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La dittatura dei dati
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E-book451 pagine6 ore

La dittatura dei dati

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Info su questo ebook

"Sanno cosa compri. Sanno chi sono i tuoi amici. Sanno come manipolarti.
Settanta like erano sufficienti per sapere di quella persona più di ciò che sapevano i suoi amici; centocinquanta like più di quello che sapevano i suoi genitori; trecento like più del suo partner. Oltre i trecento si era in grado di conoscere un individuo meglio di quanto conoscesse se stesso."

Quando Brittany Kaiser, giovanissima consulente politica appena laureata in diritti umani e relazioni internazionali, si è seduta per la prima volta a un tavolo con Alexander Nix, il carismatico capo della neonata società di analisi dei dati Cambridge Analytica, era convinta che le informazioni raccolte attraverso gli smartphone, i social media e le abitudini di navigazione online che permettono l’identificazione e la targettizzazione delle persone sarebbero state usate a fin n di bene. Ma ha dovuto ricredersi. Quella che era iniziata come un'improbabile, seppure stimolante, esperienza di lavoro – una democratica liberale come lei che accettava di lavorare per una società che aveva Steve Bannon nel consiglio d'amministrazione e politici repubblicani tra i suoi clienti – ha iniziato ad assumere i contorni di un incubo quando i suoi sforzi per costruire un'azienda rivoluzionaria, che applicava la scienza dei dati e l’analisi psicografica al settore della consulenza politica, sono culminati prima nell’elezione di Donald Trump a presidente e poi nella vittoria dei sostenitori della Brexit.
Solo allora Kaiser ha capito fino a che punto la mancanza di regole nell’industria dei big data fosse diventata un pericolo per la privacy delle persone e per la democrazia in tutto il mondo. E quanto sottile e occulta fosse in realtà la minaccia se persino lei, che in quel mondo ci stava da sempre, era stata targettizzata e manipolata dalle persone per cui lavorava. Ma forse cambiare era ancora possibile...
La dittatura dei dati è un resoconto dettagliato, lucido e onesto in cui Kaiser, ripercorrendo le tappe fondamentali degli anni in cui ha lavorato per Cambridge Analytica, rivela le spregiudicate pratiche digitali attraverso cui l’industria dei big data influenza e manipola le persone, facendo leva sulle loro paure e insicurezze per modificare il loro comportamento abituale. Ma è anche un'acuta analisi di come l’utilizzo dei dati comportamentali abbia cambiato per sempre la politica, una riflessione sulla scarsa consapevolezza con cui permettiamo che i nostri dati personali vengano usati contro di noi, e soprattutto un accorato appello a rafforzare il nostro spirito critico, a riprendere il controllo delle informazioni che scegliamo di condividere e a proteggere, così facendo, il nostro futuro.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2019
ISBN9788830507500
La dittatura dei dati
Autore

Brittany Kaiser

BRITTANY KAISER, nata a Chicago, ha conseguito diversi master presso le più prestigiose università britanniche. Ha lavorato a Cambridge Analytica per tre anni e mezzo prima di denunciare il suo ex datore di lavoro e i comportamenti immorali dell’industria globale dei dati. È cofondatrice di Digital Asset Trade Association (DATA), organizzazione che si batte in favore di riforme legislative atte a tutelare il diritto delle persone a controllare le proprie risorse digitali.

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    Anteprima del libro

    La dittatura dei dati - Brittany Kaiser

    liberi

    PROLOGO

    Niente come un viaggio in macchina con degli agenti federali ti spinge a mettere in discussione le scelte fatte nella vita. Mi ritrovai in quella condizione la mattina del 18 luglio 2018, mentre venivo condotta tra le strade di Washington DC, diretta al colloquio con gli agenti investigativi del procuratore speciale Robert Mueller.

    Quella mattina dovetti salire su due macchine; la prima mi portò in un caffè scelto a caso dal dipartimento di Giustizia. Una volta seduta sul sedile posteriore, l’autista mi riferì che avevano selezionato un luogo senza alcun preavviso e senza informare nessuno. Durante il viaggio, avrebbe comunicato la nostra destinazione via radio. Il secondo autista ci aspettava davanti al caffè. Come il primo, indossava un completo nero e un paio di occhiali scuri, ma con lui c’era anche un altro uomo. Dall’interno della seconda macchina – dotata di vetri oscurati come la prima – osservai gli scintillanti monumenti bianchi che lampeggiavano all’improvviso di fronte a noi come il flash di una macchina fotografica.

    Seduta tra i miei due avvocati, non potei non pensare a come fossi finita in quella situazione, al perché mi fossi ritrovata a dover spiegare a dei procuratori federali il mio ruolo in Cambridge Analytica, la società di comunicazione politica ormai nota a tutti. Com’era possibile che quell’esperienza lavorativa che avevo intrapreso con le migliori intenzioni, per me e la mia famiglia, fosse finita in un modo tanto orribile e contorto? Perché, mentre tentavo di sfruttare i dati per fare del bene, e mentre cercavo di aiutare i miei genitori in un momento economicamente difficile, mi ero ritrovata a compromettere i miei valori politici e personali? Era stata la mia ingenuità, mista all’ambizione, a condurmi sulla strada sbagliata?

    Quasi quattro anni prima ero entrata nella SCL Group, la società madre di Cambridge Analytica – più precisamente nella SCL Social, la sua sezione umanitaria – per lavorare ad alcuni progetti sotto la guida del CEO dell’azienda, Alexander Nix. Da quel momento in poi, nulla era andato come avevo previsto. Democratica da sempre, mi ero dedicata per anni alle cause progressiste e avevo iniziato a lavorare in Cambridge Analytica con l’idea che mi sarei tenuta lontana dalla clientela e dagli ambienti di stampo repubblicano dell’azienda. Tuttavia, poco tempo dopo, avevo cominciato ad allontanarmi sempre più dagli ideali in cui credevo, da un lato a causa della difficoltà di ottenere finanziamenti per i progetti umanitari, dall’altro perché mi ero lasciata ammaliare dal fascino del successo. Per la prima volta nella mia carriera, in Cambridge Analytica avevo la possibilità di fare molti soldi, e mi ero convinta che stavo contribuendo alla creazione di un’azienda rivoluzionaria nel settore della consulenza politica.

    E così, mi ero ritrovata a far parte della maggiore operazione condotta da Cambridge Analytica, che consisteva nel raccogliere più dati possibili sui cittadini statunitensi e nello sfruttarli per influenzare le intenzioni di voto degli americani. Avevo potuto rendermi conto di come le inadeguate norme sulla privacy di Facebook e la totale mancanza di controllo del governo federale sui dati personali avessero reso possibile tutto questo. Ma, soprattutto, avevo capito che Cambridge aveva utilizzato le sue risorse per far eleggere Donald Trump.

    Durante il tragitto in macchina, io e i miei avvocati rimanemmo seduti in silenzio, preparandoci a ciò che ci aspettava. Sapevamo che avrei dovuto raccontare la mia storia in ogni dettaglio; ciò che ci chiedevamo, però, era cosa avrebbero voluto sapere gli altri. La maggior parte sembrava volere delle risposte, a livello professionale e personale, su come fosse potuto accadere tutto quanto. Erano vari i motivi che mi avevano portato ad alterare i valori in cui credevo: dalla situazione economica della mia famiglia alla falsa convinzione secondo cui, per quanti sforzi avessimo fatto io o la società per cui lavoravo, Hillary non sarebbe comunque riuscita a vincere. Ma queste motivazioni rappresentavano solo una parte della storia. Forse la ragione più vera era il fatto che a un certo punto, lungo il percorso, avevo smarrito la mia bussola, e me stessa. Avevo accettato quel lavoro convinta di essere una professionista che ormai sapeva bene quanto fosse cinico e intricato il mondo della politica, e invece ebbi solo l’ennesima conferma della mia ingenuità.

    E ora mi toccava sistemare le cose.

    La macchina scorreva lungo le strade della capitale, e io iniziai a intuire che stavamo arrivando a destinazione. Il team del procuratore speciale mi aveva avvertito di non sorprendermi o spaventarmi se davanti all’edificio in cui si sarebbe svolto l’interrogatorio avessi trovato ad attendermi una folla di giornalisti. Il luogo non era più segreto. I reporter avevano scoperto che veniva usato per interrogare i testimoni.

    Una giornalista, mi disse l’autista, si era nascosta dietro una cassetta delle lettere. L’aveva riconosciuta, era della CNN. Rimaneva a gironzolare intorno all’edificio anche per otto ore. Sui tacchi, disse. «Cosa non sono disposti a fare!» esclamò.

    Giunti a destinazione, la macchina svoltò l’angolo, diretta in un garage sul retro, e l’autista mi disse di scostare il volto dal finestrino, anche se era oscurato. In vista del colloquio con il procuratore speciale, mi avevano detto di tenermi libera per l’intera giornata. Non sapevano quanto tempo ci sarebbe voluto. Ma io ero pronta a tutto. In fondo, mi ero infilata da sola in quella situazione.

    Un anno prima avevo deciso di uscire allo scoperto, di rivelare ciò che sapevo e diventare così un’informatrice. Avevo preso quella decisione perché, quando avevo capito ciò che aveva fatto Cambridge Analytica, mi ero resa conto di aver commesso degli errori. E quello era l’unico modo che avevo per rimediare. Ma l’avevo fatto soprattutto perché raccontare la mia storia a chiunque fosse disposto ad ascoltarmi era il solo modo possibile per permettere a noi tutti di comprendere ciò che sarebbe accaduto in futuro, e magari prepararci. Era diventata quella la mia missione: denunciare le azioni compiute da Cambridge Analytica e avvertire del pericolo rappresentato dai big data, affinché in futuro gli elettori di entrambe le parti potessero essere consapevoli dei rischi che comportava la guerra dei dati in cui si trovava coinvolta la nostra democrazia.

    L’autista continuava a girare per raggiungere il livello inferiore del garage.

    Perché così in basso?, mi chiesi. Ma conoscevo già la risposta: la privacy non è una cosa semplice da ottenere di questi tempi.

    1

    UN PRANZO IN RITARDO

    Inizio 2014

    La prima volta che vidi Alexander Nix fu attraverso un vetro spesso, che è probabilmente il modo migliore per osservare un uomo come quello.

    Ero arrivata in ritardo a un pranzo di lavoro organizzato all’ultimo minuto da un caro amico, Chester Freeman, che amava definirsi il mio angelo custode. Avrei dovuto incontrare tre colleghi di Chester – due dei quali conoscevo già – che cercavano talenti nel campo della politica e dei social media. Avendo collaborato alla campagna di Obama nel 2008, ritenevo di avere una buona esperienza in entrambi i settori; e anche se ero ancora impegnata con il dottorato, ero alla ricerca di un lavoro ben retribuito. Soltanto a Chester avevo detto del mio urgente bisogno di trovare una fonte di reddito sicuro, con cui potessi mantenermi e nel frattempo aiutare la mia famiglia a Chicago. Quel pranzo mi avrebbe dato l’opportunità di ottenere un lavoro di consulenza possibilmente redditizio e a breve termine, ed ero grata a Chester per il suo aiuto tempestivo.

    Quando arrivai, tuttavia, il pranzo era quasi giunto alla fine. Avevo degli appuntamenti quella mattina e, nonostante avessi cercato di affrettarmi, avevo fatto tardi. Trovai Chester a chiacchierare insieme ai suoi due amici che già conoscevo fuori dal ristorante di sushi, nel quartiere di Mayfair. Se ne stavano al freddo a fumare la loro sigaretta post-pranzo, circondati dalle ville in stile georgiano del quartiere, dai maestosi hotel e negozi di lusso. Gli altri due uomini erano originari dell’Asia centrale e, come Chester, anche loro si trovavano a Londra per lavoro. Si erano rivolti a lui per farsi mettere in contatto con qualcuno che potesse aiutarli nel campo della comunicazione digitale (campagne tramite email e social media) in vista di un’importante elezione che si sarebbe tenuta a breve nel loro paese. Non li conoscevo bene, ma sapevo che erano entrambi uomini potenti e, quando in precedenza li avevo incontrati, mi erano piaciuti. Radunandoci lì a pranzo, quel giorno, il mio amico aveva fatto un favore a tutti quanti.

    Chester mi accolse porgendomi una sigaretta che aveva arrotolato apposta per me, poi me l’accese. Mi misi a chiacchierare con lui e i suoi due amici, mentre ci riparavamo a vicenda dal vento che si era alzato. L’atmosfera era allegra. Guardai Chester avvolto dalla luce pomeridiana, aveva le guance rosse e l’espressione felice, e non potei non pensare al suo straordinario percorso professionale. Il primo ministro di una piccola nazione insulare l’aveva da poco nominato funzionario diplomatico responsabile dei rapporti commerciali, ma quando lo incontrai per la prima volta, alla convention nazionale dei democratici nel 2008, era soltanto un diciannovenne idealista con i capelli arruffati che indossava una tunica dashiki di colore blu. Quell’anno la convention si era tenuta a Denver. Io e Chester eravamo in fila fuori dal Broncos Stadium, in attesa di ascoltare il discorso di Hillary Clinton a sostegno di Barack Obama, il candidato del partito, quando ci eravamo imbattuti l’uno nell’altro e avevamo iniziato a parlare.

    Era trascorso molto tempo da allora ed entrambi avevamo acquisito una buona dose di esperienza politica. Avevamo a lungo condiviso il sogno di diventare grandi lavorando nel settore delle relazioni politiche internazionali e della diplomazia, e lui mi aveva inviato con orgoglio la foto del certificato che attestava la sua recente investitura. Ma mentre se ne stava lì, fuori dal ristorante, nel suo ruolo perfetto di diplomatico fresco di nomina, io continuavo a vedere in lui quell’amico chiacchierone che conoscevo da sempre, un amico che consideravo come un fratello.

    Mentre fumavamo, Chester si scusò con me per aver organizzato il pranzo all’ultimo momento. E nell’indicare il gruppetto di persone che aveva radunato lì, gesticolò verso il vetro del ristorante, attraverso cui intravidi la terza persona che aveva invitato: l’uomo, rimasto seduto all’interno, che avrebbe cambiato la mia vita e, in seguito, anche il mondo.

    Il cellulare attaccato all’orecchio, sembrava il tipico uomo d’affari di Mayfair, ma Chester mi spiegò che non era un imprenditore qualunque. Si chiamava Alexander Nix ed era il CEO di una società britannica che si occupava di campagne elettorali. L’azienda, continuò Chester, era la SCL Group, acronimo di Strategic Communications Laboratories, che mi sembrò il tipo di nome che un consiglio di amministrazione darebbe a un’agenzia pubblicitaria per conferirle un tocco di scientificità. La SCL, mi disse Chester, era una società di enorme successo. Durante i suoi venticinque anni di attività, aveva ottenuto numerosi contratti di appalto nel settore della difesa e aveva gestito le elezioni in vari paesi del mondo. La sua missione, disse, era far eleggere presidenti e primi ministri e, in molti casi, assicurarsi che rimanessero al potere. Di recente, la SCL Group si era occupata della rielezione del primo ministro per cui ora lavorava Chester, e immaginavo fosse quello il motivo per cui Chester conosceva Nix.

    Mi ci volle un attimo per assimilare tutto quanto. Il fatto che Chester ci avesse riuniti tutti lì, quel pomeriggio, avrebbe potuto creare un intricato conflitto di interessi. Io intendevo propormi come candidata ai suoi due amici, ma era chiaro che anche il CEO della SCL Group era lì per lo stesso motivo. E intuii che a causa della mia giovane età e della mia mancanza di esperienza, oltre al ritardo, molto probabilmente il CEO aveva già ottenuto dai due amici di Chester l’incarico a cui ambivo.

    Sbirciai l’uomo attraverso il vetro. Era ancora al telefono e la sua espressione si era fatta d’un tratto seria ed estremamente professionale. Di sicuro ero già stata scartata. Ero delusa, ma cercai di non darlo a vedere.

    «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere conoscerlo» mi disse Chester. «Sai, è un ottimo contatto.» Forse intendeva per lavori futuri. «O perlomeno» continuò, «potrebbe essere un soggetto interessante per la tua tesi di dottorato.»

    Io annuii. Probabilmente aveva ragione. Ero delusa per l’opportunità di lavoro che ritenevo ormai persa, ma ero comunque curiosa da un punto di vista accademico. Cosa faceva, in pratica, il CEO di un’azienda simile? Non avevo mai sentito parlare di una società che si occupava di campagne elettorali.

    Da quanto avevo appreso durante l’esperienza con Obama e nel recente lavoro di volontariato che avevo svolto a Londra con Democrats Abroad, l’organizzazione del Partito democratico per i cittadini statunitensi che vivono all’estero, e anche con il Comitato di Azione Politica (o super PAC) Ready for Hillary, le campagne elettorali erano organizzate da appositi manager che lavoravano nel proprio paese sostenuti, ovviamente, da una piccola cerchia di esperti ben remunerati e da un esercito di assistenti sottopagati, volontari e stagisti, proprio com’ero stata io. In effetti, dopo la campagna di Obama del 2008, avevo conosciuto alcune persone che erano diventate consulenti politici di professione, come David Axelrod, che era stato capo stratega di Obama e in seguito aveva lavorato come consulente per il Partito laburista britannico; e anche Jim Messina, definito la persona più famosa a Washington di cui non hai mai sentito parlare,¹ che aveva prima guidato la campagna presidenziale di Obama del 2012, poi era diventato capo dello staff della Casa Bianca e infine aveva continuato la sua attività di consulenza al servizio di leader stranieri come David Cameron e Theresa May. Eppure, non avevo mai pensato che potessero esistere delle vere e proprie aziende il cui obiettivo era far eleggere dei candidati all’estero.

    Osservai la figura attraverso il vetro del ristorante con un misto di curiosità e sconcerto. Chester aveva ragione. Non avrei ottenuto alcun lavoro in quel momento, ma forse in futuro ci sarebbe stata qualche possibilità. E nel frattempo avrei sfruttato quel pomeriggio per la mia ricerca.

    Il ristorante era piuttosto gradevole, illuminato dall’alto, con il parquet chiaro e le pareti color crema. Tutt’intorno erano appese in modo ordinato opere d’arte giapponesi. Mi avvicinai al tavolo studiando l’uomo che avevo guardato dall’esterno. Aveva concluso la telefonata e Chester ci presentò.

    Osservandolo da vicino, notai che Nix non era affatto il tipico uomo d’affari di Mayfair che pensavo. Era ciò che gli inglesi chiamano posh, un tipo raffinato. Il suo stile era classico e impeccabile, indossava un completo blu scuro cucito su misura e una cravatta di tessuto annodata al colletto della camicia inamidata: era vestito dai sarti di Savile Row dalla testa ai piedi, infilati in un paio di scarpe che luccicavano per quanto erano pulite. Aveva al suo fianco una valigetta di pelle consumata chiusa da una serratura in ottone piuttosto datata; sembrava appartenuta a suo nonno. Nonostante fossi in tutto e per tutto americana, avevo vissuto in Gran Bretagna dalla fine della scuola superiore ed ero in grado di riconoscere un membro dell’alta società inglese quando ne vedevo uno.

    Alexander Nix, tuttavia, apparteneva a quella che chiamerei l’altissima società. Aveva il tipico aspetto gradevole degli studenti delle scuole private inglesi (in seguito venni a sapere che era stato all’Eton College): snello, il mento affilato e la corporatura leggermente ossuta di chi non frequenta spesso la palestra; gli occhi di un bel colore azzurro opaco e la pelle del viso liscia, senza rughe, come se non avesse mai avuto una preoccupazione al mondo. In altre parole, il suo era il volto del privilegio. Mentre se ne stava lì di fronte a me, in quel ristorante londinese del West End, non mi sarebbe stato difficile immaginarlo in sella a un pony da polo con in mano una mazza di legno.

    Cercai di indovinarne l’età. Se era così affermato come sosteneva Chester, doveva avere almeno dieci anni più di me, e il suo atteggiamento, sicuro ma allo stesso tempo rilassato, faceva pensare che fosse entrato da poco nella mezza età. Aveva un che di aristocratico misto a un pizzico di meritocrazia. Era di certo nato fortunato ma, stando a Chester, sembrava che poi avesse proseguito il cammino sulle proprie gambe.

    Nix mi salutò molto cordialmente, come se fossi una sua vecchia conoscenza, stringendomi con vigore la mano. Quando ci sedemmo al grande tavolo in disparte rispetto agli altri, rivolse subito l’attenzione ai due amici di Chester, ma lo fece senza risultare scortese, riprendendo la conversazione da dove probabilmente l’avevano interrotta prima che arrivassi io.

    Sembrò come accendersi, entrando subito in modalità di conquista. Lo riconobbi perché sapevo farlo anch’io. Per sostenermi negli studi, avevo imparato a vendere i miei servizi di consulenza ai clienti, ma Nix era molto più bravo di me. Non possedevo nemmeno la metà del suo fascino e della sua esperienza, né di certo avevo il suo stile così raffinato.

    Lo ascoltai mentre raccontava la storia della compagnia per cui lavorava. La SCL Group era stata fondata nel 1993. Da allora, aveva gestito più di duecento campagne elettorali e aveva realizzato vari progetti nel campo umanitario, politico e della difesa in circa cinquanta paesi diversi: Afghanistan, Colombia, India, Indonesia, Kenya, Lettonia, Libia, Nigeria, Pakistan, Filippine, Trinidad e Tobago, e altri ancora. Nix lavorava per la SCL da undici anni.

    La mole di esperienza da lui accumulata era quasi imbarazzante per me. Pensai che quando la SCL era stata fondata avevo sette anni e che, mentre io frequentavo le scuole, Nix aveva contribuito a creare un piccolo ma potente impero. Paragonato a quello dei miei coetanei, il mio era un curriculum di tutto rispetto – avevo già lavorato in campo internazionale, vivendo all’estero e collaborando come stagista alla campagna di Obama – ma di certo non potevo competere con Nix.

    «E ora siamo in America» disse Nix, non riuscendo a contenere l’entusiasmo.

    La SCL si era da poco insediata negli Stati Uniti, e l’obiettivo a breve termine di Nix era quello di dirigere più campagne possibili nelle elezioni americane di medio termine che si sarebbero svolte nel novembre 2014, per poi entrare a pieno titolo nel business elettorale degli Stati Uniti e aspirare persino a una campagna presidenziale.

    Era un obiettivo piuttosto ambizioso. Eppure Nix aveva già ottenuto l’incarico per la campagna di alcuni prestigiosi candidati in vista delle elezioni di metà mandato. Era stato ingaggiato da Tom Cotton, un membro del Congresso originario dell’Arkansas, laureato a Harvard e veterano della guerra in Iraq, che correva per il Senato; e da tutti i candidati repubblicani della Carolina del Nord che correvano per varie cariche. Inoltre, aveva rimediato un lavoro presso un potente super PAC che apparteneva all’ambasciatore all’ONU John Bolton, una figura di destra piuttosto controversa che mi era fin troppo familiare.

    Pur vivendo da molti anni in Gran Bretagna, conoscevo bene alcuni neoconservatori americani di spicco come Bolton. Era difficile ignorare un personaggio simile: un falco, politicamente parlando, e un grande accentratore. Di recente si era scoperto che Bolton, insieme ad altri neoconservatori, era l’ideatore e il finanziatore di un’organizzazione segreta chiamata Groundswell, il cui scopo principale era compromettere la presidenza di Obama e provocare lo scandalo sull’attacco a Bengasi in cui era coinvolta Hillary Clinton,² un’altra questione che mi aveva toccato da vicino. Avevo lavorato in Libia, e lì avevo conosciuto l’ambasciatore Christopher Stevens, la cui morte era stata causata in parte dall’infelice decisione presa dal dipartimento di Stato americano.

    Presi nota della lista dei clienti di Nix, mentre sorseggiavo il tè. Sembravano dei candidati repubblicani come tanti altri, ma la loro politica era così profondamente distante da ciò in cui credevo, che di fatto rappresentavano i peggiori nemici di quelli che consideravo i miei eroi, come Obama e Hillary. Le persone che aveva citato Nix erano dei reietti politici per me, o ancora meglio, dei piranha, pesci con i quali non avrei mai immaginato di poter nuotare.

    Avevo sempre odiato la cerchia per cui Nix lavorava e che sosteneva campagne per il diritto alle armi e pro-vita. Le cause in cui avevo sempre creduto erano tutte orientate palesemente a sinistra.

    Nix era entusiasta di se stesso, della sua azienda e delle persone che era riuscito a intercettare. Glielo si leggeva negli occhi. Il lavoro era cresciuto molto, e prevedeva che sarebbe cresciuto ancora di più in futuro, tanto che la SCL Group aveva deciso di creare una nuova società che si occupasse esclusivamente degli Stati Uniti.

    La nuova società si chiamava Cambridge Analytica.

    Era in attività da meno di un anno, ma non per questo andava sottovalutata, disse Nix. Cambridge Analytica stava per mettere in atto una rivoluzione. La rivoluzione di cui parlava aveva a che fare con i big data e l’analitica.

    Nell’era digitale, i dati erano «il nuovo petrolio». La raccolta dati una «corsa agli armamenti», disse. E Cambridge Analytica aveva accumulato un arsenale di dati sui cittadini americani di proporzioni inaudite; una quantità che, per quanto ne sapeva lui, nessuno era mai riuscito a raccogliere. I giganteschi database della società contenevano tra i duemila e i cinquemila punti dati individuali (segmenti di informazioni personali) su ogni cittadino degli Stati Uniti di età superiore ai diciotto anni. Ovvero, circa 240 milioni di persone.

    Nix fece una pausa e ci guardò, come per darci il tempo di assimilare quel numero.

    Ma possedere i big data non bastava, continuò. La chiave di tutto era capire cosa farci. Era necessario trovare un modo scientifico e infallibile di classificare le persone: democratico, ambientalista, ottimista, attivista e così via. Per anni la SCL Group, la società madre di Cambridge Analytica, aveva identificato e classificato le persone utilizzando uno dei metodi più sofisticati di psicologia comportamentale, che aveva reso possibile trasformare in una miniera d’oro quello che altrimenti sarebbe stato un semplice ammasso di informazioni sulla popolazione americana.

    Nix ci raccontò del suo esercito di data scientist e psicologi che avevano imparato a capire esattamente a chi inviare un messaggio, quale tipo di messaggio inviare e come individuare i soggetti. Aveva assunto gli analisti più capaci del mondo, gente in grado di intercettare le persone ovunque fossero (al cellulare, computer, tablet o televisore) e attraverso qualsiasi mezzo (dall’audio ai social media), utilizzando il metodo del microtargeting. Cambridge Analytica era capace di isolare gli individui e di indurli a pensare, votare e agire in modo diverso da quanto avessero fatto fino ad allora. Usava il denaro dei suoi clienti per attuare metodi di comunicazione realmente efficaci, con risultati «verificabili» disse Nix.

    In quel modo, Cambridge Analytica intendeva vincere le elezioni in America.

    Mentre Nix parlava, mi voltai verso Chester; speravo che mi guardasse, in modo da capire che opinione si fosse fatto di Nix, ma non riuscii ad attirare la sua attenzione. Riguardo ai suoi amici, intuii dalle loro espressioni che il racconto di Nix li aveva completamente rapiti.

    Cambridge Analytica andava a riempire un’importante nicchia di mercato. Era stata creata per soddisfare una domanda sempre più crescente. I democratici di Obama avevano dominato nel campo della comunicazione digitale fin dal 2007. Mentre i repubblicani, a livello di innovazione tecnologica, erano rimasti indietro. Cambridge Analytica aveva fatto la sua comparsa dopo l’umiliante sconfitta del 2012, fornendo ai repubblicani i mezzi tecnologici di cui avevano bisogno e permettendo loro di giocare alla pari sul campo della democrazia rappresentativa.

    Nel caso dei due amici di Chester, il cui paese non possedeva i big data per la mancanza di accesso a Internet, la SCL li avrebbe aiutati ad avviare il processo e avrebbe utilizzato i social media per diffondere il loro messaggio. Nel frattempo si sarebbe servita anche dei metodi di propaganda più tradizionali, dai programmi scritti ai manifesti politici, fino alla promozione porta a porta, che permetteva di analizzare i destinatari del messaggio.

    I due uomini si complimentarono con Nix. Li conoscevo abbastanza bene da capire quanto il suo discorso li avesse catturati. Sapevo che il loro paese non aveva le infrastrutture necessarie per realizzare ciò che Nix intendeva fare in America, e la sua strategia non sembrava alla portata nemmeno delle tasche di due uomini facoltosi come quelli.

    Da parte mia, ero rimasta scioccata da quanto aveva rivelato Nix. Sbalordita, a dir la verità. Non avevo mai sentito niente del genere. In pratica, la sua società usava le informazioni personali della gente per influenzarla e, di conseguenza, per modificare i sistemi economici e politici del mondo. L’aveva fatta sembrare un’operazione semplice: condizionavano le intenzioni di voto degli elettori e li inducevano a prendere decisioni non tanto contro la propria volontà, quanto contro il proprio tradizionale modo di pensare, cambiando così il loro comportamento abituale.

    Dovevo ammettere, però, che ero anche molto colpita dalle capacità dell’azienda. Il tema dell’analisi dei big data mi aveva sempre affascinato, fin da quando avevo iniziato a occuparmi di campagne politiche. Non ero una programmatrice, né un’analista, ma come molti altri millennial, avevo iniziato a utilizzare ogni sorta di tecnologia molto presto. Sapevo che i dati erano ormai parte integrante del mio mondo; potevano essere utilizzati per meri scopi utilitaristici, ma avevano anche il potere di cambiare le cose.

    Io stessa li avevo usati, anche se in modo rudimentale, in campagna elettorale. Oltre ad aver lavorato come stagista non retribuita nel team New Media di Obama, avevo collaborato in modo volontario alla campagna per le primarie di Howard Dean quattro anni prima, poi alla campagna presidenziale di John Kerry e a quella per la corsa al Senato di Obama. Allora, sembrava rivoluzionario persino utilizzare i dati per scrivere le email agli elettori indecisi. La campagna di Howard Dean raggiunse le persone online per la prima volta, e la sua fu la raccolta fondi più alta della storia.

    Il mio interesse per i dati non mi aveva impedito di vivere di persona alcune rivoluzioni. Pur studiando, avevo sempre cercato di impegnarmi nel mondo reale. Ritenevo che per gli accademici fosse assolutamente necessario mettere in pratica le nobili idee concepite all’interno della propria torre d’avorio.

    Anche se si era trattato di un pacifico passaggio di poteri, l’elezione di Obama fu per me la prima rivoluzione a cui ebbi modo di assistere. Avevo preso parte alle celebrazioni che si erano svolte a Chicago la sera in cui Obama vinse le elezioni, e tutta quella gente che festeggiava in strada mi aveva fatto pensare a un colpo di Stato.

    Avevo anche avuto il privilegio di agire sul campo, correndo qualche rischio, in paesi in cui le rivoluzioni avvenivano in modo silenzioso. Mentre ero all’università, andai a studiare per un anno a Hong Kong, dove collaborai con alcuni attivisti che aiutavano i rifugiati nordcoreani ad attraversare la Cina tramite ferrovie sotterranee. Dopo la laurea, trascorsi un periodo in Sudafrica, dove presi parte ad alcuni progetti con degli ex capi guerriglieri che avevano contribuito a rovesciare il regime dell’apartheid. Dopo la Primavera araba lavorai nella Libia post-Gheddafi, e per molti anni mi dedicai a progetti diplomatici indipendenti rivolti a quel paese. Sembrava quasi che avessi la tendenza a scegliere posti in cui la situazione era più turbolenta.

    Avevo anche studiato vari modi in cui i dati potevano essere sfruttati per fare del bene, esaminando i casi in cui erano stati utilizzati per ottenere giustizia sociale, o per denunciare la corruzione e gli atti illeciti. Nel 2011 scrissi la tesi del master usando come risorsa principale le informazioni segrete del governo fatte trapelare da WikiLeaks. Quei dati rivelavano ciò che era successo durante la guerra in Iraq, portando alla luce numerosi crimini contro l’umanità.

    Dal 2010 in poi, l’hacktivista (hacker attivista) Julian Assange, fondatore dell’organizzazione, aveva dichiarato una guerra virtuale contro coloro che avevano intrapreso una guerra reale ai danni dell’umanità, divulgando documenti top secret che incriminavano il governo e l’esercito degli Stati Uniti. Quei dati, denominati The Iraq War Files, suscitarono discorsi pubblici sulla necessità di tutelare le libertà civili e i diritti umani internazionali da ogni abuso di potere.

    Nella mia tesi di dottorato sulla diplomazia e i diritti umani, in continuità con il lavoro svolto fino ad allora, intendevo collegare il tema dei big data con la mia esperienza in tumulti politici, cercando di capire come i dati avrebbero potuto salvare vite. La questione della diplomazia preventiva mi interessava particolarmente. Le Nazioni Unite e le organizzazioni non governative (ONG) di tutto il mondo stavano cercando un modo per utilizzare i dati in tempo reale per prevenire atrocità come il genocidio avvenuto in Ruanda nel 1994, dove si sarebbe potuto intervenire prima se chi prendeva decisioni avesse avuto accesso alle informazioni necessarie. Attraverso il monitoraggio dei dati preventivi – come il costo del pane o l’uso crescente di insulti razzisti su Twitter – si sarebbero potute fornire alle forze di pace le informazioni necessarie per individuare e tenere sotto controllo le società ad alto rischio, ed eventualmente intervenire prima che scoppiasse un conflitto. Una raccolta e un’analisi dei dati adeguate avrebbero potuto prevenire violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e la guerra stessa.

    Capivo bene cosa implicassero le operazioni che era capace di compiere la SCL Group. Il modo in cui Nix parlava dei dati e il suo discorso sulla rivoluzione mi lasciarono piuttosto perplessa riguardo alle sue intenzioni e ai rischi che comportava il suo metodo. Decisi quindi di non rivelare le mie conoscenze o la mia esperienza nel campo dei dati, e fui grata del fatto che Nix quel giorno, a Londra, fosse già impegnato con i due amici di Chester.

    Per fortuna non mi rivolse molta attenzione. Quando finì di parlare della sua compagnia, chiacchierammo in generale della mia esperienza nelle campagne elettorali, e fui sollevata dal fatto che non mi rivolse domande specifiche sull’operazione New Media di Obama, né sui progetti che avevo svolto nell’ambito della prevenzione dei crimini di guerra e della giustizia criminale, o sul mio interesse per l’utilizzo dei dati nella diplomazia preventiva. Consideravo Nix per quello che era: un uomo che sfruttava i dati come un mezzo per raggiungere un obiettivo, e che lavorava per molte persone negli Stati Uniti che consideravo dei nemici. Mi sentivo come se avessi schivato una pallottola.

    Non credevo che gli amici di Chester avrebbero scelto di lavorare con Nix. La sua presenza e la sua presentazione erano troppo stravaganti, troppo eccessive per loro. La sua esuberanza era affascinante e persuasiva; era persino riuscito a contenere l’immodestia grazie alle raffinate maniere inglesi, tuttavia la sua spavalderia e la sua ambizione erano sproporzionate rispetto ai loro bisogni. Nix sembrava consapevole della titubanza dei due uomini. Prima di andarsene, disse qualcosa su come avrebbe potuto aiutarli a selezionare particolari porzioni di elettori.

    Quando Nix si alzò dal tavolo, mi resi conto che potevo ancora propormi ai due amici di Chester. Una volta che fosse uscito dal ristorante, intendevo fare la mia proposta, semplice e modesta. Ma mentre Nix si avviava fuori, Chester mi fece cenno di seguirlo.

    Ci ritrovammo insieme a Nix fuori dal ristorante, al freddo, mentre la luce del pomeriggio scemava, e rimanemmo in silenzio per qualche imbarazzante secondo. Ma sapevo bene che Chester non l’avrebbe tollerato a lungo.

    «Ehi, amica consulente dei democratici, perché non ti proponi al mio amico consulente dei repubblicani?» disse a un tratto.

    Nix lanciò una strana occhiata a Chester, un misto di preoccupazione e fastidio. Era evidente che non amava essere colto di sorpresa o che gli venisse detto cosa fare. Nonostante ciò, infilò una mano nella tasca della giacca e tirò fuori un mucchietto disordinato di biglietti da visita, tra cui si mise a cercare. Ovviamente non erano suoi. Di varie grandezze e colori, probabilmente appartenevano a uomini d’affari e potenziali clienti come gli amici di Chester, altre persone a cui doveva aver proposto i servizi della sua compagnia in pomeriggi simili a quello.

    Alla fine pescò uno dei suoi biglietti da visita e me lo porse con un gesto enfatico.

    C’era scritto: ALEXANDER JAMES ASHBURNER NIX. La carta spessa su cui era stampato il suo nome in caratteri serif trasudava nobiltà.

    «Ti farò ubriacare, così potrò sottrarti qualche segreto» disse Alexander Nix, ridendo, ma a me non sembrava che stesse scherzando del tutto.

    2

    CAMBIO DI SCHIERAMENTO

    Ottobre-dicembre 2014

    Era passato qualche mese dall’incontro con Alexander Nix e non ero ancora riuscita a procurarmi un lavoro che mi permettesse di risollevare la situazione finanziaria della mia famiglia. Nell’ottobre 2014 chiesi di nuovo aiuto a Chester per trovare un lavoro part-time, e lui mi organizzò un appuntamento con il primo ministro per cui lavorava.

    Avrei avuto la rara opportunità di offrire la mia consulenza nell’ambito digitale e dei social media al leader di una nazione. Il primo ministro era in corsa per farsi rieleggere, ma stavolta si trovava di fronte un’opposizione molto forte e temeva di perdere. Chester voleva presentarmi a lui per capire se avrei potuto essere di aiuto.

    Fu così che, inaspettatamente, incontrai per la seconda volta Alexander Nix.

    Mi trovavo nella sala d’aspetto dell’hangar di un jet privato dell’aeroporto di Gatwick, in attesa di vedere il primo ministro, quando la porta si spalancò e fece la sua comparsa Alexander Nix. Io ero in anticipo; il suo era il primo appuntamento della giornata e ovviamente doveva essere stato fissato prima del mio. Povera me, pensai.

    «Che ci fai qui?» mi chiese, con un’espressione al tempo stesso preoccupata e minacciosa. Si strinse la vecchia valigetta al petto e arretrò, fingendosi spaventato. «Mi stai pedinando?»

    Mi misi a ridere.

    Quando gli dissi il motivo per cui mi trovavo lì, mi spiegò che aveva lavorato con il primo ministro in occasione di alcune elezioni passate. Era affascinato dal fatto che anch’io speravo di fare

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