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Chaveyo
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E-book711 pagine10 ore

Chaveyo

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Info su questo ebook

Western - romanzo (562 pagine) - Nella tradizione Hopi, il Chaveyo è lo spirito vendicatore con il compito di punire chi contravviene agli ordini degli anziani e alle usanze dettate dalla tradizione. Il suo nome viene invocato per spaventare i bambini e chiedere obbedienza.


Sembra accogliente, la cittadina in cui è giunto Liam Calavera. Disposta ad accoglierlo, senza chiedergli conto del suo passato.

Ma il passato non ti molla. Il passato ti insegue. A volte sotto forma di un mortale spirito vendicatore.

Liam Calavera è l'ultimo sulla lista del Chaveyo. Gli altri hanno già trovato la loro giusta punizione.

Liam Calavera pensa di aver trovato una casa. Non sa che si sta portando dietro l'inferno.


Luigi Iapichino è nato a Ivrea a metà giugno del 1981. Il suo interesse per la lettura è sempre stato orientato verso il genere thriller e poliziesco, senza disdegnare la letteratura classica.

Moreno Pavanello è nato nell'estate del '78 in provincia di Torino, la lettura è sempre stata la sua passione, cominciando dai vecchi numeri di Tex e Zagor ereditati da suo padre fino a trasformarsi nel lettore onnivoro che è adesso. Finora ha pubblicato numerosi racconti di genere horror, weird e fantascientifico con diverse case editrici. Chaveyo è il suo primo romanzo. Gestisce inoltre un blog dove si parla di narrativa, fantascienza e molto altro

LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2018
ISBN9788825405972
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    Anteprima del libro

    Chaveyo - Moreno Pavanello

    altro

    Prima parte

    Liam

    Il mio nemico è vicino a me, ma non lo vedo.

    Dov'è? Lo sento. Ma c'è davvero?

    Il suo sguardo brucia sulla mia schiena.

    A volte il vento mi porta il suo odore.

    Non lo sento mai, tranne quando vuole farsi sentire.

    Potrebbe essere dietro quel cespuglio, oppure in cima a quell’altura, magari nascosto sotto quel mucchio di sabbia.

    Potrebbe essere dietro di me, ora.

    No, non mi volterò. Non ballerò di nuovo alla sua musica.

    Da quanto tempo mi insegue?

    Da quanto tempo mi fissa, con quei suoi occhi assurdi, sporgenti, cerchiati di bianco?

    Tutto questo tempo, e non sono ancora nemmeno sicuro che sia un uomo.

    Gioca con me come il gatto col topo.

    Ma io non sono un topo.

    Io sono un orso, e al momento giusto saprò rivoltarmi contro il mio cacciatore e piantare i denti nella sua tenera carne.

    Vedrai, maledetto mostro. Vedrai.

    Liam Calavera, padre messicano e madre americana, ventinove anni, ex cowboy, ex vagabondo, ex aiuto sceriffo, ex guardia del corpo, ex giocatore d’azzardo, ex lavapiatti, ex buttafuori, attualmente preda.

    La sua seconda vita era cominciata qui, a Jarilla Junction.

    Un bel paese, Jarilla Junction.

    Un centro cresciuto intorno alla stazione della ferrovia, frequentato principalmente dai cowboy dei ranch che lo circondavano o dai minatori che lavoravano nelle miniere d’oro delle vicine Jarilla Mountains. I minatori erano per lo più gente tranquilla, i cowboy, invece, erano spesso rissosi e turbolenti, ma erano anche la maggior fonte di reddito per le casse dei locali. Il cowboy che arriva da un mese di lavoro duro e noioso ha un assoluto bisogno di svagarsi e di spendere tutto lo stipendio faticosamente guadagnato nel giro di una sera o due.

    Ogni fine mese, infatti, una folla di cowboy festanti faceva irruzione in paese come una banda di Apache inferociti, annunciando il suo arrivo con un coro di urli e spari verso il cielo, e il paese non si faceva trovare impreparato. Mama Lisa toglieva qualche pezzo di vestito alle sue ragazze e le mandava ad adescare i clienti ai lati della main street. Quando la sua diretta concorrente, madame De Ville, si era resa conto che questo metodo funzionava, si era affrettata a imitarla. Per evitare che le ragazze si scannassero tra loro le due signore avevano deciso di dividersi le zone di adescamento, quindi ora le protette di Mama Lisa aspettavano all’ingresso nord della città, mentre quelle di madame De Ville si appostavano a sud.

    I cowboy che passavano oltre quello spettacolo (o meglio, che ci riuscivano: le ragazze che praticano questo mestiere sanno essere piuttosto rapaci) potevano godere degli altri divertimenti offerti da Jarilla Junction. Sulla main street si affacciavano fior di luoghi di perdizione, nonostante le proteste di padre Sebastiano, anziano e rassegnato parroco di paese.

    Ma Jarilla Junction faceva di tutto per non lasciare insoddisfatto nessuno, e oltre ai due bordelli, riconoscibili in quanto erano gli unici due edifici a tre piani, i locali le cui luci ammiccanti filtravano attraverso porte e finestre erano così numerosi che anche di notte la strada era talmente illuminata a giorno.

    Il saloon di Jacob offriva la miglior birra, le bistecche più tenere e le patatine più croccanti a nord del Rio Grande, mentre il teatro del vecchio Lester dava ai clienti la possibilità di ammirare a modico prezzo le ballerine più scatenate e meno vestite di tutto il Nuovo Messico. Le sale da gioco non si potevano contare, e la più grande e bella era quella di Sam Quigley, il Golden Star.

    Arazzi intessuti da tessitrici Navajo adornavano le pareti, dove non erano occupate da grandi specchi sempre perfettamente lucidi. Dal soffitto scendevano splendidi lampadari elaborati importati direttamente dall’Europa, così come il grande quadro raffigurante una splendida (e nuda) sirena che faceva bella mostra di sé dietro il bancone del bar. I croupier in livrea davano al locale un tocco di classe in più, mentre le cameriere poco vestite che giravano per i tavoli accontentavano anche il palato dei più buzzurri tra i vaccai. I tappeti verdi stesi sui tavoli non avevano neanche una bruciatura di sigaro, e i giochi erano truccati in modo da non lasciare nessuno in mutande, anche se quelli che uscivano da lì con più soldi di quando erano entrati erano veramente pochi.

    La sala da gioco di Sam Quigley era rinomata fino a sud di El Paso, e proprio lì Liam Calavera sperava di fare su un po’ di soldi.

    Era reduce da una brutta esperienza come guardia del corpo di un commerciante di stoffe, che lo aveva lasciato con una cicatrice in più e un datore di lavoro in meno. Quella specie di Eldorado del divertimento di Jarilla Junction gli era sembrata un buon posto dove cercarne un altro.

    Aveva pensato di guadagnarsi da vivere come giocatore, visto che con le carte pensava di cavarsela abbastanza bene. Ma al Golden Star un paio di professionisti gli avevano insegnato che non era così.

    La terza sera, senza più un soldo in tasca, decise di affidare il suo destino alla fortuna. Puntò il suo ultimo dollaro alla roulette, sul tredici. Se avesse vinto sarebbe rimasto, anche se magari avrebbe cambiato sala da gioco, se invece avesse perso avrebbe fatto il giro dei ranch circostanti per vedere se a qualcuno servisse un cowboy in gamba.

    Il dollaro cadde sul tavolo, la ruota girò, la pallina rimbalzò, e Liam trattenne il fiato.

    Guardava quella pallina danzare impazzita con negli occhi la fame. La fame di opportunità, di altre possibilità, di una mano dal destino che fino adesso gli aveva sempre solo remato contro. Tutte le sue speranze in una minuscola pallina di metallo controllata da un dio capriccioso a cui non importa niente di te.

    La ruota gira, e tu trattieni il respiro. Ogni volta che la pallina passa sopra il tuo numero una speranza si accende, soffocata dalla delusione quando passa oltre, per poi tornare prepotente quando il tuo destino rimbalzante torna a prenderti in giro volando al di sopra del tuo numero, sfiorandolo senza fermarsi, gettandovi nulla di più della sua ombra. E sembra che anche il tuo cuore si fermi, e una preghiera riaffiora dagli angoli reconditi del tuo cervello, memoria delle domeniche mattina in chiesa da bambino, quando credevi ancora che una forza superiore ti avrebbe protetto e aiutato, prima di renderti conto che sei solo una piccola pallina che rimbalza su una gigantesca ruota, sballottata qua e là dal caso, e da nient’altro.

    Finché la ruota si ferma e la pallina bianca trova la sua collocazione, e vi si adagia come se non ci fosse mai stata nessun’altra possibilità.

    – Ventisette, rosso, dispari.

    Le spalle si rilassano, i giocatori rilasciano il fiato tutti insieme, qualcuno esulta, molti bestemmiano, pochi si rassegnano e lasciano il tavolo. Di questi, alcuni si ripromettono di ritentare la fortuna all’indomani, altri giurano a se stessi, sapendo di mentire, che mai più si siederanno attorno a quel creatore di false speranze che è il tavolo verde.

    Poi ci sono quelli che sono costretti ad allontanarsi perché ormai le loro possibilità di giocarsi il destino sono terminate.

    In questa situazione si trovava Liam.

    Raccolse la sua roba e si diresse mestamente verso l’uscita, maledicendo la sua sfortuna. Ormai non aveva più i soldi per pagarsi l’albergo né la stalla per il cavallo. Avrebbe dovuto uscire dal paese e passare la notte all’aperto.

    Quando faceva il cowboy era normale dormire con la sella come cuscino e il cielo come coperta. All’inizio gli piaceva la sensazione di libertà, ma presto si era stufato delle pietre nella schiena e del puzzo delle vacche.

    Sorrise tristemente, pensando che almeno aveva una consolazione, per quella notte: non rischiava di essere derubato.

    Camminava verso l’uscita, mentre intorno a lui l’eterno gioco del caso continuava nelle sue mille forme, quando sentì un gran trambusto all’esterno. E lui aveva lasciato il cavallo proprio davanti all’entrata. Superò le porte quasi di corsa, giusto in tempo per venire travolto da un corpo in caduta libera che lo trascinò per terra. Puzzava di alcool.

    Dopo lo spettacolare lancio il buttafuori del locale si rivolse ad altri tre uomini sporchi e trasandati, chiaramente ubriachi.

    – Ho detto di no! Il signor Quigley non vuole ubriachi nel suo locale!

    – Facci passare, testa pelata – biascicò uno degli uomini – o te ne faccio pentire!

    Una lama baluginò nella sua mano.

    Liam spinse brutalmente via l’uomo che gli era caduto addosso e si rialzò, ma non fece in tempo a raccogliere la sua sacca da sella che quello si riprese abbastanza da scagliarsi contro di lui come una furia. Riuscì a sollevare un gomito prima di essere travolto.

    Il contraccolpo gli fece dolere il braccio fino alla spalla dandogli la sensazione che i suoi nervi venissero pizzicati come corde di una chitarra, ma la soddisfazione di sentire il naso del suo avversario spezzarsi gli fece subito dimenticare il dolore. Si spostò di lato e lo colpì con un gancio, mandandolo definitivamente a terra.

    – Jack! – sentì esclamare dall’uomo biascicante. Alzò lo sguardo in tempo per vedere il buttafuori scivolare a terra con una smorfia di dolore. Si premeva una mano contro il fianco.

    L’uomo col coltello, ora sporco di sangue, scavalcò di slancio il buttafuori per scagliarsi contro Liam, subito seguito dai suoi due degni compari.

    Liam bloccò la mano armata dell'avversario con la sinistra all'altezza del polso, estrasse la pistola e lo colpì violentemente alla testa con la canna, facendo schizzare qualche goccia di sangue. Lo lasciò cadere e puntò la pistola in mezzo agli occhi del più vicino degli altri due, armando il cane.

    – Fermo! – esclamò, e quello obbedì. La sua mano ebbe un fremito in direzione della pistola alla cintura, ma lo sguardo deciso di Liam lo fece desistere.

    L’altro uomo sembrava meno propenso a calmarsi. Si portò spalle del suo amico, o presunto tale, usandolo come copertura e portò la mano alla pistola. Liam stava per buttarsi di llato e farli fuori tutti e due quando una voce glaciale risuonò dalla porta del locale, mentre una colt lunghissima faceva capolino da sopra i due battenti a spinta.

    – Non ci provare.

    La colt avanzò, seguita da un uomo con un abito da sera color argento, lo stesso colore dei capelli ben curati e dei folti baffi, e un fiore bianco all’occhiello. Il suo volto pareva scolpito nel granito, e i suoi occhi grigi emanavano un’aura di gelida calma.

    Sam Quigley, padrone del Golden Star.

    – Molla la pistola.

    Il cowboy perse ogni traccia di risolutezza e lasciò cadere l’arma, borbottando scuse incomprensibili.

    – Raccogliete i vostri amici e filate.

    I due si affrettarono a obbedire, e Liam mise via la pistola. – Grazie dell’aiuto – disse, ma Quigley non lo sentì o lo ignorò, occupato com’era a controllare le condizioni del suo buttafuori.

    Alcuni inservienti uscirono dal locale per vedere cosa fosse successo, ovviamente a cose ormai finite. Quigley si alzò e ordinò loro di portare il buttafuori da un dottore.

    – La ferita non mi sembra troppo grave, ma di sicuro non potrà lavorare per un bel po’. Se si riprende, ditegli che venga a prendersi i soldi che ancora gli spettano appena è in grado di camminare. Non c’è posto nel mio locale per chi non sa fare il suo mestiere.

    Mentre gli inservienti raccoglievano il ferito, che si lamentava rumorosamente, Quigley si rivolse a Liam, con un sorriso che ricordava quello di uno squalo.

    – Ho visto come ti sei comportato. Sei in gamba, e io sono rimasto senza buttafuori. Hai già un lavoro?

    Forse la pallina bianca non aveva ancora smesso di rimbalzare, dopotutto.

    Chaveyo

    Il mio nemico è qui, vicino a me.

    Mi basterebbe allungare una mano per farlo mio.

    Posso sentire il rumore del suo respiro.

    Lo guardo cercarmi con gli occhi sbarrati.

    Sento l'odore della sua paura.

    Da quanto non dormi, uomo bianco?

    Il tempo è quasi giunto.

    Tu sei l’ultimo. Tutti i tuoi complici sono già stati puniti.

    Come l’aquila non lascia scampo al topo, anche tu cadrai sotto i miei artigli.

    Ma la tua fine non sarà veloce come quella di un topo.

    Come un ragno paralizza le sue vittime per divorarle con comodo, cosi io ti finirò.

    E, quando tutti sarete morti, potrò finalmente tornare nel mio mondo.

    Piccola Mano, pastore e cacciatore Hopi del Pueblo del Coyote.

    Chaveyo, il gigante nero, Colui che Insegna Con La Paura.

    Inseguiva la vendetta da tanto che non si ricordava più un tempo in cui il suo cuore non fosse divorato dall’odio, un tempo in cui non avesse guardato il mondo attraverso gli occhi del Chaveyo.

    Tutti i suoi nemici erano morti, tranne uno.

    Purtroppo, il suo nemico si era stabilito in una popolosa cittadina dell’uomo bianco. Sarebbe stato difficile stanarlo da lì.

    Ma non c’era fretta.

    Dopotutto, quando la sua vendetta fosse stata compiuta, sarebbe dovuto tornare nel regno etereo dei kachina.

    Poteva permettersi di fare con calma. Di divertirsi.

    Mentre osservava il paese dall’altura poco distante attraverso gli occhi magici che aveva sottratto a una delle sue vittime, cominciò a preparare un piano d’azione.

    Sarebbe stato lungo, forse, ma appagante. Si apprestò ad accamparsi per la notte.

    Consumò una cena frugale con un coniglio che aveva catturato il giorno prima, poi si coricò.

    La fine della sua missione.

    Non sembrava vero.

    Mentre si rilassava, la sua mente vagò all’indietro nel passato, ricordando quello che era successo dal momento della sua seconda nascita, e tutti gli uomini che aveva già punito.

    A differenza di un umano, che non ricorda i suoi primi anni di vita se non come una nebbia confusa in cui l’unica cosa ben distinta è il volto della madre, Chaveyo, lo spirito della paura, ricordava tutto ciò che gli era successo dal momento della sua venuta al mondo e della sua discesa nel corpo di Piccola Mano.

    Non aveva il volto di una madre da ricordare, perché sua madre era stata l’ira, e suo padre l’odio.

    E ora rivisse la sua vita, prima di addormentarsi, una storia di buio e di morte, che narrò a se stesso come una madre che racconta una favola a un papoose.

    Liam

    Un buon bagno era davvero quello che ci voleva.

    Cercò di ricordarsi l’ultima volta che ne aveva fatto uno, ma ebbe delle grosse difficoltà. Contavano i fiumi che aveva guadato a dorso di cavallo?

    E ora, guardatelo: spaparanzato in una lussuosa vasca di ghisa decorata con bizzarri ghirigori, a sguazzare in un’acqua profumata dal sapone (e resa quasi nera dalla sporcizia staccatisi dal corpo di Liam), con in bocca un sigaro gentilmente offerto dalla direzione.

    E che dire della stanza in cui era alloggiato? Il Golden Star non prevedeva anche un servizio alberghiero, e l’unico ad alloggiare al secondo piano del locale era lo stesso Sam Quigley. Gli altri dipendenti erano tutti gente del paese.

    Quando aveva confessato a Quigley che non aveva più l’ombra di un soldo bucato, quello gli aveva infilato nel taschino dieci dollari e gli aveva detto: – Vai all’albergo di Hank Williams, dall'altra parte della strada. Digli che ti mando io. Torna domani e vedremo di concludere l'accordo. E fatti un bagno, perdio! Puzzi come un cavallo!

    Hank Williams aveva storto il naso vedendolo entrare, ma per fargli cambiare atteggiamento era bastato il nome di Quigley.

    Erano mesi che non dormiva senza la compagnia di qualche scarafaggio. E ora invece stava in una stanza spaziosa, letto grande e morbido, un armadio a tre ante, un piccolo specchio, lavabo, addirittura uno scendiletto! Era la prima volta che ne vedeva uno. E poi quell’eccezionale vasca da bagno.

    Quel Quigley sapeva come trattare i suoi dipendenti.

    Gridò per chiamare l’inserviente cinese perché gli cambiasse l’acqua, e lo osservò entrare tutto trafelato con un secchio in mano e un finto sorriso. Tenne il sigaro in alto mentre gli versava l’acqua addosso.

    – Ehilà, limoncino, come va la vita?

    Sul volto del cinese passò un'ombra scura, poi tornò a sorridere. – Molto bene, signole, grazie.

    – Come ti chiami, ragazzo? – In realtà il cinese doveva avere più o meno la sua età. E stava solo fingendo di non conoscere l'inglese. Aveva già conosciuto un suo connazionale che usava questo trucchetto.

    – Mio nome è Chuang Tzu, per servilvi, signole!

    – Piacere di conoscerti, io sono Liam Calavera, un uomo pulito!

    – Ciò lende me molto felice, signole!

    Liam osservò per qualche istante quel sorriso finto esibito come una maschera, e capi che il cinese non aveva voglia di chiacchierare.

    – D’accordo, amico, basta così. Vai pure e non preoccuparti di rimanere a portata di voce, tanto tra poco avrò finito.

    – Grazie, onolevole signole!

    Il cinese uscì frettolosamente. Rilassò di colpo le spalle e sbuffò, un istante prima che la porta si chiudesse alle sue spalle, il sorriso magicamente trasformato in una smorfia scocciata. Bel lavoro del cavolo che fai, amico, pensò Liam.

    Si lasciò scivolare all’ingiù, immergendo la testa. Avrebbe dovuto piantarla di farsi gli affari degli altri. Anche suo fratello glielo diceva sempre: mettere il naso nelle faccende altrui è la migliore scorciatoia per la tomba.

    Si alzò in piedi e si pettinò i capelli all’indietro, per far sgocciolare l’acqua e far scivolare via insieme ad essa anche il ricordo di suo fratello.

    Uscì dalla vasca e si asciugò, poi provò i vestiti nuovi che Quigley gli aveva fatto portare per il lavoro.

    Erano vestiti da sera, neri, i pantaloni stirati con la riga in mezzo, una giacca con la coda, lunga e nera, una camicia bianca con tanto di farfallino nero, scarpe di pelle nere con i lacci e una bombetta nera con una fascia grigia.

    Si guardò al piccolo specchio sopra il lavabo. Gli scappò una risata: quello che gli sorrideva dallo specchio aveva tutto l’aspetto di un piedidolci dell’est. O di un beccamorto.

    Purtroppo aveva dato i suoi vestiti al cinese perché li portasse a lavare, così non aveva nient’altro da mettersi. Contemplò l’idea di rimanere chiuso in casa fino all’ora di andare a lavoro, nel tardo pomeriggio.

    Si affacciò alla finestra. La cittadina fremeva di attività anche in pieno giorno.

    Un mucchio di gente andava su e giù per la strada, affaccendata in chissà cosa. Ragazzini vestiti con camice troppo larghe correvano spingendo o trainando carretti carichi di roba, forse garzoni di qualche negozio impegnati nelle consegne a domicilio. Carri trainati da cavalli portavano i contadini a comprare materiale per il loro lavoro. Un cowboy malridotto, probabilmente reduce da una sbornia, si trascinava lungo i muri in direzione della stalla. Casalinghe camminavano con pacchetti della spesa sottobraccio, lo sguardo perso in pensieri che, immaginava Liam, riguardavano per lo più l’antico, filosofico dilemma: cosa preparo per cena?

    In mezzo a tutto questo, evidenti ai suoi occhi come mosche bianche, spuntavano gruppetti di persone vestite da gran signori.

    Donne strette in busti molto alla moda ma tremendi avversari della comodità, con le gambe coperte da gonne vaporose e le testoline incipriate ornate da vezzosi cappellini decorati di piume, accompagnate da uomini grassi e untuosi conciati da damerini (loro sì che avrebbero avuto bisogno del busto!) con le teste coperte da cappelli a bombetta o a tuba e con in mano bastoni da passeggio dorati, col labbro superiore nascosto da folti baffoni alla moda. Passeggiavano tenendosi sui marciapiedi e sotto i porticati per non sporcarsi le preziose scarpe con la terra e il fango della strada, tutti impegnati a chiacchierare di chissà quale idiozia, come testimoniavano i risolini forzati delle donne.

    Ne girano di soldi, se c’è gente che può permettersi di andare in giro a non fare niente! Sembrava quasi una città dell’est, anche se lui non ne aveva mai vista una.

    Visti i damerini, decise che poteva anche mettere la bombetta e andare a fare un giro, dopotutto.

    Uscì e prese una direzione a caso camminando sui marciapiedi, ridacchiando quando si accorse che anche lui stava cercando di non sporcare le scarpe.

    Come la maggior parte dei paesi dell’ovest, anche Jarilla Junction era sviluppato soprattutto intorno alla main street. Molti locali erano chiusi, ma i negozi avevano già esposto la loro mercanzia. C'è n'erano alcuni specializzati in vestiti e accessori per i damerini, ma i più vendevano attrezzature da minatore o da cowboy. Selle, briglie, stivali e quant'altro gli riportarono alla mente il periodo in cui aveva fatto quel lavoro. Preferì distogliere lo sguardo.

    In lontananza, il sole illuminava il paesaggio delle Jarilla Mountains. L’aria era così tersa che poteva contare gli alberi sulle pendici delle montagne. Aguzzò la vista cercando la zona delle miniere, finché non riuscì a scorgere un'area priva di vegetazione costellata di buchi nella roccia. Gli ricordarono un muro che aveva visto una volta in Messico. Veniva usato per le esecuzioni.

    Ma che bei pensieri di prima mattina.

    Cercando qualcosa di più allegro da guardare, notò la casa di piacere di Mama Lisa, con le sue tende rosse e la grande insegna "Night Satisfactions". A differenza delle case circostanti, oltre ad avere un piano in più era così pulita e ben tenuta che sembrava nuova.

    Per il momento le sue finanze non gli avrebbero permesso nemmeno di superare la soglia del locale, ma non era escluso che nel prossimo futuro avrebbe potuto fare una visitina a quelle stanze così invitanti…

    Una delle finestre era aperta, al primo piano. Tra le tende spuntava il busto di una ragazza, intenta a fumare un cigarillo, con lo sguardo perso in direzione delle montagne. Liam si fermò a osservarla meglio.

    Teneva il cigarillo nella destra, mollemente adagiata fuori dalla finestra. Appoggiava il gomito sinistro sul davanzale, la mano sotto il mento a sostenere la testa graziosa. Aveva lunghi capelli ricci e castani, raccolti sulla parte alta della testa con una pinza che glieli teneva indietro lasciandoli ricadere vaporosamente sulle spalle e lungo la schiena.

    Indossava una comoda camicia grigia abbottonata al penultimo bottone, quindi la mercanzia che sicuramente alla sera mostrava con generosità era ora invisibile. Aveva però arrotolato le maniche, probabilmente per il caldo, e Liam poteva vedere la pelle delle sue braccia, colpita dal sole. Liam si scoprì a immaginare se stesso mentre passava delicatamente un dito su quella pelle bianca. Riusciva quasi a sentirla fremere sotto il polpastrello, mentre lo faceva scorrere verso la sua mano…

    Si riscosse, stupendosi di se stesso. La ragazza era molto graziosa, ma alla fine era solo una puttana.

    Però aveva dei bei lineamenti delicati, non grossolani come quelli di molte sue colleghe che aveva conosciuto. Il naso piccolo e leggermente all’insù, gli zigomi pronunciati ma non troppo, le labbra carnose ma non volgari, la fronte ampia sottolineata da sopracciglia curate che formavano due archi sottili sopra a dei grandi occhi…

    No, non riusciva a vedere il colore dei suoi occhi.

    Non se ne era accorto, ma era rimasto a fissarla per un bel po’, tanto che la ragazza aveva già quasi finito il cigarillo. Cercò di avvicinarsi perché sentiva di non potersene andare senza prima aver risolto quel piccolo mistero. Scese dal marciapiede, tenendo d'occhio la finestra, e…

    Squash!

    – Ma porc… – La scarpa nuova era finita in quella che probabilmente era l’unica pozzanghera di tutta Jarilla Junction. Era tutta inzaccherata, e gli schizzi non avevano risparmiato i pantaloni.

    Liam volse gli occhi al cielo, e soffocò la bestemmia che gli era salita alle labbra appena in tempo: la ragazza lo stava guardando, e rideva sonoramente coprendosi la bocca con la mano.

    Ecco, bella figura. Cercò di sorriderle di rimando, ma lei agitò la mano in segno di saluto e sparì dentro la stanza.

    Beh, almeno l'aveva salutato.

    Aveva gli occhi verdi.

    Poté quasi sentire la voce di suo fratello Sam che gli rimbombava nella testa: Un’occhiata e ti sei innamorato? Di una puttana? Ma sei scemo?

    Continuò a sorridere.

    Chaveyo – Storia dell’ubriacone

    Joshua Clinton alzò lo sguardo assonnato verso la luna piena. Quella notte era rossa. Luna Comanche, la chiamavano gli indiani. Secondo loro era presagio di sventure, e facilitava l’ingresso degli spiriti maligni in questo mondo.

    Gli parve di capire perché lo pensavano. Sembrava un grande occhio insanguinato che lo fissava, sospeso nel cielo, giudicandolo.

    Distolse lo sguardo, procurandosi un giramento di testa che lo fece quasi vomitare.

    Si appoggiò stancamente al muro del vicolo in cui stava cercando di passare la notte, pensando che la luna aveva ragione a giudicarlo male.

    Cosa poteva vedere in lui, quell'occhio? Un disperato abbruttito dall'alcool che beve con il preciso scopo di annullare i pensieri e far trascinare via i rimorsi da un fiume a quaranta gradi. Un uomo che era diventato maestro nelle nobili arti della mendicazione e della fuga, ogni volta che un idiota in cerca di qualcuno da picchiare, il padrone di un locale troppo raffinato per tollerare un barbone davanti alle sue porte o lo sceriffo di Chihuahua sempre così ligio al suo dovere gli correvano dietro.

    Un topo stava rosicchiando qualcosa, vicino ai suoi piedi.

    Tu hai meno problemi di me, topo. Pensò. Il peggio che ti può capitare è di venire scacciato con una scopa da una vecchia megera spaventata, ma non devi scendere a patti con il tuo orgoglio per poter continuare a mangiare.

    Orgoglio!

    Ma quando l’aveva perduto?

    Era successo quando aveva chiesto per la prima volta a un barman un bicchiere a credito? Oppure quella notte, tempo fa, sulla Mesa del Coyote?

    Anche quella volta era ubriaco, anche più di adesso. Faticava a ricordare un giorno in cui non fosse stato ubriaco, dopo il ritorno da quella spedizione. L'ultima paga che John Botero gli aveva sbattuto in faccia prima di lasciarlo andare via l'aveva spesa tutta in alcool.

    Da allora la sua vita era stata un susseguirsi confuso di bar, osterie, saloon, fino alle peggiori bettole. Eppure, non poteva più fare a meno di bere. I ricordi di quella notte pesavano troppo.

    Ma almeno, quando beveva, la morsa della coscienza sul suo cuore si allentava un po’, abbastanza da consentirgli di arrivare vivo alla prossima bottiglia.

    Un’ombra improvvisa oscurò la luce della luna. Una nuvola, pensò, ma non alzò lo sguardo per controllare. Temeva che la nuvola sarebbe passata, e così si sarebbe trovato di nuovo a incrociare lo sguardo accusatore di quell'occhio rosso. Meglio di no.

    Il topo, spaventato da chissà cosa, mollò la sua cena e schizzò via squittendo, per scomparire in un buco nel muro. Joshua rimase a fissare il buco per un po’.

    Quanto mi piacerebbe poter fare come te, amico mio. Pensare solo a mangiare e ad accoppiarmi, senza bisogno di umiliarmi di fronte a nessuno, e poter sparire nel nulla quando c’è qualcosa che non mi va, come se non fossi mai esistito. Sì, mi piacerebbe.

    Si asciugò con la mano una lacrima al gusto di whisky, sporcando ancora di più il viso lurido. Sentiva freddo, e la nuvola non era ancora passata.

    Decise di sfidare lo sguardo indagatore della luna comanche, per controllare le condizioni del tempo. Non gli sarebbe piaciuto essere sorpreso dalla pioggia.

    Alzò lo sguardo, lentamente per non farsi venire un altro capogiro, e lo vide.

    L’essere stava sul tetto della casa, sopra di lui. Aveva una testa mostruosa, tutta denti, con due grandi occhi sporgenti, enormi orecchi, quattro corna che gli spuntavano dal capo e una pelliccia che gli copriva le spalle.

    Era lui a celare la luna. La sua ombra cadeva su Joshua come un manto, nascondendolo sì allo sguardo maligno dell'occhio rosso, ma al contempo sprofondandolo nelle tenebre che l’essere stesso pareva emanare.

    Ho bevuto troppo. Ho bevuto troppo e ho le allucinazioni.

    Per un istante eterno l’essere lo fissò, poi, d’improvviso, scomparve.

    Joshua sbatté le palpebre, il viso nuovamente illuminato dalla luna. Non vedere più quella testa mostruosa era un sollievo, ma forse era peggio non sapere dove si trovasse.

    Si sfregò gli occhi con le dita sudice. Era ormai talmente perso nei fumi dell’alcool da non saper più distinguere la realtà dalla fantasia? Eppure non gli sembrava di aver bevuto più del solito, quella sera. Questo significava che il suo cervello era ormai andato?

    Era sull’orlo dell’abisso. Se avesse continuato a bere, l'alcool lo avrebbe portato alla demenza. Se avesse smesso, i suoi rimorsi lo avrebbero distrutto.

    Non c’erano vie d’uscita.

    Forse, la morte.

    Un po’ di corda, una trave robusta oppure un ramo abbastanza alto, ed ecco la fine delle sue sofferenze.

    Ah, ma era troppo codardo.

    Cosa fare, cosa fare? Poteva cercare aiuto? Ma da chi? David Queen, o meglio padre David, aveva trovato conforto nella religione. Forse avrebbe potuto cercarlo. Magari lui avrebbe potuto aiutarlo a quietare la sua anima e a sopportare il suo fardello…

    Ma non aveva soldi per viaggiare. Poteva rubare qualcosa qua e là… non un cavallo, se l’avessero preso l’avrebbero impiccato, ma magari con tanti piccoli furtarelli avrebbe potuto mettere da parte abbastanza da comprarsene uno.

    Sì, doveva fare così. Almeno, avendo un obbiettivo, avrebbe avuto la mente occupata.

    Ma ora doveva riposare un po’. Il giorno dopo avrebbe cominciato a preparare un piano; ora, sebbene sentisse che la sbronza gli stava passando, non aveva ancora la mente abbastanza lucida. Sì, ci avrebbe pensato l’indomani. Ora, una bella dormita, sperando che i mostri non venissero a disturbarlo anche nei sogni.

    Si lasciò scivolare in basso cercando una posizione comoda, e lui era lì.

    Vide prima i suoi piedi, calzati in comodi mocassini di fattura indiana.

    Le sue gambe nude erano muscolose e possenti, tanto da parere due colonne piantate così saldamente nel terreno che nemmeno una tempesta avrebbe potuto smuoverle.

    La sua vita era circondata da un gonnellino ornato con disegni indiani che gli scendeva fino a metà coscia, coprendogli le nudità.

    La sua mano destra, inerte lungo il fianco, stringeva mollemente un tomahawk ornato con quattro piccole piume. L’altra mano era vuota, ma era abbastanza grande e forte da essere anch’essa un’arma terribile.

    Le sue braccia, nude fino alle spalle, erano talmente muscolose da sembrare coperte da una corazza di carne, e percorse da vene pulsanti grosse come corde.

    Dalle spalle alla vita era coperto da una spessa pelliccia nera, forse strappata a un orso, che gli scendeva fino all’ombelico.

    La sua testa era un incubo.

    Nera, troppo grande, sproporzionata rispetto al resto del corpo. Due enormi orecchie, rosse, una bocca gigantesca e prominente con le labbra tese a mostrare due file di denti bianchissimi e affilati come rasoi, e due occhi neri che sporgevano all’infuori, cerchiati di bianco. Dalla sommità del capo gli spuntava un ciuffo di peli rossi da cui partivano quattro lunghe piume bianche e nere che prima aveva scambiato per corna.

    L’incubo non parlava, e i suoi occhi assurdi erano immobili, eppure Joshua sapeva che lo stava fissando. Sentiva il suo sguardo pesare come un macigno, e anche l’aria intorno a lui, fino a poco prima smossa da una leggera brezza, parve fermarsi e farsi più pesante.

    La cosa più assurda era che gli sembrava familiare.

    Poi il mostro alzò il tomahawk, e Joshua urlò.

    Si alzò di scatto e cominciò a correre, schizzando via tra la creatura e il muro alle sue spalle, riuscendo chissà come a tenersi in piedi nonostante il capogiro terribile che l’aveva colto per essersi alzato troppo in fretta.

    Corse via lungo il vicolo, corse come non aveva mai corso, corse per allontanarsi dall’incubo. L'essere lo inseguiva divorando la distanza che li separava con delle falcate terribili.

    Joshua urlò ancora, mentre si liberava del mantello stracciato che aveva addosso e cercava di aumentare il passo.

    Conosceva la gente di quella città, e sapeva che anche chiamando aiuto nessuno avrebbe mosso un dito per lui, eppure non riusciva a smettere di gridare. Corse per i vicoli che conosceva così bene, attraverso i muri sbrecciati e le case abbandonate in cui aveva trovato tante volte rifugio, corse come non aveva mai fatto in vita sua.

    L’essere alle sue spalle non emetteva alcun suono, eppure lui sapeva che era dietro di lui, anche senza bisogno di voltarsi. Lo fece lo stesso, un paio di volte, e ogni volta era un po' più vicino.

    Correva, e sembrava che il cuore dovesse scoppiargli nel petto, lo sentiva martellare nelle tempie e nella gola, eppure pareva fermarsi di colpo tutte le volte che incespicava. E si gettava in tutti gli anfratti, si arrampicava sui mucchi d’immondizia, s’infilava nelle finestre aperte, si lanciava giù dalle scale diroccate, si infilava in aperture così strette da lacerargli i vestiti e graffiargli la pelle. Cercava un posto dove nascondersi, uno dei rifugi che l’avevano salvato tante volte in passato, ma non riusciva a distanziare abbastanza il suo inseguitore da potersi fermare anche solo per un momento. Anzi, era sempre più vicino.

    Ogni tanto, nella sua mente, faceva timidamente capolino un pensiero, troppo terribile per dedicargli più di un fuggevole istante. E se non fosse vero? E se fosse solo una visione, e stessi scappando dal nulla?

    E se fossi pazzo?

    In quei momenti si voltava, vedeva i muscoli del mostro che si tendevano e si gonfiavano come mantici e le sue gambe che si alzavano e si abbassavano, inesorabili, inarrestabili, e chiedeva ancora uno sforzo al suo corpo stremato, e correva un po’ più veloce.

    Ma chi è? Si chiedeva.

    Cercò nella sua mente stanca, e un barlume di conoscenza parve affiorare, l’ombra di un ricordo che per lungo tempo aveva cercato di dimenticare. Ma non riuscì ad afferrarlo, concentrato com’era sul movimento delle sue gambe.

    Provò ogni via di fuga nella zona disabitata, usò ogni trucco, tentò ogni astuzia, tutto inutile. Improvvisamente, intravide la fine dell’ennesimo vicolo che stava percorrendo, e che dava direttamente nella main street di Chihuahua. Aggrappandosi a un’ultima, flebile speranza, spremette ancora un po’ il suo corpo torturato, ignorando il dolore terribile alle gambe, l’incessante martellare alle tempie, il cuore che gli danzava nel petto senza più seguire un ritmo, l’aria che gli entrava nei polmoni e che gli bruciava come fuoco liquido, e riuscì a distanziare un poco il suo inseguitore, avvertito più come uno spostamento d’aria alle sue spalle come una presenza fisica, silenzioso com’era.

    Forse nella main street c'è ancora qualcuno sveglio. Forse, se mi metto a gridare, almeno lì qualcuno aprirà le finestre per vedere cos’è quel baccano…

    E corse, aggrappandosi a quella speranza, finché non sbucò nella strada.

    Non c’era nessuno.

    Tranne, alle sue spalle, la morte.

    Disperato, continuò a correre, cercando di costringere i suoi polmoni esausti ad emettere abbastanza aria da permettergli di chiamare aiuto, e gridò, e corse, e gridò, ma non si affacciò nessuno.

    Finché, di colpo, il dolore.

    Lancinante, terribile, come se mille aghi gli avessero trafitto il cuore.

    Incespicò, smise di correre, e si fermò.

    Si accasciò sulle ginocchia, consapevole di ciò che gli stava succedendo: un infarto. Aveva chiesto troppo al suo corpo devastato dall’alcool, e ora ne pagava le conseguenze.

    Mentre, lentissimamente, cadeva, scosso da tremiti convulsi, la disperazione più nera si impadronì di lui. Solo pochi minuti prima aveva pensato alla morte come a una liberazione, ma ora che stava per succedere davvero cambiava tutto.

    Si aggrappò alla vita con tenacia, cercando di spingere il suo cuore a tornare a funzionare. Sentì un battito. Forse poteva ancora farcela…

    … ma il mostro lo raggiunse.

    Il colpo arrivò, violentissimo, alla nuca. Gli occhi parvero schizzargli via dalle orbite, e la sua testa fu sbattuta a terra.

    Fece in tempo a vedere l’ampia schiena del suo assassino mentre correva via e scompariva tra due case, prima che la vista gli si offuscasse.

    Incredibilmente, sorrise.

    L'aveva finalmente riconosciuto, sapeva chi era, e perché l’aveva ucciso.

    E, almeno, esisteva davvero. Meglio la morte della follia, in fondo.

    Liam

    Il pranzo in albergo non era stato niente male, ma avrebbe dovuto provvedere in qualche modo a farsi da mangiare da solo, perché un dollaro e mezzo a pasto era veramente troppo. E il gestore aveva anche avuto il coraggio di dirgli che gli aveva fatto lo sconto visto che l’aveva mandato Quigley!

    Meglio risparmiare qualcosa per eventuali tempi bui. Non sapeva quanto sarebbe durato il suo lavoro al Golden Star, e anche se Quigley, così a pelle, gli dava una certa fiducia, la prudenza non era mai troppa. E poi era troppo abituato a viaggiare per pensare a sé stesso come a un uomo da stipendio fisso.

    In realtà qualcosa gli diceva che sarebbe stato meglio rimanere, stavolta, ma non sapeva dire cosa. La cittadina era carina, ma sospettava che la sua maggiore attrattiva, piuttosto che le sale da gioco e i bordelli, fossero un paio di occhi verdi.

    Stava ancora pensando a quella ragazza mentre bussava alla porta del Golden Star.

    Venne ad aprirgli uno dei croupier, abbigliato per il giorno con un grembiule bianco pieno di macchie e una ramazza.

    – Siamo chiusi. – Era un ragazzino con i capelli rossi e le lentiggini, che avrebbe dovuto trattare con maggiore rispetto chi era più anziano di lui, ma Liam era di buon umore e non diede peso alla scortesia.

    – Lo so, ma vedi, lavoro qui. Il tuo capo mi ha assunto giusto ieri.

    Il ragazzo inarcò un sopracciglio, sospettoso.

    – Se non ci credi, chiama il signor Quigley e chiedi a lui.

    – È meglio non disturbare il signor Quigley quando sta riposando: diventa nervoso. E io non ho nessuna voglia di farlo innervosire.

    – Senti, qui tra un’ora apre e io immagino di dover essere qui prima dell’apertura. Neanch’io ci tengo molto a farlo innervosire visto che è il mio primo giorno di lavoro.

    Il ragazzo si guardò intorno cercando aiuto, ma l’altro giovane che stava pulendo i tavoli dalla parte opposta del locale si affrettò ad abbassare lo sguardo e a fare finta di non esistere.

    – Senti amico – disse, cominciando a balbettare. – I-io so che non devo far entrare nessuno prima dell’orario di apertura, quindi nessuno entra, c-capito? T-torna tra un’ora.

    Il sorriso svanì dalla faccia di Liam. – Quando pensi che scenderà il tuo capo?

    – L-lui scende sempre tardi, tra due o tre ore, a-almeno.

    – Senti. Io ora entrerò, e mi siederò là. – Indicò un tavolo da poker a fianco della porta. – Mi metto lì e non dò fastidio, non mi sentirai neppure. Aspettiamo insieme il tuo capo. Quando arriverà, mi farò due risate guardandolo mentre ti prende a calci in culo per non avermi fatto entrare subito. Chiaro? E ora spostati, o dovrò passarti sopra.

    Il ragazzo lo guardò a bocca spalancata, ma non si mosse. Liam fece per entrare, ma il ragazzo lo bloccò mettendogli una mano sul petto.

    Liam guardò la mano, poi alzò lentamente lo sguardo fissandolo negli occhi del giovane.

    – M-mi dispiace. N-non p-puoi entrare. I-il capo ha-a detto d-di n-non f-f-f-fare entrare nessuno.

    Liam si chiese se fosse davvero così stupido. Se al posto suo ci fosse stato suo fratello, il ragazzo sarebbe già volato in strada da un bel pezzo. O magari il suo capo era davvero uno che era meglio non contrariare.

    Si chiese se Quigley si sarebbe arrabbiato di più per il ritardo oppure per la mancanza di rispetto implicita nello stendere uno dei suoi.

    Non fece in tempo a decidere nulla, però. Fu praticamente travolto da un donnone che lo spinse da parte con la grazia di un treno in corsa e che, senza degnarlo di uno sguardo, investì di parole il povero croupier, che sembrò farsi ancora più piccolo e terrorizzato.

    – Jimmy! Dov’è il tuo capo?

    – Ah-ah-è-è d-di sopra, s-signora…

    – Quel disgraziato! Fatti da parte, che vado a sistemarlo!

    Il donnone sembrò improvvisamente accorgersi di Liam, che si stava rimettendo a posto la giacca dopo essere stato mandato a sbattere contro lo stipite. – E questo chi diavolo è? – chiese al ragazzo.

    – D-dice di essere stato assunto ieri sera dal signor Quigley.

    – Ah sì? – si rivolse a Liam. – Come ti chiami, giovanotto?

    Giovanotto… Liam si chiese quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che qualcuno lo aveva chiamato in quel modo. Ma la donna in effetti era parecchio più vecchia di lui, doveva essere sulla cinquantina.

    Era grassa, abbastanza da stirare le rughe sul suo viso. Ma non era flaccida e untuosa come la maggior parte dei grassoni che Liam aveva conosciuto. Il vestito rosso e nero le lasciava le braccia scoperte, e il grasso che le ricopriva appariva piuttosto solido e mischiato a una muscolatura bella soda. Anche le sue mani parlavano di una lavoratrice, nonostante il vestito da gran signora, il cappellino di traverso sulla testa con tanto di piuma, il pesante trucco in viso e il barile di profumo che doveva essersi spruzzata addosso che sembravano più adatti a chi di lavoro manuale non aveva mai sentito parlare. I suoi fianchi larghi strabordavano dal busto che la stringeva in vita. Liam cercò di immaginare quale complesso sistema di impalcature potesse tenere quegli enormi seni spinti verso l’alto, così da renderli simili a due cocomeri ornati di pizzo nero.

    I lineamenti del suo volto erano stranamente delicati, sotto il sottile strato di grasso. Le guance cicciottelle non erano così gonfie da nascondere i grandi occhi neri dalle lunghe ciglia, e le labbra spesse coperte di un rossetto rosso fuoco conservavano una certa voluttà, nonostante fossero strette in un’espressione imbronciata.

    – Ehi, amico, ti sei incantato?

    – Eh? Beh, ecco, come non rimanere incantati? – sfoggiando il suo migliore sorriso, Liam si tolse il cappello e si inchinò. – Sono arrivato in questo paese solo da pochi giorni, ma mi viene subito mostrato quanto di meglio ha da offrire. Lieto di fare la sua conoscenza, signorina. Il mio nome è Liam Calavera.

    Il grugno del donnone si addolcì.

    – Ma guarda – disse, stringendogli la mano in una morsa che lo costrinse a sforzarsi per non smettere di sorridere. – Sam mi ha parlato di te, ieri sera. A quanto pare il vecchio lupo ha deciso di rinnovare il personale! Non è mai successo che assumesse dei ragazzi così carini! Di solito si circonda di elementi come questi! – il donnone lasciò andare la mano, con grande sollievo di Liam, per sventagliare il braccio in un gesto che voleva includere sia il ragazzo sulla porta che quello più dentro, che stava ancora pulendo i tavoli. Jimmy diede prova di un’ottima prontezza di riflessi scansandosi appena in tempo per schivare una sventola involontaria che l’avrebbe sicuramente mandato al tappeto.

    – Ragazzini brufolosi bravi a mischiare le carte, ma così magri che non riescono nemmeno a reggersi in piedi! Per non parlare dello scimmione che aveva assunto prima di te come buttafuori!

    Si avvicinò per parlare nell’orecchio di Liam, ma il suo tono di voce non calò di una virgola, con buona pace dei suoi timpani.

    – Sai, a volte sospetto che abbia paura della competizione. Vedi, lui è anzianotto, e le ragazze non gli muoiono più dietro come un tempo… Allora, Jimmy, che ci fai ancora lì sulla porta? Ci fai entrare o cosa?

    – Prego… – il ragazzo si spostò di lato, rassegnato.

    – Alla buon’ora! – la donna si diresse a passo di carica in direzione delle scale.

    Liam entrò con più calma, osservando con curiosità il sederone della donna che faceva su e giù mentre saliva. – Pessima idea mettersi sulla sua strada, eh? – disse al ragazzo, appoggiato stancamente alla sua scopa.

    Prima che Jimmy potesse rispondere, la donna si voltò e lo chiamò dalla scala. – Ehi, Calavera! Non mi sono presentata! Non starò a sciorinarti la sfilza di nomi e cognomi che ho ereditato dai miei genitori messicani. In paese mi conoscono come Mama Lisa! Se hai bisogno di qualcosa, sai dove trovarmi. E se non lo sai, sono sicura che lo scoprirai presto! A più tardi! – e sparì al piano di sopra.

    Liam si rivolse nuovamente al ragazzo. – Ehi, ma è la stessa Mama Lisa che dirige il bordello?

    – Proprio lei, il Night Satisfactions. Con successo, bisogna dire.

    – Ma tu pensa… ma, dimmi: per caso c’è qualcosa tra lei e Sam Quigley?

    – Credimi, a qui due è meglio non fare domande… ma se hai gli occhi per vedere…

    – Hai capito… – Liam pensò che avrebbe dovuto farsi amica quella simpatica matrona.

    – Senti, amigo… non ti arrabbiare per prima, eh? Se lavorerai qui per un po’, capirai che obbedire alla lettera al signor Quigley è la politica migliore per conservare la salute.

    – Non ti preoccupare, non me ne ricordavo neanche più.

    Il ragazzo tornò a ramazzare per terra.

    – Comunque, a mia discolpa posso dire che il buttafuori che c’era prima di te arrivava sempre a serata inoltrata. Penso che dovrebbe essere così anche per te, perché a inizio serata nessuno ha ancora bevuto o perso abbastanza per avere voglia di fare casino.

    – Mi ha detto il capo di venire a quest’ora. Si vede che voleva darmi qualche istruzione, poi se n’è dimenticato. Volete una mano?

    – No, siediti pure tranquillo. Se vuoi salta dietro il bancone del bar e prenditi qualcosa da bere, l’importante e che mi lasci finire di pulire senza trascinare in giro altra polvere.

    Liam fece per seguire il suggerimento, poi preferì lasciar perdere. Se Quigley fosse sceso in quel momento forse avrebbe potuto dargli fastidio vedere il suo nuovo dipendente intento a trangugiare alcool sul posto di lavoro. Si scelse un tavolo all'angolo in modo da non dare le spalle alla porta, e si mise seduto ad aspettare.

    – Ehi Jimmy, mi dai un mazzo di carte?

    Liam fece un paio di solitari. Intanto arrivarono gli altri croupier. Erano tutti giovani, con le mani non ancora rovinate dal lavoro manuale. Il minimo per riuscire a maneggiare le carte con abilità e stile.

    Lo guardavano tutti con curiosità, ma evitavano di incrociare il suo sguardo. Bene: se incuteva timore, il suo lavoro sarebbe stato più facile.

    Magari era colpa del suo grosso cinturone con la fondina allacciata bassa alla gamba, e la cartucciera che pendeva di sbieco intorno alla vita. Stonava un po’ con il vestito da damerino. Il cinturone di Quigley, che aveva visto la sera prima, era certamente più adatto al suo vestito. Era più piccolo e senza cartucciera, con la fondina allacciata obliquamente sul davanti, con il calcio rivolto verso sinistra. La pistola in quella fondina, però, era più decisamente piccola di quella che teneva sul fianco sinistro, con il calcio in avanti per essere estratta con la destra, che doveva essere la sua mano preferita. Era davvero un pistolone impressionante, e Liam si chiedeva quanto dovesse pesare.

    I ragazzi avevano quasi finito di mettere a posto il locale, molti di loro si erano anche già messi la divisa (camicia granata e gilet di pelle nera). Su tutti i tavoli di poker, di blackjack, di baccarat, di trente quarante, di faro, erano state stese le tovaglie verdi. I banchi della roulette e dei dadi erano stati preparati, le parti in legno e ottone lucidate fino a farle luccicare. Il barista aveva pulito il bancone e messo in ordine le bottiglie, sostituendo quelle vuote con delle altre che era andato a recuperare in un magazzino sul retro.

    Jimmy venne a sedersi al suo tavolo. – Come va il solitario?

    – È già la terza volta che lo faccio, e non sono ancora riuscito a finirlo. Oggi le carte non girano. Meno male che sono venuto qui a lavorare e non a giocare, altrimenti mi lascereste in mutande.

    Jimmy rise.

    – E tu, che cosa fai qui dentro?

    Jimmy si toccò il gilet. – Il croupier, non si vede?

    – Voglio dire, a quale tavolo sei?

    – In realtà ci scambiamo spesso i posti durante la serata. Quigley dice che un cliente che perde forte tende a dare la colpa al croupier. La mia specialità, comunque, è il Black Jack.

    – Il signor Quigley è astuto come uno strizzacervelli, eh?

    – Bah… tra poco apriamo. Prima di cena arriva poca gente, ma noi comunque dobbiamo fornire il servizio, se qualcuno ha fretta di buttare via i suoi soldi. Avrai poco lavoro, fino a stasera.

    – Per me va bene. Mi piacerebbe che il capo scendesse per spiegarmi bene cosa devo fare, comunque, prima che arrivino i clienti.

    – Oh, scenderà sicuramente, anche se magari ci metterà un po’, visto che ha delle visite…

    – Ma, dì, veramente se la intendono quei due?

    Jimmy sorrise. – Avrebbero voluto tenerlo segreto ma, come avrai notato, contenere l’esuberanza di Mama Lisa non è un’impresa facile. E poi sono due dei personaggi più in vista del paese.

    – Ma pensa te…

    Liam rise, all’idea di quelle due persone di mezza età che si lasciavano andare a follie sessuali.

    Furono interrotti da un furioso bussare alla porta, che tremò addirittura sui cardini.

    – Alla faccia della febbre del gioco! – commentò Liam.

    Uno dei ragazzi si guardò intorno poi, accertatosi di non essere solo, andò alla porta e girò la chiave.

    La porta si spalancò con tanta violenza che il ragazzo fu costretto a fare rapidamente un passo indietro per non prendersela in faccia.

    – Mark! Dov’è Quigley? – disse il tipo alla porta. – Vallo a chiamare!

    – Oh, no… È Olsen… – Jimmy si rivolse a Liam, mentre si alzava. – L’ex buttafuori. Temo che voglia fare casino.

    Liam mise una mano sul braccio di Jimmy e lo tirò di nuovo a sedere. – Me ne occupo io. È il mio lavoro, no? – e si alzò.

    Il ragazzo sulla porta stava dicendo al tipo di calmarsi, mentre indietreggiava tendendo le mani in avanti.

    – Calmarmi un accidente! – l'uomo mosse un passo dentro. Liam poté vedere la fasciatura sul fianco, sotto la camicia, dove era stato ferito col coltello. Non doveva essere un gran buco se gli permetteva di andare in giro a fare il matto.

    – Il dottore mi ha detto che sono stato licenziato! Voglio sapere perché! Dov’è Quigley? Chiamalo!

    Liam scostò il ragazzo dalla porta e si mise davanti all’ex buttafuori, bloccandogli la strada. Poteva vedere la rabbia ribollire sotto la sua pelata. La sua faccia si riempiva di grinze deformando i suoi lineamenti in una smorfia ridicola.

    – E tu chi diavolo sei? – un po’ di saliva andò a finire sulla giacca di Liam.

    – Sono il nuovo buttafuori, e sembra che il mio primo giorno di lavoro dovrà iniziare proprio con te.

    – Che cosa!? IO sono il buttafuori! Togliti, stronzo, devo parlare con Quigley! – Olsen mise una mano sul petto di Liam per spingerlo da parte, ma fu una pessima mossa.

    Liam gli afferrò il polso e glielo torse, costringendolo a girarsi fino a dargli la schiena. Poi con l’altra mano lo afferrò per la nuca e lo mandò a sbattere la faccia contro lo stipite della porta.

    – A chi, stronzo?! – gridò Liam, poi avvicinò la bocca all’orecchio di Olsen.

    – Il lavoro l'hai perso perché sei un incapace. Fattene una ragione.

    Olsen gemette e cercò di divincolarsi, ma Liam spinse più in alto il braccio, stappandogli un grido.

    – Vuoi che ti si riapra la ferita, idiota? Ora fermo! Il signor Quigley a quest’ora non vuole essere disturbato, e tu dovresti saperlo. Sono sicuro che sarà felice di darti i tuoi soldi e tutte le spiegazioni che vuoi, se tornerai più tardi.

    Lo lasciò andare,

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