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In corsa con Hillary: Dieci anni, due campagne elettorali e il soffitto di cristallo ancora intatto
In corsa con Hillary: Dieci anni, due campagne elettorali e il soffitto di cristallo ancora intatto
In corsa con Hillary: Dieci anni, due campagne elettorali e il soffitto di cristallo ancora intatto
E-book545 pagine8 ore

In corsa con Hillary: Dieci anni, due campagne elettorali e il soffitto di cristallo ancora intatto

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Info su questo ebook

Dieci anni, due campagne elettorali e il soffitto di cristallo ancora intatto

Dopo aver raccontato la disastrosa campagna elettorale del 2008, la pluripremiata giornalista del New York Times Amy Chozick ha continuato a seguire le vicissitudini di Hillary Clinton in un lungo viaggio di quasi dieci anni, durante il quale la sua formazione – sia personale che professionale – si è intrecciata con le ambizioni presidenziali della Clinton. Mentre l’aspirante prima donna presidente cercava per ben due volte, senza riuscirci, “di mandare in frantumi quell'altissimo e durissimo soffitto di cristallo”, la reporter cercava di scalare l'Olimpo del giornalismo americano.
La franchezza e l'umorismo dei suoi racconti – dai reportage dall'autobus di Hillary e dal quartier generale di Brooklyn, fino ai resoconti degli scontri con Donald J. Trump – rivelano particolari inediti, divertenti e intriganti sulla campagna presidenziale. Quella che l'autrice ci racconta dal suo posto in prima fila è la storia vera, ricca di dettagli che il più delle volte sorprendono e illuminano.
Ma In corsa con Hillary è anche la storia spiritosa, irriverente e onesta dell'influenza che Hillary Clinton ha avuto sulla vita di Amy Chozick: mentre si ingegna per conciliare il tentativo di infiltrarsi nei ranghi più alti del giornalismo politico con la ricerca di un modo per congelare i propri ovuli così da poter avere figli dopo la campagna del 2016, la giornalista analizza le decisioni che la Clinton ha preso in momenti analoghi della sua vita. E arriva a comprendere cosa l'abbia spinta, come abbia realizzato ciò che nessuna donna aveva mai fatto prima e perché alla fine abbia fallito.
Ripercorrendo gli alti e bassi delle elezioni presidenziali più scorrette e violente della storia americana, Amy Chozick rivela come la sconfitta di Hillary abbia segnato la sua vita professionale, e l'abbia costretta a mettere in discussione tutto ciò per cui aveva lavorato tanto.
Commovente, ironico e molto divertente, In corsa con Hillary è un libro che parla di politica, ma si legge tutto d'un fiato come un romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2018
ISBN9788858991282
In corsa con Hillary: Dieci anni, due campagne elettorali e il soffitto di cristallo ancora intatto
Autore

Amy Chozick

Originaria di San Antonio, Texas, ha lavorato per otto anni al Wall Street Journal, dove è stata corrispondente estero da Tokyo prima di seguire la campagna presidenziale di Obama e Hillary Clinton nel 2008. Reporter del New York Times dal 2011, si è occupata della copertura giornalistica della campagna presidenziale di Hillary Clinton nel 2016 ed è stata consulente per la serie Netflix House of Cards. Vive a New York con il marito e il figlio.

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    Anteprima del libro

    In corsa con Hillary - Amy Chozick

    1

    FELICE HILLARY

    Tutto era bello e nulla stonava.

    Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5

    8 novembre 2016

    Sull’autobus della stampa tacevamo tutti. In ultima fila, puntellai le ginocchia contro il sedile di fronte, mi abbandonai contro lo schienale e fissai il fiume Hudson fuori del finestrino. Nelle ultime ventiquattro ore avevo dormito sì e no quarantacinque minuti, e pure quelli per errore. Mi ero appisolata tutta storta su una poltrona nell’atrio del Ritz-Carlton di White Plains, New York, mentre aspettavo che lo staff della campagna elettorale di Hillary ci imbrancasse sul pulmino per portarci a guardarla votare. Dal Labor Day – il primo lunedì di settembre – in pratica avevamo vissuto in quella slanciata torre d’argento che, fino all’arrivo della stampa accreditata di Hillary, sembrava essere stata eretta al solo scopo di ospitare gestori di fondi d’investimento speculativo e squillo.

    Sia Hillary sia Donald Trump preferivano tornare a New York la sera, per dormire nei rispettivi letti. Per noi giornalisti itineranti, alloggiare al Ritz significava essere abbastanza vicini a casa Clinton, a Chappaqua, pur continuando nel frattempo a fare incetta di punti Marriott, che di fatto furono tutto ciò che ci permise di reggere durante quegli ultimi mesi sulla strada. Intere conversazioni ruotavano intorno a quei punti, quanti ne avevamo, sotto quale forma li avremmo riscossi una volta finita la campagna.

    Non avrei saputo dire se fossi solo stanca o se invece fossi ancora in preda al convulso turbinio mentale di chi – alle tre e quarantacinque del mattino – si era scolato tre bicchierini di cartone colmi di champagne tiepido appena prima di inviare al New York Times il suo ultimo articolo sulla campagna. Probabilmente, entrambe le cose.

    In un primo momento avevo resistito a quell’avanzo di champagne che, ormai diverse ore prima, sullo Stronger Together – l’aereo della campagna – era passato dalla parte anteriore della cabina riservata a Hillary, amici e staff, nelle turbolente retrovie della stampa.

    Avevo imparato la lezione otto anni prima, quando ancora non ero una distaccata e obiettiva cronista politica del Times. All’epoca – campagna 2008 – Hillary ci aveva raggiunto in fondo all’Hill Force One e ci aveva allungato un vassoio di tortine alle pesche del Kitchen Express di Little Rock. Me n’ero accatastata sul piatto un bel mucchietto, e l’immagine era atterrata sulle scrivanie della Associated Press. Ed eccomi lì, una novizia del Wall Street Journal che consentiva alla candidata di imboccarla. Alla lettera.

    Questa volta, però, erano le due del mattino dell’Election Day, e anche noi giornalisti accreditati – per lo staff elettorale, gli Itineranti – cominciavamo a renderci conto che era finita. Eravamo un fascio di emozioni e adrenalina. Quella sull’aereo non era solo la festa di Hillary. Anche noi avevamo vinto. Eravamo sopravvissuti ai 577 giorni della campagna presidenziale più perniciosa ed estenuante della storia moderna. E ora avremmo riscosso la nostra ricompensa: la possibilità di raccontare la storia, l’elezione della prima donna presidente, per noi FWP – First Woman President.

    Lo staff elettorale ci aveva mandato la tabella di marcia per il giorno successivo. L’ultima.

    Dopo oltre 120 tabelle di marcia, 300 pasti e infiniti punti Marriott, ci auguriamo che vi godiate la giornata on the road:

    White Plains → Pittsburgh → Grand Rapids → Philadelphia → Raleigh → White Plains

    Fino a quell’ultimo giorno, non avevo avuto l’impressione di essere stata inviata a coprire una campagna vincente. Non che pensassi che avrebbe potuto vincere Trump. Credevo nei numeri, eppure non riuscivo a scuotermi di dosso la fastidiosa – e comune – sensazione che lei non ce l’avrebbe fatta. A metà ottobre, dopo che era stato reso pubblico il nastro di Access Hollywood, avevo lavorato per lo più dalla redazione di New York, impegnata a tenere dietro al frenetico susseguirsi di notizie. Alla fine avevo implorato i miei boss di rimandarmi sul Cammino, come in gergo chiamiamo la carovana elettorale.

    «È solo che sento che le elezioni non stanno avendo luogo nel mio cubicolo» avevo supplicato Caporedattore Anziano, che – manina alzata come stesse rispondendo a una domanda dell’insegnante – mi aveva ricordato che le ultime proiezioni del Times davano Hillary vincente al 93 per cento. «E comunque è finita» aveva aggiunto.

    Era finita, e dovevamo tenerci pronti. Avevo apportato gli ultimi ritocchi all’articolo di 3500 parole sul percorso di Hillary verso la presidenza, cui il Times aveva già riservato sei colonne in prima pagina sotto il titolo SIGNORA PRESIDENTE.

    Il paragrafo chiave – che il mio coautore, Patrick Healy, e io avevamo trascorso settimane a limare – recitava come segue:

    Nessuno nella politica moderna, uomo o donna, si è ritrovato a fronteggiare più umiliazioni, battute d’arresto e cinismo. Questa donna ha sviluppato una corazza che ha reso la vera Hillary Clinton un enigma. Ma pur essendo diventata circospetta in merito ai suoi sentimenti e opinioni, ha sempre ritenuto di farlo per lo scrupoloso perseguimento del sogno di generazioni di americani: l’elezione della prima donna presidente della nazione.

    Avevo altri due pezzi da chiudere, uno su come la Clinton avesse in piano di operare in sintonia con i repubblicani e uno sulla dottrina Hillary, sia nella politica interna sia in quella estera. Avevo anche un paio di servizi già pronti a uscire sul Times all’indomani delle elezioni, nella pagina celebrativa dedicata alle donne. Gli inserzionisti avevano già acquistato tutti gli spazi in quella storica edizione straordinaria. Avevo persino scritto un pezzo per l’inserto domenicale di costume su come Hillary fosse il presidente più dedito all’alcol dopo Franklin Delano Roosevelt.

    Perennemente bollata come secchiona, compassata e pedante, religiosamente praticante e ligia al dovere, certo non l’anima delle feste in stile confraternita, di fatto la signora Clinton gradisce farsi un bicchierino – o tre – più della maggior parte dei presidenti che l’hanno preceduta.

    Dal mio posto di quella notte, là sullo Stronger Together, avevo visto tutto. Hillary, nella sezione anteriore della cabina. Bill, Chelsea e tutti i loro assistenti lì con lei, in piedi nel corridoio o sui rispettivi sedili. Torri di scatole di pizza in bilico sui tavolini richiudibili. Lo champagne, seguito dal caffè, che circolava nella sua cerchia ristretta – i collaboratori della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, quelli che a tutti i costi aveva voluto tenere a bordo campo durante la campagna – vale a dire la sua futura Ala ovest caffè-dipendente, al momento in volo a 39.000 piedi di quota. Jon Bon Jovi, amico di famiglia, appollaiato sul bracciolo della candidata con la sua chitarra, i jeans neri che le sfioravano la spalla.

    Persino gli agenti dei servizi segreti, che di solito sedevano dritti come fusi nella parte centrale della cabina – un baluardo in carne e ossa tra la stampa e la Clinton – stavano gironzolando per l’aereo. Un gran pezzo di cecchino con pantaloni mimetici, giubbotto antiproiettile e nere sopracciglia acuminate si era avventurato nella nostra zona per adocchiarci: la stampa accreditata di Hillary era quasi interamente femminile.

    Al di sopra della cacofonia che rimbombava nella nostra parte di cabina – un mix di Single Ladies e Don’t Stop Believin’, sparati a tutto volume dalla macchina karaoke di un fotografo e dalla cassa portatile di un producer televisivo che facevano a chi assordava di più – avevo sentito la fragorosa risata di Hillary. Aveva un sorriso a sessantaquattro denti.

    In dieci anni di servizi su di lei – i miei anni formativi, in tutti i sensi – non l’avevo mai vista tanto felice. Quel sorriso particolare, enorme e smodato, una O spalmata su tutta la faccia, gliel’avevo visto forse altre tre volte: nella gelida serata del 2008 in cui aveva vinto le primarie nel New Hampshire; a ottobre, durante un volo notturno per Pittsburgh, quando Tim Kaine – un paio di bottoni slacciati e l’incarnazione delle fantasie di ogni casalinga cattolica – le era sgattaiolato vicino; e il sabato precedente, quando aveva alzato entrambe le braccia al cielo concedendosi il lusso di farsi inzuppare da un acquazzone tropicale a Pembroke Pines, Florida, gettando al vento la prudenza e la messa in piega di John Barrett.

    Quei sorrisi, però, svanivano sempre. Quest’ultimo invece reggeva da ventuno ore, e dalla fine della campagna sarebbe scivolato dritto nel giorno delle elezioni, ancora smagliante quando la Clinton sarebbe arrivata a smontare dal suo furgoncino nero – il famoso Scooby Van – davanti alla Douglas Grafflin Elementary School di Chappy e avrebbe seguito la freccia VOTATE QUI, in inglese e spagnolo.

    Il fatto che sul nostro pullman, quel mattino, nessuno parlasse fa capire quanto fossimo sfiniti. Gli Itineranti non tacciono neanche a morire. Appena il giorno prima, sulla pista d’atterraggio di White Plains si era scatenata un’animata discussione sulla possibilità che al ballo inaugurale la FWP si mettesse in lungo, ipotesi avversata da chi diceva che avrebbe optato per una di quelle sue eleganti mise caftano di raso e pantaloni a palazzo.

    «Ovvio che indosserà un abito!» era sbottato qualcuno.

    «Non saprei. I pantaloni sarebbero rivoluzionari.»

    «Un abito, come no? Dopo il 2009 l’hai più vista mostrare le spalle?»

    Ci eravamo scattati qualche selfie e avevamo parlato dei nostri programmi postelettorali: vacanze in Italia, a Turks e Caicos, una spa in Arizona – che accettava punti Marriott – una dieta detox a base di succhi. Dopodiché, ci saremmo ritrovati tutti quanti alla Casa Bianca per raccontare al mondo la prima donna presidente.

    Il manipolo di protettivi addetti stampa di Hillary – un cast di una mezza dozzina di tizi, rigorosamente maschi, impegnati a rotazione, cui mi riferivo collettivamente come ai Ragazzi e le cui mansioni comprendevano proteggere la Clinton sui media e proteggerla da noi Itineranti, facendo fronte alle nostre infinite domande, indagini e tentativi di ficcare il naso – aveva paragonato l’umore del gruppo a quello che si respira durante l’ultima tappa del Tour de France, quando il vento ti sferza la faccia e sai di avere ormai fatto tutto quello che potevi.

    Stavamo aspettando smaniosi la foto di gruppo con la candidata, una di quelle tradizioni tipiche delle campagne, da cricca, che nessuno vuole perdersi. I messaggi circolati nel nostro gruppo nella tarda serata precedente erano stati di questo tenore:

    «Abbiamo già l’orario?»

    «Non ancora, ma ho sentito 9, 9.30.»

    «Grazie. Non vorrei perdermi la foto!»

    «Storia!»

    «Già. Speriamo che sia gentile con noi.»

    Per diciannove mesi, Hillary aveva fatto del suo meglio per fingere che non ci fosse un piccolo esercito di giornalisti – carta stampata, televisione, agenzie di stampa – a seguire ogni sua mossa, ma in quell’occasione era parsa contenta di vederci.

    «Guarda che aereo gigante, e che stampa gigante!» aveva detto con voce da bambina scendendo dal suo furgoncino nero in quella vigilia elettorale. Stava comunicando via FaceTime con la nipotina, Charlotte, e aveva girato l’iPhone verso noi Itineranti, che ci stavamo disponendo in ordine d’altezza davanti allo Stronger Together.

    «Urca! Guarda qui, ci sono tutti!» aveva aggiunto, come se fossimo mai stati da qualche altra parte.

    Aveva allargato le braccia quasi fosse addirittura sul punto di stringerci tutti quanti. Non l’aveva fatto. Barb Kinney, la fotografa della campagna, era in piedi su una scala a libretto. Io sedevo a gambe incrociate in fondo a sinistra, nella stessa posizione in cui mi trovavo l’ultimo giorno delle elezioni del 2008, quando Barack Obama era saltato in mezzo al suo gruppo di giornalisti esclamando, con il sorriso che lo caratterizza: «Dite tequila!».

    Barbara ci aveva fatto scorrere chi un po’ a sinistra chi un po’ a destra, e ci aveva ordinato di togliere gli occhiali da sole. L’otturatore era a malapena scattato quando l’orda aveva preso a tempestare di domande la candidata, riducendola a un’esile linea rossa nel mezzo di una mischia vorace. Osservando la scena, il più garbato dei Ragazzi, un moretto perbenino con tanto di sorriso da rappresentante degli studenti che aveva seguito Hillary ovunque e indossato mocassini stringati marroni persino durante una tormenta nel New Hampshire, aveva scosso il capo. «Ecco perché non vi meritate le cose belle.»

    «Lei ha spesso precorso i tempi» aveva esordito un’inviata della BBC cacciando sotto il naso di Hillary il microfono sottile e la domanda di tutto riposo. «A volte è stata fraintesa. Ha dovuto combattere un mucchio di pregiudizi. Pensa che l’America di oggi la capisca e sia pronta ad accettarla?»

    Ormai a poche ore dall’apertura dei seggi, la Clinton non aveva certo intenzione di incasinare tutto parlando di discriminazione sessuale e del particolare e complicato posto che le era toccato nella storia. «Diciamo che dovrò darmi un po’ da fare per riunire la nazione. Come ho spiegato in tutti quei discorsi degli ultimi giorni, voglio davvero essere la presidente di tutti.»

    Appena prima del decollo, un redattore di New York aveva chiamato per chiedere quello che tutti i redattori del Times bloccati in redazione chiedevano sempre: «Com’è l’umore da quelle parti?».

    «Hillary è orgasmicamente felice» avevo replicato.

    Mi ero pentita subito di essere ricorsa a un termine sessuale per descrivere quella che, in capo a qualche ora, sarebbe diventata la FWP, ma non avrei potuto definirla in nessun altro modo. Nel corso di due campagne presidenziali, l’avevo osservata portare in volto il disgusto per l’intero procedimento. Disgusto per noi, per la campagna, per la sconfitta. L’estate precedente avevo postato sui social una sua fotografia a una festosa riunione di sostenitori di Ottumwa, Iowa. Nel giro di pochi secondi erano arrivati i commenti. Ha la faccia di una che preferirebbe essere dal dentista.

    In quell’istante, invece, la sua espressione diceva che ne era assolutamente valsa la pena. Non stava solo per diventare presidente. Hillary – che fino a quando non era comparso Trump era stata la figura che più aveva creato divisioni nella politica americana degli ultimi due decenni – stava per diventare la Grande Unificatrice, pronta a relegare The Donald e il suo bullismo negli annali dei reality. I suoi assistenti a Brooklyn, i risultati filtrati da chi aveva espresso il voto anticipato e tutti i dati garantivano che lui non poteva vincere.

    «Nella periferia di Philly ci aspettiamo di andare meglio di qualunque altro democratico negli ultimi decenni» ci aveva comunicato un euforico Robby Mook, il responsabile della campagna. «Se si aggiudica Pennsylvania e Florida, non la ferma più nessuno.» In altre parole, la campagna-gara era finita.

    A Philadelphia quella sera, alla mega festa/comizio con Bruce Springsteen per la chiusura della campagna, Hillary aveva raggiunto Obama sul palco. Piegandosi un po’, il quasi ex presidente aveva spinto verso di lei lo scaleo dietro il podio. «Quando sarai presidente, questo sarà sempre lì per te» le aveva sussurrato all’orecchio prima di posarle un bacio sulla guancia e lasciarle la scena.

    Più tardi, quella stessa sera, ci eravamo imbarcati sull’aereo della campagna per volare a Raleigh-Durham, dove era in corso un comizio Fuori il voto con Lady Gaga. Dando vita a una piramide umana, noi Itineranti eravamo corsi ad ammassarci in un angolino sul davanti del nostro settore, da dove tutti quelli che non avevano problemi a piegare le ginocchia e a farsi infilzare da gomiti e obiettivi delle fotocamere e pelose giraffe ciondolanti si erano potuti godere la scena di Bill e Hillary che si coccolavano.

    Oh, lo so, ora i cinici alzeranno gli occhi al cielo, ma credetemi, io c’ero. Bill aveva posato una delle sue grandi mani sulla spalla della moglie, la teneva stretta a sé. La teneva stretta, nell’incavo del braccio e contro il petto, e non in quel modo fasullo e forzato in cui i partner politici si abbracciano per le telecamere. Quella sera, Bill guardava Hillary come la compagna del ballo studentesco cui aveva fatto il filo per l’intero semestre. Come la comandante in capo.

    Lei restituiva l’abbraccio non con fare adorante, ma più con l’espressione di una madre che cerca di tenere a bada un figlio difficile. Bill ci aveva scorti lì tutti pigiati, come molle sul punto di scattare. Vedendomi accartocciata in prima fila sotto a tutti, mi aveva lanciato una voce. «Oh, ciao, Amy!» Al contrario di Hillary, che aveva un dono per guardarmi attraverso come fossi trasparente, lui salutava sempre.

    Interrogato sulla portata di quella serata, aveva risposto: «Chiudere proprio a Philadelphia era importante, perché è qui che è nata la nazione».

    E, a quel punto, aveva fatto ciò che Bill Clinton fa sempre. Aveva fatto della più grande serata nella vita di Hillary un evento che riguardava lui. «È stato interessante. Sapete, sono nella commissione del National Constitution Center…»

    Era stato allora che la candidata si era protesa con tutta se stessa verso la cabina di pilotaggio – vale a dire nella direzione opposta a quella in cui ci trovavamo noi – trascinandosi appresso il marito, il cui braccio era ancora incollato alla sua spalla. Per la serie #stoconlei…

    Dalla mia destra, il reporter di un’agenzia mi aveva fissato stranito. «Sbaglio o ha appena detto di essere nella commissione del National Constitution Center?»

    «Eh, già.»

    «Tipico.»

    La mattina successiva, solo una manciata di Itineranti – il pool ristretto, per dirla con il gergo del Cammino; cioè quelli delle agenzie, un reporter della stampa locale, uno di quella nazionale e la troupe televisiva di turno che avrebbe condiviso le riprese con gli altri – sarebbe stata autorizzata a entrare nell’aula magna della scuola primaria per assistere al voto della candidata. Avevo trascorso l’ultima settimana a implorare i Ragazzi di includermi nel gruppetto.

    Nel 2008, per un puro colpo di fortuna ero finita in quello di Chicago. Ho ancora gli appunti: 7.36 del mattino, Beulah Shoesmith Elementary School, Chicago. Obama vota, Sasha e Malia con lui. Quella sera avevo aspettato fuori dall’Hilton mentre Obama seguiva i risultati con la famiglia e i collaboratori più stretti. Ricordo la lamiera ondulata della saracinesca della piattaforma di carico dell’hotel chiudersi su un SUV blindato per poi, come per magia, riaprirsi poco più tardi con all’interno il primo presidente eletto di colore della nazione. Da lì avevamo preso parte al corteo di automobili che aveva raggiunto Grant Park, dove erano in attesa 240.000 persone.

    «Dovete includermi. Il Times è il giornale locale di New York. Il quotidiano del posto ha sempre un rappresentante nel pool ristretto» avevo implorato più e più volte uno dei Ragazzi – d’ora in poi, Guardaspalle prezzolato. Era una new entry tra gli addetti stampa di Hillary, un furbacchione che tra noi chiamavamo il Ben Affleck dei poveri perché sarebbe potuto passare per un attore, se non fosse che trascorreva la maggior parte del tempo come un bambolotto a molla ipercarico perennemente impegnato a pontificare in legalese sulla tv via cavo circa le email di Hillary. Guardaspalle prezzolato, che si era formato nel mondo politico di New York, aveva continuato a rispondermi nello stesso modo: una volta aveva cercato di far seguire al Times non so quale minuscola conferenza stampa, ma la mia redazione si era rifiutata perché: «Siamo una realtà editoriale mondiale, non un qualunque giornaletto locale».

    Malgrado tutto, però, la mia richiesta era giunta ai piani alti della campagna, e – presumibilmente ritenendo che a quel punto non avrei potuto fare gran danno – era stata accolta.

    Urca, che occasione! Ora che è riuscita a intrufolarsi sotto le mentite spoglie della stampa locale, chissà quale pezzo grandioso avrà in mente, quale incredibile scoop metterà a segno. Ecco…

    Mentre il pulmino della stampa ci portava dal Ritz alla scuola primaria di Chappaqua dove Hillary avrebbe votato, restai a fissare fuori del finestrino con occhi vacui, entrando in uno stato quasi meditativo.

    A un certo punto sulla mia destra sbucò una BMW. Era uscita da un cancello nero in ferro battuto che, spalancandosi, aveva rivelato un lungo viale d’accesso che portava a una villa signorile in pietra calcarea. Alla mia sinistra, il sole che sorgeva sull’Hudson tingeva il cielo di tenui pesca pastello e vivaci arancioni sorbetto dietro le foglie autunnali.

    Nel riflesso del finestrino colsi i cerchi scuri che mi ombreggiavano il volto e di colpo tornai a un pigiama party delle medie. Eravamo a casa della mia amica Heather e stavamo giocando a Jenga in una sala svago moquettata al primo piano, quando una ragazzina tutta ammodino di una scuola privata, che avevo appena conosciuto, mi domandò se mio padre fosse un pilota.

    «Conosco un’altra ragazza che ha quei cerchi sotto gli occhi, e suo padre è un pilota» commentò come se la deprivazione di sonno di un genitore potesse trasmettersi geneticamente.

    Essendo cresciuta nel Texas del sud, non posso dire di avere mai invidiato chi viveva in posti come Chappaqua e Rye e Scarsdale, ma in realtà solo perché neppure sapevo dell’esistenza di quell’ideale platonico di sobborghi residenziali finché la mia vita non aveva incrociato quella di Hillary. Non avevo mai riflettuto molto sulla contea di Westchester fino a quel mattino, allorché mi resi conto che le mie prime illazioni in merito a come avrebbe dovuto essere l’età adulta si erano forgiate intorno ai problemi che immaginavo avesse chi viveva da quelle parti. Mercato azionario, spleen, esami di ammissione alle scuole private. Problemi estrapolati di peso dalle pagine della mia copia sgualcita di Revolutionary Road, e non certo basati sulle spaventose follie da bifolchi reazionari che caratterizzavano il mio quartiere anni Settanta di San Antonio. In quell’istante, guardando la BMW, pensai che – con tutte le persone con cui avevo parlato nelle chiese nere e nelle sedi sindacali e nelle palestre dei licei e nelle fabbriche e che avevano esposto i loro problemi alla candidata – a scegliere chi sarebbe diventato il nostro presidente sarebbero stati i fortunati che vivevano lì, al sicuro dietro i loro bei cancelli e le loro belle siepi curate nella Westchester County.

    Una volta alla scuola, noi Itineranti ci arrampicammo sulla solita pedana rialzata che veniva riservata alla stampa, sorreggendoci a vicenda. Sulla parete in calcestruzzo, un cartellone fai-da-te glitterato ringraziava bidelli e custodi. BRILLIAMO GRAZIE A ADELINO, ALFREDO, HENRY, MANUEL E MARIO.

    I presenti erano tutti fedeli seguaci di Hillary. Quelli che non erano riusciti a strizzarsi all’interno premevano corpi e giacche di pile contro le transenne metalliche. Tra i cartelloni, NOI CREDIAMO IN TE e HILLARY PER CHAPPAQUA. Nessun RINCHIUDETELA, a Chappaqua.

    Gli elettori si attardavano nell’aula magna, sovraffollandola e costringendo la sicurezza a formare una catena umana intorno alla candidata quando fece il suo ingresso, neanche fosse una campionessa di pesi massimi che saliva sul ring. Fu allora che i presenti si scatenarono, ricordandomi quei fan che ai concerti si piazzano sotto il palco a pogare a tutto spiano. Una vera e propria esplosione di ottimismo. I padri issarono le figliolette sulle spalle, inclusa una in piumino rosa decisamente troppo grande per stare a cavalluccio.

    Hillary, fresca come una rosa anche se non poteva aver dormito più di noi e senza più indossare i fondi di bottiglia con cui aveva salutato i sostenitori che l’avevano accolta sulla pista dell’aeroporto di White Plains alle quattro del mattino, si piegò in avanti per dare il suo voto. Allungato il braccio, ci diede di polso.

    «È un’esperienza che induce umiltà» ci disse appena fuori dal seggio, alle sue spalle un albero talmente rosso da sembrare in fiamme. «Tantissime persone contano sul risultato di queste elezioni, significano moltissimo per il nostro paese.»

    Le domandai se avesse pensato alla madre, Dorothy Rodham, venuta al mondo in uno stato di indigenza – e in seguito abbandonata dai genitori – nell’anno in cui il Congresso aveva concesso alle donne il diritto di voto.

    «Oh, l’ho fatto eccome» replicò lei strizzando gli occhi al sole luminoso di quella giornata.

    2

    JILL VUOLE VEDERTI

    A infondere fondatezza e vitalità al giornalismo

    è il conflitto tra il cieco narcisismo del soggetto

    e lo scetticismo del cronista. I giornalisti che si bevono

    la versione del soggetto e la pubblicano così com’è

    non sono giornalisti, ma addetti stampa.

    Janet Malcolm, The Journalist and the Murderer

    New York City, autunno 2013

    Mi stesi sul lettino delle visite. Avevo i talloni puntellati nelle staffe di metallo gelido quando la dottoressa Rosenbaum mi chiese, di nuovo, dei figli. Avrebbe dovuto essere l’inizio di uno scambio a cuore aperto sulla maternità e su come iniziare a tenere monitorato il mio ciclo mestruale, ma tutto ciò a cui riuscivo a pensare erano Hillary e il suo ciclo elettorale. Feci i conti a mente. Eravamo nel 2013. Avevo trentaquattro anni. Ne mancavano tre al giorno delle elezioni.

    Sbirciai oltre la tenda formata dal camice medico arrotolato intorno alle mie ginocchia piegate. La carta frusciò sotto di me mentre mi contorcevo per tirarmi su. «Allora, quanto mi costerebbe congelare gli ovuli fino a dopo le elezioni?»

    Luglio 2013

    Quattro mesi prima, rientrando nel mio cubicolo al Times avevo trovato un post-it appiccicato sulla scrivania. «È passata Jill. Vuole vederti.»

    Mi era venuto un colpo. L’aria era afosa e il centro aveva iniziato a svuotarsi già a mezzogiorno in previsione del fine settimana del 4 luglio. Ero stata al Bryant Park a mangiarmi un’insalata talmente sminuzzata che avrebbero fatto prima a ridurla in purè.

    Indossavo un paio di Levi’s sdruciti che avevano almeno dieci anni, con le cuciture andate e buchi talmente grossi che le rotule mi si sparavano fuori. Al Times, quando raggiungi una certa levatura, come Unabomber ti ci puoi vestire, ma io ero una cronista che si occupava dei media e che era al giornale da meno di due anni. Non potevo andare dal gran capo con quei jeans. Attraversai di corsa Times Square, zigzagando tra orde di turisti e tizi travestiti da Elmo per scucire qualche dollaro ai passanti facendosi scattare una foto con loro, e mi fiondai da Gap a prendere un paio di pantaloni bianchi. Erano troppo alti in vita e un bel cinque centimetri troppo corti sulle caviglie, ma erano lì, e avrei potuto lasciarci le etichette e restituirli a fine giornata.

    Feci capolino nell’ufficio d’angolo. Jill Abramson, direttrice del New York Times, sedeva su un amorino davanti a una parete a vetro affacciata sulla Quarantunesima. La frangetta le copriva la fronte e la luce del pomeriggio le accendeva un alone intorno alla figuretta minuta.

    Per me, Jill era stata una sorta di minacciosissimo angelo tutelare del giornalismo. Diciotto mesi prima, mi aveva pescata dal relativo anonimato in cui operavo al Wall Street Journal per farmi entrare al Times a occuparmi di media companies. In quel momento mi disse invece che ricordava gli articoli su Hillary che avevo scritto per il Journal – avevo seguito la sua sfortunata campagna per le primarie del 2008 prima di passare a quella di Barack Obama.

    Il 2008. Sembrava un’altra vita. All’epoca avevo ventotto anni, ero nubile e mi stavo ancora provando addosso svariate personalità per capire quale mi stesse meglio. Avevo già tentato Poetessa, che usciva con gli uomini conosciuti alla serata microfono aperto. Ero quindi passata a Giornalista della Carta Patinata, saltellando tra un lavoretto da assistente e l’altro nella speranza che organizzare lo stanzino degli abiti a Mademoiselle conducesse in qualche modo a un posto da editorialista al New Yorker. Era stata poi la volta di Corrispondente Estera, a Tokyo. L’incarico includeva un cellulare rosa shocking e serate in una capsula profumata al gelsomino in una spa di Shibuya. Nel 2007 avevo vissuto lo shock culturale di passare direttamente dal Giappone all’Iowa per seguire la campagna presidenziale per il Wall Street Journal. Quattro anni dopo, Jill mi aveva portata al New York Times.

    Adoravo quel giornale più di quanto avrei mai creduto possibile adorare un datore di lavoro. Idolatravo quel posto oltre ogni misura. Ogni volta che mettevo piede nella sede, di solito fermandomi prima a scambiare due chiacchiere con David Carr, cronista esperto di media quasi perennemente fuori a fumare, venivo travolta dalla gratitudine e insieme da un attacco di sindrome dell’impostore.

    David era sopravvissuto al linfoma di Hodgkin e la sua figura macilenta, la voce rauca e il collo scheletrico gli conferivano un aspetto spaventoso agli occhi dei suoi soggetti. Per me, invece, era un’adorabile testuggine affondata in un impermeabile nero, comoda alla scrivania con i piedi in alto e la collottola che sbucava da sopra la parete che incorniciava il suo cubicolo, oppure intenta a trangugiare una ciotola di ramen al suo ristorantino giapponese preferito, sulla Nona. Magari sfrecciava via dalla redazione per andare a pranzo con Ethan Hawke sul tetto a terrazza della Soho House, ma non aveva mai perso quel misto di gentilezza rustica e irritabilità del Minnesota che mi ricordava le persone con cui ero cresciuta in Texas, brava gente e veri zuccherini finché non ci rompi l’anima. Prima di approdare al Times aveva combattuto con alcune dipendenze, e lavorato per lo più per settimanali alternativi. Gli piaceva che venissi dal Texas e che al college avessi lavorato a un chiosco di granite e rivoltato tortillas in un ristorante tex-mex.

    Una sera ci eravamo chiusi in una sala riunioni a far fuori l’ultimo buco di ciambella avanzato dal mattino e ormai stantio – li aveva portati lui – mentre cercavamo di verificare una soffiata su uno spregiudicato consorzio di democratici e uomini d’affari del New Jersey che volevano comprarsi il Philadelphia Inquirer. Al vivavoce, avevamo martellato di domande il direttore e CEO fino a quando non ero riuscita a farlo crollare, spingendolo ad ammettere l’ingerenza nella copertura. David e io avevamo battuto un cinque silenzioso, e da allora il collega mi aveva soprannominata Orso polare: «Sembri tenera e affettuosa, ma di fatto sei una cazzo di killer».

    Nei primi anni al Times, avevo trascorso diverse settimane a Londra per occuparmi dello scandalo delle intercettazioni telefoniche da parte di uno dei tabloid britannici di Rupert Murdoch. Ero anche andata a visitare la Paramount, a Los Angeles, in compagnia di Sumner Redstone e una donna con tacchi a spillo 15 in lucite e grosse tette siliconate, che i suoi PR mi riferirono essere «l’infermiera personale» del depravato miliardario. Ma la politica mi mancava e, più nello specifico, mi mancava Hillary.

    Come attività collaterale, avevo continuato a fare alcuni servizi su di lei anche negli anni in cui era stata al Dipartimento di Stato. Nel 2011 avevo ottenuto la primissima intervista ufficiale con Chelsea. Ora non sembra una gran cosa, ma all’epoca era stato un successone. Basti ricordare che aveva da poco detto a una reporter di nove anni che voleva scrivere un articolo per il giornalino della scuola che lei non parlava con i giornalisti, «anche se ti trovo carina». L’anno successivo mi ero imbarcata su un volo charter delle aviolinee Sun Country insieme a Bill, Chelsea e una vagonata di finanziatori per una trasferta della Clinton Foundation in diversi paesi africani. Accadde una sera, sul tardi. Nel bar di un hotel di Johannesburg, Bill mi disse che sua figlia era «una persona molto particolare».

    E lo era. Un paio di sere più tardi, davanti a uno chardonnay sudafricano al Serena Hotel di Kampala, proposi a Chelsea di farci un giro per il mercato l’indomani mattina. «Dicono che sia il più grande di tutta l’Africa orientale» spiegai. «In realtà, in termini di superficie Nairobi gli contende la palma» replicò lei.

    Jill aveva tatuati un gettone della metropolitana di New York e la T in Old English del Times. Era una tosta cazzutissima che si era fatta le ossa occupandosi di politica e conosceva Hillary fin da quando faceva l’avvocato alla Rose Law Firm in Arkansas. Aveva fatto parte dell’ondata di newyorkesi laureatisi alla Harvard che erano scesi al sud a seguito del movimento per i diritti civili. Aveva più storia con i Clinton della maggior parte dei giornalisti, e la vista più lunga di chiunque altro su quello che sarebbe stato il passo successivo di Hillary.

    «È chiaro che correrà ancora» mi disse con il suo solito fare pacato. «Mi serve che te ne occupi a tempo pieno.»

    Accettai prima ancora che avesse finito di parlare. Hillary e Jill, due donne in prima linea, e io al centro.

    «Mi piacerebbe molto. È dal 2008 che lo sogno. È un grande onore che tu abbia pensato a me. Grazie, grazie davvero.» E poi: «Quando vuoi che cominci?». Mi aspettavo che suggerisse l’autunno, o magari l’inizio dell’anno successivo, oppure ancora al termine delle elezioni di metà mandato.

    Mi guardò come se avessi due anni. «Immediatamente.»

    Mancavano 649 giorni a quando Hillary avrebbe annunciato che tornava a correre per la presidenza; 1226 a quando avrebbe perso contro Donald Trump.

    Ci avrei messo anni a comprendere la portata della decisione di Jill e la mia ingenuità riguardo a ciò in cui mi stavo imbarcando. Dapprincipio mi lanciai nel mio nuovo incarico con sfrenato entusiasmo. Avrei seguito la prima donna presidente, e per l’autorevole New York Times! Presi in considerazione diversi Ragazzi, soprattutto quelli che erano con i Clinton da anni, gli amici. Ero al corrente delle loro storielle. Sapevo quali reporter gradivano e quali detestavano. Avevo incontrato i loro cani, meticci salvati al canile. Avevamo scherzato insieme su quelli del Times, avevo offerto i miei intrighi di palazzo in cambio dei loro. Loro si lamentavano di Chelsea dicendo che era diventata una vera spina nel fianco – per dirla come uno di loro, «allevata dai lupi» – e io mi lagnavo dei colleghi. Ne avevo persino invitati due al mio matrimonio.

    Il primo a cui telefonai per dirgli della mia promozione alla squadra politica lo conoscevo fin dal 2007, ovvero dal nostro incontro sulla pista d’atterraggio ghiacciata di Elkader, Iowa. A unirci erano stati il comune amore per Jason Isbell e l’autoproclamato status di outsider di entrambi. Nessuno dei due viveva a Washington né aveva alcuna voglia di farlo. Di tutti i Ragazzi, Outsider era quello che più pensavo trascendesse il rapporto fonte-giornalista, e invece negli anni a seguire sarebbe diventato il più crudele, quello il cui nome più avrei temuto di vedere nella posta in arrivo. Alla fine sarei addirittura arrivata a creare una cartella speciale per le sue email, TESTA DI CAZZO. Sono sicura di averlo deluso anche io, e che le mie email finivano a loro volta in una cartella tipo STRONZA MALEFICA CHE FINGEVA DI ESSERMI AMICA.

    «È o non è una figata? Lavoreremo sempre insieme!» esclamai.

    All’altro capo della linea scese il silenzio. Outsider si era fatto di ghiaccio come la nostra pista d’atterraggio, e di colpo compresi che non saremmo mai tornati amici. Ebbi l’impressione di sentire il suo pitbull ringhiare in sottofondo. La reazione degli altri Ragazzi proseguì lungo la stessa linea, spaziando dallo sbalordito – Oh. Okay. Lo sai che è una privata cittadina, vero? – all’aggressivo – Da questo momento hai un bersaglio sulla schiena – al personale – Proprio non ci arrivi, vero? Jill odia Hillary.

    Margaret Sullivan, public editor del Times – un ruolo che la eleva a difensore e garante dei lettori – scrisse che il modo in cui il giornale si occupava della Clinton «trattandola come un non dichiarato e favorito battitore libero, la aiuta». Hillary non la vedeva così. I Ragazzi si premurarono di farmi capire che la loro ostilità arrivava direttamente dal gran capo. Era furibonda. Aveva sperato di vivere gli anni tra il suo incarico al Dipartimento di Stato e la successiva campagna presidenziale lontana dai riflettori dei media.

    Di fatto, la decisione del Times di mettermi sul pezzo con tanto anticipo cambiò radicalmente il modo in cui i mezzi d’informazione seguirono i primi passi della sua campagna. In breve, il super PAC Ready for Hillary prese abbastanza slancio da finanziare la – potenziale – campagna 2016. Il gruppo divenne, come disse una fonte, una sorta di ufficio di collocamento per i suoi vecchi sostenitori, quelli che non vedevano l’ora di tornare in pista. Altre testate ed emittenti iniziarono a scegliere i cronisti che l’avrebbero seguita, per lo più donne: Brianna Keilar, CNN; Maggie Haberman, Politico; Ruby Cramer, BuzzFeed; Liz Kreutz, ABC; Monica Alba, NBC, e così via. Il drappello della stampa accreditata di Hillary aveva cominciato a prendere forma tre anni prima delle elezioni.

    All’epoca Hillary godeva di un consenso molto alto – 70 per cento – e aveva sperato di trascorrere le giornate a gettare con calma le basi per il 2016, e le serate a crogiolarsi nell’adorazione che le veniva riservata ai galà di beneficenza di Manhattan dove incontrava i finanziatori. Il giorno dopo aver concluso il suo mandato al Dipartimento di Stato, chiamò un’amica prima delle sette del mattino. «Okay, sono riposata!»

    In quel periodo era stata festeggiata per aver salvato le balene, per essersi data da fare per combattere la malaria, per l’impegno a sconfiggere l’analfabetismo in età adulta, per aver appoggiato gli ebrei, per essere una metodista, per aver preso seri provvedimenti contro i bracconieri di elefanti, per essersi fermamente espressa contro la mutilazione genitale femminile, per essersi spesa per la ricostruzione di Lower Manhattan dopo l’11 settembre e per aver reso popolari i tailleur pantalone.

    Ma non era solo che non voleva addosso gli occhi dei media. Era proprio una questione specifica con il Times. Qualcosa che andava molto al di là della mia persona. Sia Bill sia Hillary erano convinti che il giornale gliel’avesse giurata. Potrà suonare irrazionale, me ne rendo conto. Il liberale New York Times che giura vendetta a Hillary? Eppure avevano le loro ragioni.

    Hillary non mi vedeva per quello che ero, vale a dire un’ammiratrice in abito a nolo che inseguiva questa figura luminosa per tutta Manhattan nella speranza di dare prova di sé nella più grande occasione di tutta la sua carriera. Per lei ero solo l’ultima pedina nel decennale conflitto tra lei e il New York Times.

    Non sapevo quasi nulla di quella guerra, a parte il fatto che era iniziata più o meno all’epoca del mio bat mitzvah. Nel 1992, il reporter investigativo del Times Jeff Gerth portò alla luce la vicenda di un investimento immobiliare andato a monte nella contea di Ozark, sulla costa del White River. I Clinton vi persero del denaro, e la successiva indagine Whitewater risalì fino a loro, con il rischio di condurre all’impeachment per Bill. Ebbene, girò voce che Howell Raines – l’allora responsabile della sede di Washington del Times, nato in Alabama – volesse affossare Bill Clinton a seguito di una qualche rivalità tra uomini bianchi che affondava le radici nel profondo Sud.

    La prima volta che ho letto di questa faida è stato nei diari tenuti dalla più grande amica e confidente di Hillary, Diane Blair. Negli anni trascorsi alla Casa Bianca, Hillary si era spesso rivolta a Diane. Le due erano inseparabili fin dal 1974, quando si erano conosciute – anime gemelle, entrambe outsider – a Fayetteville, Arkansas. Diane teneva appunti dettagliati delle loro conversazioni – parlato di libri; parlato di come dovrebbe affrontare tutto questo schifo; raccontato del nostro cielo ceruleo – in caso Hillary, allora first lady, decidesse di scrivere un memoir. Quando però Diane era morta di tumore nel 2000, a soli sessantuno anni, il marito – Jim Blair – aveva donato tutti gli incartamenti della moglie alla University of Arkansas, dove Diane aveva insegnato scienze politiche, senza minimamente immaginare che negli scatoloni ci fossero anche le più intime confessioni della first lady. Ho saputo di questo tesoro all’inizio del 2014 ed è da allora che rifletto sui suoi contenuti.

    «Lei e Bill hanno trionfato malgrado la stampa, che ha amplificato la loro rivalità» scriveva Diane nel 1999. «D’altra parte, cosa possono farci? Howell Raines, al NYT, li odia visceralmente. Vuole distruggerli.»

    Da allora, la relazione dei Clinton con il Times era andata deteriorandosi.

    Nel 2007, Hillary aveva incolpato il giornale di sostenere Obama. Un articolo in prima pagina sulle sue partitelle a pallacanestro l’aveva fatta particolarmente arrabbiare. «Lei non ha hobby da tirar fuori al volo per voi» avevano protestato i Ragazzi 2008.

    Nel 2008 invidiavo Patrick Healy, il cronista del Times che seguiva la campagna di Hillary per le primarie. Dal mio trespolo del Journal, pensavo che lo staff della Clinton gli riservasse un trattamento di favore, concedendogli sempre il posto lato corridoio sull’aereo, chiamandolo sempre per secondo alle conferenze stampa – la prima era la Associated Press. Sognavo quel posto di corridoio, sognavo la seconda domanda. In realtà era tutta scena. I Ragazzi del 2008, la maggior parte dei quali non era arrivata al 2016, avevano cercato di rovinargli la vita proprio come quel miscuglio di vecchi e nuovi Ragazzi si preparava a fare con me.

    Okay, a essere sincera le torture viaggiavano in entrambi i sensi.

    I Ragazzi direbbero che ero il peggior tipo di reporter possibile. Subdola, una traditrice a cui avevano concesso il beneficio del dubbio e che in cambio li aveva fregati a ripetizione. Direbbero che ero attratta dai dettagli salaci e che facevo sempre la vittima – sostenevano che recitavo la parte del povero cucciolo indifeso – mentre per tutto il tempo ero io ad avere la penna per il manico. Sapevo che mi volevano più trasparente e aperta riguardo a ciò a cui stavo lavorando, ma quando ci avevo provato non era andata granché bene.

    Avevo raccontato loro di un articolo in cui volevo spiegare come Bill Clinton avesse assunto un ruolo più importante nella lotta al cambiamento climatico, in pratica facendo suo

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