri ignude, femmine peccaminose... il dio del vino, della sfrenatezza?»

    Il Duca lo fissò per qualche istante, dritto negli occhi.

    «I tempi sono cambiati, Celio. Dovete leggere Ficino, sacerdote anche lui, come voi: Bacco è apertura, libertà.»

    Il collo esile di Calcagnini si protese verso il Duca, mentre sul viso ossuto si disegnava un’espressione interrogativa.

    «Libertà non è parola pericolosa, Eccellenza?»

    «Che dite? Questa libertà non ha nulla a che spartire con la politica.»

    «Ma con la religione, la morale...»

    «Ma no, che c’entra! Bacco è libero perché libera dalle strettoie, dai pensieri penosi. Perché invita a vivere in spazi aperti, in armonia con il moto del cielo.»

    «Eccellenza, ma noi cristiani...»

    «Siamo tutti cristiani!» Il tono perentorio del Duca non ammetteva repliche. «Il Signore» proseguì con voce studiata, «ci ha dato corpo e anima, e solo un corpo esilarato può ospitare un’anima libera, luminosamente creativa.»

    Calcagnini rimase in silenzio, fingendo di meditare sulle ultime parole del Duca. Il corpo, figuriamoci... Meglio cambiare discorso: «Perdonate, Eccellenza, stavate dicendo di Raffaello».

    «Cinquanta ducati d’oro ha voluto, come anticipo! Capite?»

    Calcagnini scrollò il capo.

    «Cinquanta ducati d’oro» proseguì Alfonso, «e in cambio tante chiacchiere e tre cartoni.»

    «Tre cartoni? Gli avevate commissionato altre opere?»

    «No, ce li ha donati di sua iniziativa... per rabbonirci, è evidente! L’ultimo un anno e mezzo fa, un San Michele che atterra Satana, un’opera davvero magnifica, devo ammetterlo. Intrigante, nuova, di grande effetto, un disegno portentoso, a grandezza naturale, ma con la richiesta di non colorirlo.»

    «Perché, se posso chiedere?»

    «Perché è il cartone di una tavola che il Papa gli ha commissionato come suo dono personale per il re di Francia.»

    «E allora perché Raffaello l’ha mandato a Vostra Signoria?»

    «Come segno della sua considerazione, così disse. Aspettate. Torniamo nella sala delle udienze private: vi mostrerò qualcosa che vi aprirà definitivamente gli occhi su quel messere.»

    Per tutto il tempo Marcello era rimasto in piedi accanto al faldone. Lo sorvegliava con apparente distacco, ma in realtà era terrorizzato all’idea che ne sparisse qualcosa. Con il Duca non c’era da scherzare.

    «Eccoci» disse Alfonso varcando in fretta la soglia, seguito a un paio di metri da un rassegnato Calcagnini. Raggiunse il faldone ancora aperto sul tavolo fratino, lo scartabellò per qualche istante e ne trasse un foglio.

    «Ascoltate, Celio. È sempre del vescovo Costabili, il nostro incaricato.»

    Alfonso d’Este lesse i passi cruciali della missiva, sottolineandoli con gesti eloquenti.

    «Avete capito? Il 21 settembre 1518 promette di darmi il Trionfo di Bacco per Natale! E intanto mi dona il cartone del San Michele con la preghiera di non farlo colorire, "avendolo havuto el Re de Francia colorito de sua mano". Che sfrontato! Vi rendete conto?»

    «E voi che avete fatto, Eccellenza?»

    «Gli scrivemmo che il dono ci piaceva molto e gli facemmo avere altri venticinque scudi perché potesse fare un po’ d’elemosina nel giorno di san Martino.»

    «Non capisco perché.»

    «Perché non si sentisse disobbligato.»

    «E quei denari, li ha presi?»

    «Si è schermito, ha tergiversato, ma alla fine se li è tenuti... Eccome se se li è tenuti! Vostro servitore affezionatissimo, mi mandò a dire.»

    S’interruppe di colpo.

    «A meno che... no, no, l’avremmo saputo.»

    «A cosa pensate, Eccellenza, se mi posso permettere?»

    «Che ci sia sotto lo zampino del Papa per farci un affronto, per umiliarci... No, no... non avrebbe senso. Quel marchigiano infido...»

    «Eccellenza, vi prego, stiamo parlando di un defunto.»

    «Pace all’anima sua, allora!»

    «E adesso, che intendete fare?»

    «Di cosa? Del cartone? Che me ne importa!»

    «No, perdonate, Eccellenza, pensavo al Trionfo di Bacco

    «In che senso? Non capisco...»

    «Non potreste affidare lo stesso soggetto a un altro artista? Ce ne sono tanti di bravi qui a Ferrara; come a Venezia, a Firenze, a Roma: non c’è che l’imbarazzo della scelta. Vostra sorella mi parlava un mese fa di un fiorentino, un ventenne, allievo di Michelangelo, che le è stato raccomandato da Pandolfo Pico della Mirandola.»

    «Già, anche Isabella è rimasta scornata. Il mondo era come impazzito: tutti volevano un dipinto di Raffaello! Passerà presto anche lui, vedrete... come tutte le mode. Ma ditemi, Celio: è vero che conduceva una vita erotica sfrenata? Magari ci ha lasciato la pelle per una sontuosa...»

    Si fermò appena in tempo. A Calcagnini non sfuggì un lampo malizioso sul viso del Duca.

    «Malelingue, Eccellenza, calunnie... lo escludo.»

    «Perché?»

    «Per l’amore che lo univa a una giovane, una moretta dai tratti delicati e dai grandi occhi neri, che da tempo era andata a vivere a casa sua. Chissà che ne sarà di lei, adesso» sospirò Calcagnini.

    «Gradite un calice di vino? Dei pasticcini? Della frutta?» Alfonso era tornato di buonumore.

    «Grazie, Eccellenza, mi basta un po’ d’acqua. Devo purificarmi da un’indisposizione allo stomaco.»

    «Subito, appena ricevemmo il disegno di Raffaello, incaricammo Pellegrino da San Daniele di farne un quadro.»

    «Ma allora avevate previsto che Raffaello...»

    «Imparate, Celio, imparate: un Duca ha sempre un piano di riserva.»

    Ishtar

    Verona, lunedì 25 marzo

    Lanciò il montgomery blu sulla poltrona dell’ingresso. I libri, i quadri, i tappeti; l’odore del parquet e delle pareti di legno, le luci soffuse che amava. Tutto in perfetto ordine. Lina era davvero un tesoro. Quella mansarda era il suo nido sull’albero più alto della foresta, al riparo dai cacciatori e dal dolore del mondo.

    Si liberò di mocassini e calzini e schiuse le imposte. Nel tepore della sera primaverile, Ponte Pietra, il Teatro romano e la cintura delle Torricelle, le sue colline, gli diedero il bentornato a casa.

    «Non c’è mondo fuori delle mura di Verona.» Le parole di Romeo esule sulla via di Mantova: lontano da Giulietta è l’inferno, la morte. Catherine... Il pensiero di lei tornò a occupargli la mente: si rivedeva immobile, inerte di fronte alla mail che aveva sepolto il loro amore e la sua giovinezza.

    La suoneria del cellulare lo riscosse: Miyazaki, l’organizzatore della mostra appena inaugurata a Tokyo.

    «Hiroshi... sì, grazie. Sono appena entrato in casa... un buon volo, sì, in perfetto orario. Sì, certo. Va bene. Ci sentiamo con più calma. Grazie ancora di tutto. Salutami tanto Mitsuko, ringraziala ancora. Un bacino a Yukiko! A presto! Ciao, un abbraccio.»

    Hiroshi era il prototipo del giapponese, gentile ed efficiente, con una moglie adorabile e una bimba meravigliosa. Aveva progettato per lui una grande mostra: sessantatré capolavori del Rinascimento italiano, l’anima pulsante della stagione che aveva rivoluzionato la visione del mondo, avevano lasciato musei e collezioni private e stordivano gli occhi e la mente dei visitatori del museo di Tokyo.

    Rivide la grazia di Mitsuko, la delicata dolcezza dei suoi piccoli movimenti veloci, il sorriso e le mani affusolate unite nel saluto, il cenno d’inchino con cui l’aveva accolto all’arrivo e nel momento del congedo. Hiroshi era davvero un uomo fortunato.

    Giulio Corsi sentì riemergere la rabbia. Quella pazza gli aveva rovinato la vita. Aprì il trolley e sistemò giacche e cravatte. Lavò via la stanchezza sotto la doccia. Pulendo lo specchio dall’alone di vapore, vide riflesso il volto di un uomo vicino alla quarantina.

    «Occhi buoni, più celesti del cielo.» Risentì la voce di sua madre mentre con l’asciugamano si frizionava i capelli castani.

    C’era stato un tempo in cui gli sguardi delle donne lo avevano lusingato. Si era lasciato corteggiare, aveva giocato con loro, anche se, sotto sotto, rimaneva un timido. Poi c’era stata lei. Aveva cercato di dimenticarla. Si era buttato in storie effimere, senza passione. Da sei mesi aveva chiuso. Si stava abituando alla solitudine. Il lavoro era l’antidoto, la terapia. Anche per questo lo amava.

    Accese il giradischi. Dalle finestre filtrava la luce lunare. La voce di Jessye Norman riempì la stanza:

    Nun der Tag mich müd gemacht...

    Ora il giorno mi ha reso stanco... Socchiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dalla melodia struggente di Richard Strauss.

    E l’anima volerà libera su libere ali,

    per vivere mille vite arcane

    nel cerchio magico della notte...

    Aprì il frigo. Versò la ribolla gialla in un calice grande. Ne aspirò il profumo agitandolo con una leggera oscillazione del polso. Si abbandonò sulla poltrona, avvolto nell’accappatoio bianco, una gamba a cavallo del bracciolo.

    Non aveva fame. Sulla scrivania Lina aveva disposto le riviste e i giornali usciti nel corso dell’ultima settimana. Non aveva voglia di sfogliarli, preferiva restare così, in uno stato di sospensione, immerso nella musica e nella voce del silenzio. Sbarrava il passo ad altri pensieri.

    Sentì la notte avanzare. Un’occhiata distratta alla corrispondenza: niente di importante. Accese l’iPad e scaricò i messaggi. Ne vide accumularsi una quarantina in rapida successione. L’ultimo quasi gli tolse il respiro, facendolo balzare dalla poltrona.

    «Ishtar!» ripeté meccanicamente, in preda a un’agitazione incontenibile, mentre lo apriva.

    Sono io. Sto bene. So da Nella che anche tu stai bene. Scrivo da un Internet point in India. Dio salvi il mondo dall’inverno rosso: ti dice qualcosa? Mi faccio viva io. Un bacio. C.

    Un bacio? Gli mandava un bacio! Ma cosa credeva? Dopo quasi due anni, dopo averlo piantato con due righe d’addio. Le sapeva a memoria:

    Addio, Giulio. Seguo la mia via. Vado in India. Dimenticami, come anch’io mi sforzerò di dimenticarti. Sii felice. Un bacio. C.

    Aveva risposto a quella mail, ma il messaggio gli era tornato indietro. Aveva provato a contattarla al telefonino: numero inesistente. Amiche, colleghi... niente! Nessuno sapeva più niente di lei.

    «Avete litigato?» gli aveva chiesto la madre di Catherine e al suo no era esplosa in un lamento risentito, che a Giulio era parso finto, come tutto ciò che riguardava quella donna. Non era riuscito a sopportarla e all’ennesimo «Ah, la mia povera bambina!» aveva chiuso la chiamata.

    Aveva ingaggiato un investigatore. Il responso era giunto tre giorni più tardi ed erano le parole che più aveva temuto di sentirsi dire: Catherine Mercier aveva preso un aereo per Mumbai e adesso si trovava da qualche parte in quella città o in quel Paese.

    Perché non gliene aveva parlato? Forse aveva lanciato qualche segnale, forse lui avrebbe potuto intuire qualcosa. In India! Surendranath, certo! Quel vecchio maledetto! L’aveva plagiata!

    Aveva pensato di partire per l’India, di andare a cercarla, ma aveva scartato l’idea: conoscendola, avrebbe peggiorato la situazione. Catherine era testarda, orgogliosa, si sarebbe chiusa a riccio.

    «Tornerà!» si era detto. Il tempo di rendersi conto che senza di lui la vita non aveva senso, che non poteva fare a meno del loro amore e sarebbe tornata a casa. Chissà se l’avrebbe perdonata.

    Era rimasto appeso a una telefonata, un messaggio, un segnale, ma le settimane passavano e non accadeva niente. Era come vivere in apnea. Si rassegnò. Immerse il collo nel collare della necessità.

    «E adesso cosa vuole?»

    Si fermò un istante prima che l’ira lo spingesse a cancellare il messaggio, per esorcizzare quel fantasma che si materializzava dopo averlo a lungo ossessionato. Si impose la calma. Spense con il comando a distanza la voce di Jessye Norman. Aveva bisogno di silenzio, di concentrarsi, di ragionare.

    Rilesse la mail: Sono io. Sto bene. So da Nella....

    Nella! La segretaria dell’istituto, la donna che lo seguiva da anni; anni che programmava e gestiva i suoi impegni, gli appuntamenti, perfino i suoi momenti di relax. So da Nella... Dunque quelle due si erano sentite di recente, oppure... oppure erano rimaste in contatto! La chiamò al cellulare. Spento. Era quasi mezzanotte e Nella abitava a Venezia. Non riusciva a immaginare che proprio lei, che lo amava come un figlio, che gli era stata sempre vicina, premurosa, attenta... Quando si erano sentite? Perché non gli aveva detto niente? Gli sembrava d’impazzire.

    Andò alla finestra. Aveva bisogno di respirare. La luna era alta e luminosa. Si udiva distintamente la voce dell’Adige frangersi nella quiete notturna contro i piloni di Ponte Pietra.

    Gli scriveva da un Internet point: non voleva essere rintracciata. Glielo diceva apertamente: Mi faccio viva io.

    Ishtar... Perché dare al messaggio il nome di Ishtar, il simbolo del loro primo appuntamento, l’inizio del loro amore? Gli lanciava il segnale che voleva tornare con lui? Fantasticava. Prese a camminare su e giù, come un animale in gabbia. Si bagnò ripetutamente il viso per recuperare lucidità, per essere certo che stesse accadendo davvero.

    Dio salvi il mondo dall’inverno rosso. Che diavolo voleva dire? L’inverno rosso? Lui e Catherine avevano in comune una passione per i rebus. L’avevano scoperta casualmente, a Torino, a casa di sua sorella, maniaca anche lei di enigmistica, ed era diventato il loro gioco segreto. In fondo anche gli studi di Catherine assomigliavano alla decifrazione di un rebus, con quei testi redatti in una

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