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Santisti & 'Ndrine.Narcos, massoni deviati e killer a contratto
Santisti & 'Ndrine.Narcos, massoni deviati e killer a contratto
Santisti & 'Ndrine.Narcos, massoni deviati e killer a contratto
E-book514 pagine6 ore

Santisti & 'Ndrine.Narcos, massoni deviati e killer a contratto

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Info su questo ebook

La mafia calabrese flirta da sempre con il potere, la politica, le logge massoniche deviate. È accaduto in Italia come nelle Americhe e in Oceania. I padrini sono stati indifferentemente comunisti e fascisti, democristiani e socialisti, ponendosi sempre dove conveniva stare per fare soldi. Gli ’ndranghetisti, pur giocando in borsa e riciclando denaro in tutto il mondo, continuano a rimanere fedeli ai riti e ai simbolismi antichi ispirati ad una setta criminale spagnola – la Garduña – in realtà mai esistita perché frutto della creatività letteraria di una scrittrice tedesca, Irene de Suberwick.
Oggi i boss sono impegnati nello smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi; nell’utilizzo illegittimo di fondi europei, nella colonizzazione di intere aree del vecchio continente; nella gestione del mercato dei reperti archeologici e nel traffico mondiale degli stupefacenti in accordo con i cartelli colombiani e messicani.
LinguaItaliano
Data di uscita26 lug 2018
ISBN9788868227135
Santisti & 'Ndrine.Narcos, massoni deviati e killer a contratto

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    Anteprima del libro

    Santisti & 'Ndrine.Narcos, massoni deviati e killer a contratto - Arcangelo Badolati

    dell’ordine.

    Figghji ‘i buttana

    Nessuno in paese li considerava gente da evitare,

    e non tanto per timore quanto perché formavano

    ormai uno degli aspetti della classe dirigente.

    Corrado Alvaro

    Vincenzo D’Agostino aveva gli occhi azzurrissimi, i capelli ricci sempre arruffati e la voce roca. Fumava dall’età di dodici anni. Era nato in un paesino della provincia di Reggio Calabria e con i genitori aveva raggiunto l’Australia in cerca di fortuna nella prima decade del Novecento. Nella terra dei canguri, all’inizio, Vincenzo continuava a parlare in dialetto, poi pian piano aveva imparato l’inglese. La vita era stata dura per lui, come per tutti gli altri ragazzi partiti da una terra lontanissima, all’altro emisfero del globo. Per farsi strada e non morire di fame, per vivere decentemente e non fare lo schiavo, aveva imparato a usare il cervello e le mani. E dopo le mani il coltello. E dopo la lama, pure la pistola.

    A vent’anni, il giovane aveva messo in piedi una piccola organizzazione che controllava il commercio e disciplinava i rapporti tra gli italiani e tra questi e gli australiani. Nel volgere di due lustri dovevano rivolgersi tutti a lui: ad Ayr, Ingham e Innisfal, nel Queensland settentrionale, per avere protezione e risolvere qualsiasi tipo di conflitto la soluzione era sempre Vincenzo. Lui, che tanti calabresi chiamavano don Cecè, non aveva rimpianti né amici. Per via di una caduta avuta in gioventù, ora si muoveva appoggiandosi a un bastone di legno che s’era pazientemente modellato con la molla. Già, con quel coltello, da sempre suo inseparabile compagno, che teneva nella tasca sinistra perché era mancino. Per campare alla grande, per ottenere rispetto e considerazione, aveva dovuto imparare ad ubbidire, ricattare e soprattutto a uccidere.

    Una sera di luglio, ordinò alla moglie Maria di cucinare all’italiana: parmigiana di melanzane, pasta con il sugo dei pomodori piantati nel giardino di casa, peperoni ripieni, pane duro tagliato a fette e ammorbidito dall’olio di oliva che ogni anno faceva arrivare dall’Italia insieme al pecorino stagionato.

    Avevano ospiti a cena: don Cecè aveva riunito i suoi più stretti compari di malefatte per discutere di affari e voleva fare una buona figura. Maria era una donna silenziosa, da tempo si era abituata a quegli incontri. Pure lei veniva dalla Calabria e per ricordarsi della terra d’origine aveva allestito un orto, mettendoci quante più piante possibili: basilico, menta, pomodori, zucchine, melanzane e persino la bietola. I suoi genitori erano contadini e il gusto di lavorare la terra lei ce l’aveva sin da bambina. Quando Vincenzo invitava qualcuno, lei serviva le pietanze e rimaneva in disparte in cucina: si usava così e quella regola non le dispiaceva perché preferiva non mettere il naso nelle questioni delicate. Per gli uomini di don Cecè, tuttavia, Maria era una sorta di regina che andava omaggiata e riverita; perciò, ogni volta che entravano in casa, portavano sempre un pensiero per lei. Sapevano che sarebbe bastata non una parola, ma una smorfia della donna per far cambiare l’atteggiamento del marito nei confronti di ciascuno di loro. D’altronde, in tutte le famiglie calabresi le cose funzionavano così.

    Vincenzo quella sera li accolse con la solita fredda familiarità: era rituale cenare insieme almeno una volta al mese e l’incontro doveva avvenire nell’abitazione o nel luogo indicato dal capobastone, il più alto in grado, l’uomo che decideva della vita e della morte di tutti. Cecè sedette al centro del tavolo e gli altri si disposero in ordine di importanza di fronte a lui, alla sua destra e alla sua sinistra. Mangiarono e parlarono: D’Agostino indicava le cose da fare nelle settimane a venire, poi faceva delle domande ai commensali per essere aggiornato su fatti e circostanze. Quando Francesco, detto Ciccio morteveloce perché ammazzava la gente tanto celermente da non dare tempo di reazione alle vittime, gli disse del sergente di polizia di Ingham che fermava i picciotti e alzava le mani, il capobastone ebbe un moto di stizza. Non era il primo, in quegli anni, ad usare metodi brutali e non sarebbe certo stato l’ultimo. Prima di rispondere prese perciò del tempo. Afferrò una mela e iniziò a sbucciarla con un coltello tirato fuori dalla tasca e non con quello che aveva accanto al piatto. Fu come un rito compiuto con disarmante lentezza. Tutti rimasero in silenzio aspettando che si pronunciasse. Tagliò piccole parti di frutto mettendo in vista, con una studiata rotazione della mano destra, la fragranza della polpa bianco-giallastra e le ripose nel piatto. Poi tirò un sospiro e ne addentò una: masticava senza fretta guardando dritto davanti a sé, oltre Ciccio che gli sedeva davanti. Allungava lo sguardo verso l’oceano, mettendo ordine nei suoi pensieri. Ingoiato il boccone, richiuse il coltello a molla, allungò i polsi sulla tavola e disse, alternando l’italiano al dialetto:

    «Sono arrivato quaggiù da bambino che ero un morto di fame. Anzi, tutti eravamo dei pezzenti: io, i miei genitori, gli altri calabresi che avevano fatto la strada con noi e prima di noi. Di questo posto non mi piaceva niente: il mare era infestato di pescecani, l’aria umida e appiccicosa, il sole troppo caldo, la lingua incomprensibile. La gente di qua ci disprezzava e pensava di poterci trattare come gli schiavi negri in America o come facevano i saraceni con le donne e gli uomini che rapivano sulle nostre coste. Ma noi avevamo troppa fame e non potevamo farci mangiare dagli altri. Io non volevo fare il cameriere di nessuno. La miseria mi aveva strappato al mio paese dove era rimasto mio nonno, dove c’erano ancora i miei primi compagni di giochi e dove ogni pietra, ogni collina, ogni scoglio raccontava di una leggenda. A me non era rimasto più nulla dopo quel disastroso viaggio in nave che non finiva mai, durante il quale ho vomitato forse cento volte. Quando ho messo piede qua non avevo più amici, le leggende erano rimaste là e vedevo, ogni giorno, mio padre e mia madre in difficoltà. Pure per loro era durissimo stare in questo buco del mondo. Per questo ho deciso che dovevo prendermi quello che mi spettava. Sapevo che nessuno mi avrebbe aiutato e ho cominciato a usare tutta la forza che avevo per farmi strada. Prima della forza, però, ho usato la testa alimentando la mia furbizia. Gli australiani avevano tutto e io non avevo niente perciò che potevo perdere? Ccussì diventai nu figghjiu ‘i buttana e, i tandu, i futtia sempri. Se mi davano fastidio li sistemavo a calci in bocca; se la polizia ficcava il becco nelle mie cose me la compravo e se sindaci e politici mi chiedevano qualcosa mi mettevo a disposizione facendo finta d’impegnarmi per loro. Facendo così siamo arrivati a stasera, seduti tutti a tavola a mangiare e bere e ciascuno di noi con una bella casa dove tornare a dormire. Per andare avanti non dobbiamo mai dimenticare di continuare a essere figghji i’ buttana. Vedete cosa fa la moglie di questo sergente, in quale casa vive e cosa potrebbe servirgli: poi offritegliela. Fatelo mangiare all’amo... comu i pisci. Una volta che proverà la mangianza non saprà più farne a meno. Sarà felice di ricevere i nostri regali e noi saremo felici con lui. E tutto tornerà a posto, senza scrusciu e senza sangu».

    I commensali capirono la lezione. Ciccio morteveloce, che era originario di Platì, annuì e poi si lasciò andare a un sorriso liberatorio. Questa volta la sua pistola sarebbe rimasta inoperosa. Meglio così. Donna Maria portò in tavola il dolce che aveva fatto con le sue mani: era una crostata piena di crema pasticcera. Don Cecè le disse di preparare un buon caffè «nero e bollente» che avrebbero sorseggiato dopo la bicchierata di whisky. Il superalcolico serviva per digerire e il caffè per tenere gli occhi aperti. Rimasero seduti a chiacchierare fino alle due del mattino; poi Vincenzo D’Agostino lasciò chiaramente intendere che era il momento di lasciarsi abbracciare da Morfeo. Uno per uno gli si avvicinarono per salutarlo: una stretta di mano e due baci sulle guance. L’ultimo a congedarsi fu Ciccio: don Cecè lo guardò negli occhi e muovendo lentamente l’indice della mano sinistra gli disse: «mi raccumandu sempri figghji ‘i buttana... non tu sperdiri!».

    Vincenzo D’Agostino è stato il primo capo della ’Ndrangheta in Australia.

    Il grande sistema

    Il Principe delle tenebre è un gentiluomo.

    Re Lear, William Shakespeare

    Immensi agrumeti profumavano a quel tempo l’aria già ricca di iodio. Due fiumi, il Petrace e il Mesima, gettavano in mare le acque cristalline delle sorgenti montane suscitando la curiosità dei gabbiani. I greci vi avevano trovato dimora fondando una loro città: la terra era fertile, il clima ideale.

    L’antico e suggestivo scenario, sul quale posarono gli occhi romani, arabi, normanni, spagnoli e francesi, è scomparso per sempre nel secolo scorso, quando lo Stato ha finto di voler dare impulso industriale a quella parte di Calabria, immaginando prima un mostro siderurgico, poi un’inquinante centrale a carbone e infine un immenso porto. La centrale non è mai stata realizzata, la struttura portuale invece sì. E siccome nella Piana di Gioia Tauro sviluppano i loro interessi le cosche forse più temute della mafia calabrese, quel porto è diventato cosa loro. Tanto loro da costringere la Medcenter, società chiamata a gestire le banchine dell’infrastruttura, a subire esose richieste.

    Domenico Pepè, ambasciatore e plenipotenziario delle ’ndrine, con calma serafica e senza tradire alcuna emozione, si siede davanti alla scrivania di Walter Lugli, alto dirigente della grande azienda. I due si sono appena stretti la mano. Pepè, che ufficialmente fa l’imprenditore, comincia a parlare, ben scandendo verbi, aggettivi e sostantivi.

    «Noi siamo a fianco vostro. Per tutti i problemi che avete là possiamo esservi vicini... in qualsiasi genere di problema che si crea o si va creando. Naturalmente, con tutti quegli ettari di terreni tagliati, giardini, mandarini, aranci che ci hanno distrutto... penso che è giusto che qualcosa dobbiamo prendere pure noi. La nostra richiesta non è di assunzioni... Noi chiediamo qualcosa per noi... Noi siamo là, viviamo là, abbiamo il passato, il presente e il futuro! Quindi la nostra richiesta è che per ogni container ci sia qualcosa per noi. Noi lo riteniamo giusto, logico... È lo scambio di un discorso reciproco, corretto e civile. La nostra richiesta è un dollaro e mezzo per ogni container che si scarica. Anche perché là prendete 80, 85, 90 dollari a container. Quelle che chiediamo noi sono solo le briciole...».

    Il manager della società internazionale prende tempo, dice d’essere pronto a portare la questione in consiglio di amministrazione e l’uomo delle cosche precisa subito: «Io sono qui per tutti!». E annuncia:

    «Siamo in grado di intervenire sugli scioperi e su tutte le cose che potranno dare fastidio al lavoro. Noi possiamo risolvere tutti i problemi. Ve l’ho detto, quando preparano gli scioperi e quelle americanate lì, noi possiamo intervenire... Quello di cui avete bisogno, per quanto riguarda la Calabria, in tutti gli uffici possibili e immaginabili, noi siamo in grado di potervi aiutare, senza problemi. Non ve lo dico per vanto, ma state tranquillo, che in qualsiasi ufficio della Calabria, se per un documento ci vogliono dieci giorni, noi in due giorni lo possiamo prendere... Voi mi avvertite, mi dite siamo fermi per questa situazione... mi date nome di chi è e chi non è... e io mi metto in movimento... Snelliamo le procedure... Su questo potete dormire sonni tranquilli».

    È questo il sistema ’Ndrangheta...

    La mafia calabrese è una holding criminale che agisce su scala internazionale, condiziona le attività economiche di tre continenti e si muove attraverso consorterie diverse che innervano i territori. Le cosche, basate su rapporti familiari e rafforzate dal continuo incrociarsi di matrimoni tra esponenti di famiglie differenti, fanno capo a una sorta di sacro tempio originario che mantiene saldamente la sua sala d’adunanza e i suoi luoghi di culto in terra calabra. Nel tempio, alla stregua di sommi sacerdoti, degli ’ndranghetisti prescelti custodiscono le regole in nome di un organismo – la Provincia o il Crimine – chiamato a dirimere i conflitti, ordire strategie, aprire e chiudere i locali sparsi per il mondo. Fino all’inizio del terzo millennio, tra il Pollino e l’Aspromonte esisteva un solo Crimine, quello di San Luca, cui si è poi aggiunto – per iniziativa di Nicolino Grande Aracri, padrino di Cutro – quello crotonese, con mansioni di influenza e direzione sulla quasi totalità dell’area centro-settentrionale della Calabria, larga parte dell’Emilia Romagna e le città tedesche di Francoforte e Stoccarda.

    Di questa struttura sovraordinata di comando hanno parlato numerosi collaboratori di giustizia, tra i quali Giuseppe Giampà di Lamezia Terme, figlio del celebre boss Francesco Giampà inteso come il professore. Non solo: a riscontro dell’esistenza del secondo Crimine sono arrivate le illuminanti intercettazioni ambientali, eseguite dalle forze dell’ordine in una tavernetta collocata nell’abitazione di residenza di Grande Aracri a Cutro. I colloqui confermano il ruolo svolto dal capobastone, il quale disegna le strategie dei gruppi attivi nel vasto territorio caduto sotto la sua competenza, decide i nomi dei capi da insediare alla guida delle varie ’ndrine e stabilisce la misura dei guadagni che ciascuna cosca debba ricavare da ogni singolo affare. L’ipotesi che la mafia calabrese abbia una direzione strategica unitaria, seppur con compiti meno rigidi e variegati rispetto ad altre mafie italiane, è stata accolta e fatta propria dalla Corte di Cassazione che, con sentenza definitiva del 17 giugno del 2016, ha illuminato l’esistenza di una «struttura unitaria di comando» della ’Ndrangheta, in relazione a quanto era stato contestato dalla Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria alle decine di picciotti e boss imputati nel maxiprocesso Crimine.

    Occorre tuttavia precisare che la struttura individuata non può considerarsi sovrapponibile alla celeberrima cupola siciliana, nella quale Totò Riina e i corleonesi esercitavano un potere assoluto su tutte le cellule di Cosa Nostra operanti in Sicilia. Quella calabrese è un’organizzazione di comando meno rigida che modula i propri interventi in relazione al potere che ogni singola ’ndrina esercita da decenni autonomamente sul proprio territorio. Quella svolta dal Crimine o Provincia è una più blanda funzione di coordinamento, se confrontata all’omologo della struttura siciliana; funzione che si esplica nel rispetto di una tradizione che ha visto la ’Ndrangheta svilupparsi da sempre su base orizzontale e non verticistica. Potremmo parlare di un raggiunto e difficile equilibrio tra centralismo delle regole e dei rituali e decentramento delle ordinarie attività illecite.

    Ma cosa realmente rappresenti oggi la mafia calabrese nel panorama nazionale e internazionale lo scrive la Commissione bicamerale antimafia nella relazione finale consegnata al Parlamento nel febbraio del 2018. I commissari scrivono che la ’Ndrangheta si conferma come «l’organizzazione criminale più ricca, agguerrita e potente», con solide radici in Calabria, dove «esercita un asfissiante controllo del territorio e delle attività economiche e della pubblica amministrazione», ma con significative ramificazioni «in tutte le regioni del Paese, anche se con gradi di penetrazione differenti» e «un marcato profilo transnazionale».

    La capacità d’infiltrazione viene ancor meglio descritta nel passaggio della relazione nella quale i commissari affermano:

    «Il ricorso alla violenza e all’intimidazione tende a smorzarsi per lasciare il passo alla costruzione di legami di cointeressenza che coinvolgono imprese, pubblici funzionari, categorie professionali, politici e altri attori».

    E, più avanti:

    «Non c’è settore, dalle costruzioni al turismo, dal commercio alla ristorazione, dal gioco d’azzardo legale allo sport, in cui le imprese mafiose non abbiano investito».

    I boss calabresi s’interessano pure di interramento di rifiuti tossici, di riciclaggio internazionale, gestione dei Centri per l’accoglienza dei migranti, traffico di droghe pesanti e leggere, sanità pubblica e privata, commercio illegale di reperti archeologici e di opere d’arte, utilizzo di fondi europei, condizionamento di enti pubblici territoriali, oltre a sviluppare il loro nefasto potere anche attraverso le logge massoniche deviate.

    Nel 2016, la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, ha disposto l’accesso agli elenchi degli iscritti alle quattro maggiori Obbedienze italiane: dall’esame della documentazione è emersa più di una criticità. Gli elenchi ufficiali, secondo la Commissione, sono risultati incompleti e inattendibili e non hanno permesso di identificare un’alta percentuale (circa il 15%) di iscritti rimasti occultati grazie a generalità incomplete, inesistenti o nemmeno riportate. In più, molti fratelli di diverse logge sciolte sono risultati vicini o legati ai clan; si è rilevata infatti una presenza non trascurabile di iscritti alla massoneria all’interno di enti commissariati per mafia, quali comuni e aziende sanitarie locali, nonché di un numero non indifferente d’iscritti coinvolti in vicende processuali, in procedimenti di prevenzione, giudiziari o amministrativi, ivi compresi alcuni condannati in via definitiva per mafia.

    Le Massonerie regolari del nostro Paese, a dire il vero, hanno innalzato il grado di controllo esercitato sui loro associati e su quanti chiedono di aderire. È tuttavia particolarmente preoccupante il livello di contatti esistenti tra i malavitosi calabresi e gli esponenti della massoneria deviata. Al riguardo, la relazione della Commissione antimafia stigmatizza la «realizzazione, o il tentativo di realizzazione, dei programmi criminosi in un contesto riservato, chiuso a ogni interferenza statale che non può che agevolare i disegni mafiosi che rimangono sottotraccia».

    Quanto invece la ’Ndrangheta abbia condizionato, e condizioni la politica, è un dato che emerge dall’enorme numero di comuni sciolti per infiltrazioni mafiose negli ultimi venti anni in Calabria e non solo. Alle amministrazioni di Leinì, in Piemonte, e di Brescello, in Emilia Romagna (i casi più recenti nel settentrione d’Italia), devono aggiungersi le cinque sciolte, tutte in un solo giorno, tra il Pollino e l’Aspromonte, il 22 novembre del 2017.

    In un colpo solo il Consiglio dei ministri, su proposta di Marco Minniti, ha sciolto per mafia Lamezia Terme, Isola Capo Rizzuto, Cassano Jonio, Marina di Gioiosa Jonica e Petronà, che si sono aggiunti agli altri sette comuni già commissariati nel medesimo anno solare. Il 26 aprile del 2018 è toccato invece ai municipi di Limbadi e Platì; l’8 maggio a quelli di San Gregorio d’Ippona e Briatico. Nei complessivi sedici enti pubblici territoriali, secondo il Viminale, sono stati accertati «gravi condizionamenti da parte della criminalità organizzata con pesanti ripercussioni sulle attività espletate». La tesi del Viminale sembra essere confermata anche da numerosi pronunciamenti giudiziari che hanno riguardato altri comuni calabresi: il 5 maggio del 2018, per esempio, è diventata definitiva la condanna a 12 anni di reclusione inflitta all’ex sindaco di Siderno, Alessandro Figliomeni, arrestato nel 2010 perché ritenuto «partecipe attivo» della ’ndrina operante nella cittadina dell’area ionica del Reggino.

    La sanità

    La Calabria vanta un altro primato: è la regione con il maggior numero di Asl-Asp sciolte per infiltrazioni mafiose. Le cosche hanno allungato la loro nera mano, sin dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, anche sulla sanità. I boss hanno infatti intuito quanto importante e redditizio fosse – sia dal punto di vista economico che del consenso sociale – condizionare le attività delle strutture sanitarie pubbliche e private.

    Il modello applicativo della strategia di’infiltrazione criminale è stato sperimentato nella Piana di Gioia Tauro, nella Locride, a Reggio Calabria e a Melito Porto Salvo, ove era già forte la capacità delle consorterie di influenzare il ceto politico locale e le scelte delle amministrazioni comunali. Sulle sgangherate USL (Unità Sanitarie Locali), create per garantire ai partiti della Prima Repubblica mangiatoie di sottogoverno, i mammasantissima hanno esercitato un potere quasi assoluto, creato a suon di pistolettate e minacce. Un potere che ha costretto i responsabili di uffici e servizi e i componenti dei comitati di gestione a favorire aziende di riferimento dei padrini, ad accreditare laboratori e cliniche di amici degli amici, a cedere appalti e forniture di mense e pulizie negli ospedali a ditte di compari in cerca d’improbabili fortune imprenditoriali. In taluni casi, come ha avuto poi modo di scoprire la magistratura inquirente, la sede della Usl di Gioia Tauro era addirittura collocata in immobili di proprietà di una delle famiglie, quella dei Piromalli, di antico lignaggio mafioso. Non solo: sempre a Gioia Tauro, gli ’ndranghetisti, contando sull’appoggio di professionisti insospettabili e grazie alla costituzione di società ad hoc, avevano persino aperto studi diagnostici e radiologici convenzionati con la USL. Studi dotati di macchinari modernissimi – acquistati con i lauti proventi di estorsioni e del traffico di stupefacenti – pronti ad accogliere le migliaia di utenti che, stranamente, trovavano invece sempre rotti o malfunzionanti ecografi, tac e macchine radiologiche di cui erano dotati i nosocomi e gli ambulatori pubblici. Tanti sono stati pure i picciotti assunti dalle Usl per ordine dei capibastone perché potessero godere di un posto sicuro da sbandierare a sbirri e magistrati in caso di retate.

    Le prime a essere sciolte, nel 1987, sono state le Unità Sanitarie Locali di Taurianova e Locri con un decreto del Presidente della Repubblica su proposta del ministro dell’Interno dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro. Nella relazione ministeriale erano descritti e censurati i desolanti metodi utilizzati per amministrare strutture e ospedali. L’onta dello scioglimento investirà la sanità pubblica locrese ancora un’altra volta, dopo il 1987, quando la commissione d’accesso presieduta dal prefetto Paola Basilone accerterà, venti anni più tardi, situazioni di condizionamento mafioso altrettanto gravi.

    Gli accertamenti verranno disposti dopo l’assassinio del vicepresidente del consiglio regionale calabrese Francesco Fortugno, avvenuto nell’ottobre del 2005 davanti al seggio per le primarie dell’Ulivo allestito nel centro di Locri. L’uomo politico, come la moglie Maria Grazia Laganà, poi divenuta parlamentare del Pd, svolgeva le mansioni di medico presso i nosocomi della zona. La Commissione Basilone rileverà – solo per fare un esempio – che la pulizia dei presidi ospedalieri della città di Zaleuco e di Siderno è affidata a una cooperativa che conta tra i suoi dipendenti «23 persone legate da vincolo di parentela diretto, perché figli o addirittura coniugi, con appartenenti di primo piano delle organizzazioni mafiose locali». Insomma, dopo ben quattro lustri, in riva al mar Ionio nulla sembra essere cambiato.

    Per infiltrazioni mafiose sono state inoltre sciolte le due Aziende sanitarie provinciali di Reggio e di Vibo Valentia. La prima è stata commissariata nel 2008, la seconda nel 2010. In entrambi i casi sono state rilevate anomalie nell’espletamento delle gare di appalto ed è stata segnalata la presenza di elementi sospetti, sia tra il personale in servizio nelle due strutture che tra i dipendenti di alcune ditte appaltatrici.

    I manager calibro 9

    Affari, affari e affari... I boss di oggi sono azzimati, parlano in perfetto italiano, usano l’iPod, comunicano con smartphone di ultima generazione e rivolgono lo sguardo ai mercati mondiali, dopo aver conquistato e saccheggiato l’Italia. Non c’è azienda in Piemonte, Lombardia, Liguria, Umbria, Toscana, Lazio, Emilia Romagna e Veneto, che non abbia sperimentato la diabolica capacità dei boss calabresi di alterare e condizionare il mercato e la libera concorrenza, d’infiltrarsi nella politica, d’impadronirsi di imprese in difficoltà economica con l’ausilio di capitali freschi, così come di scalare perfino i vertici di banche e istituti di credito. Fatto scempio della penisola, le consorterie hanno scatenato la loro campagna di colonizzazione dell’Europa, investendo in immobili e attività commerciali nell’Est europeo, in Olanda, Belgio e Spagna, ripetendo l’offensiva scattata già negli anni ’70 in Germania, Francia del Sud, Australia e Canada.

    Quella della seconda metà del Novecento fu un’azione espansiva avviata sfruttando in maniera deviata il fenomeno dell’emigrazione, mentre quella dei nostri giorni si compie attraverso gli strumenti della globalizzazione. Basta un clic sulla tastiera di un computer per contattare partner commerciali, avviare collaborazioni, stabilire patti finanziari e investimenti. Operazioni poi perfezionate attraverso società costituite ad hoc nei paradisi fiscali tramite la complicità di manager prezzolati, personaggi pronti a imbarcarsi sul primo aereo per firmare contratti, assegnare quote e valutare dividendi.

    Il Vecchio continente s’è accorto dei picciotti partiti dalla Locride o dalla Piana di Gioia Tauro, dal Vibonese o dal Crotonese, dal Cetrarese o dalla Sibaritide, solo dopo la strage di Duisburg, nel 2007, quando i vendicatori di San Luca saldarono i loro conti facendo sei vittime davanti a una pizzeria ch’era appena stata sede di un rito di affiliazione. La parola faida, che richiama gli ancestrali metodi della giustizia privata e un «potere millenario – scriveva l’intellettuale Corrado Alvaro – che irride tutti gli altri poteri» occupò, in quell’occasione, improvvisamente le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. La comunità internazionale inorridì e prese finalmente consapevolezza dell’esistenza di un’entità criminale che opera attraverso cellule diffuse nelle aree più ricche del pianeta. Un’entità forte di peculiarità che perfino gli analisti delle intelligence abituate a combattere il terrorismo islamista non riescono, tutt’oggi, facilmente a decriptare.

    La ’Ndrangheta non ha più un profilo unico e riconoscibile: non ci sono malavitosi con la coppola e la lupara, ma mafiosi giovani e rampanti, ben istruiti e ricchi, astuti e imprevedibili che, se al mattino parlano in inglese e francese, alla sera usano il dialetto della terra d’origine mentre pasteggiano con i compari con cui hanno fatto fortuna.

    I nuovi boss si richiamano alle simbologie d’una tradizione inventata legata alla Garduna spagnola, un’organizzazione criminale probabilmente mai esistita. Una simbologia utilizzata dalla mafia calabrese per indicare le gerarchie e i ruoli degli appartenenti alle singole cosche, per strumentalizzare la religione cattolica e le manifestazioni di devozione popolare, per infliggere dure punizioni a quanti sbagliano, per costituire la bacinella (cassa comune della consorteria) e uniformare le procedure di arruolamento degli adepti. I padrini moderni esercitano ancora saldamente il controllo del mondo rurale e fondiario, proprio come facevano i loro avi alla fine dell’Ottocento. Allo stesso modo, sono in grado facilmente di cambiare pelle, di organizzare la commercializzazione della cocaina, d’infiltrarsi nei lavori delle grandi opere pubbliche – come, ad esempio, l’ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, la realizzazione di Expo 2015 a Milano, la ricostruzione de L’Aquila dopo il terremoto, gli interventi di riqualificazione dopo il sisma in Emilia Romagna – di flirtare con la politica, riciclare montagne di denaro, stringere accordi con le mafie sudamericane, russe, balcaniche e orientali: sono insomma mentalità imprenditoriali che operano per creare holding planetarie.

    A causa di questo profilo, il governo degli Stati Uniti già dal 2008 ha inserito la ’Ndrangheta nella black list che comprende le organizzazioni più pericolose della Terra impegnate nel narcotraffico. La RMCP canadese, l’FBI e la DEA americane, l’AFP australiana, la Polizia federale colombiana, la Bundeskriminalamt tedesca, la FSB russa, la Guardia civil spagnola ritengono infatti all’unisono la mafia calabrese una silente minaccia. Essa è capace di agire come una credibile multinazionale e, al contempo, è in grado di mettere in campo la potenza militare che è propria delle più agguerrite formazioni terroristiche.

    Le indagini degli ultimi anni hanno dimostrato come essa disponga di arsenali dotati di armi anticarro (bazooka e lanciagranate), esplosivo micidiale al plastico e T4, fucili mitragliatori d’ultima generazione, pistole generalmente in dotazione ai servizi di sicurezza dei Paesi più avanzati.

    Il cambiamento

    Quando è avvenuta la trasformazione di questa mostruosa

    creatura da mafia meridionale in spectre del crimine transnazionale? Mamma ’Ndrangheta cambiò volto nel 1975 quando, a Siderno, venne assassinato Antonio Macrì, il boss dei due mondi. Lui e il compare di malefatte Mico Tripodo – ucciso pochi mesi dopo nel carcere di Poggioreale da due killer di Raffaele Cutolo, capo della Nuova camorra organizzata – bloccavano la modernizzazione di ’ndrine e locali, strutture mafiose responsabili d’un intera porzione di territorio.

    Una modernizzazione che reclamavano Paolo De Stefano da Reggio, Antonio Pelle da San Luca, Natale Iamonte da Melito Porto Salvo, Giuseppe Morabito da Africo e Girolamo Piromalli da Gioia Tauro, sin da quando erano arrivati i soldi per la costruzione della autostrada A3, il raddoppio del binario ferroviario tirrenico e poi, con l’approvazione del Pacchetto Colombo, per la realizzazione del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro (poi stornati per la strutturazione del porto) e della Liquichimica di Saline Ioniche. I tempi di Domenico Maisano, Angelo Macrì e Giuseppe Barca, azionisti spietati e romantici, autentiche icone della vecchia ’Ndrangheta, apparivano ormai definitivamente tramontati.

    Dopo il fallimento del summit di Montalto, presieduto nel 1969 da Peppe Zappia di San Martino di Taurianova, le cosche cominciarono infatti a sperimentare spericolati scenari alleandosi con la destra eversiva in occasione della rivolta di Reggio Calabria e dichiarandosi pronte persino a partecipare (fornendo 1500 uomini) al colpo di stato ideato dal principe Junio Valerio Borghese per sovvertire, nel dicembre del 1970, l’ordine democratico in Italia. Contavano, così, di ottenere dal nuovo regime favori giudiziari e lo spazio per incrementare le proprie possibilità di manovra.

    Andato però a monte il golpe e finiti i moti in riva allo Stretto di Messina, i padrini più scaltri decisero di venire a patti con i partiti di governo e con la sola organizzazione capace di fare da filtro e collante tra il potere e le mafie: la massoneria deviata. I capibastone crearono un grado gerarchico – la Santa – che consentiva loro di aderire a una organizzazione (la Massoneria) che non fosse solo la ’Ndrangheta; così presero a maneggiare compassi e cappucci come prima facevano con pistole e fucili. Macrì e Tripodo, che non avrebbero mai avallato la logica della doppia appartenenza, furono pertanto cancellati dalla scena con il piombo. La scalata al potere economico e politico sarà una corsa senza fine in tutto il Paese.

    Accumulati capitali con i sequestri di persona (si pensi ai rapimenti di Paul Getty jr., Cesare Casella, Carlo Celadon, Roberta Ghidini) e le estorsioni condotte su larga scala, le cosche investiranno in droga diventando, in pochi anni, le padrone del mercato mondiale della cocaina. Contemporaneamente guadagneranno spazi sempre maggiori nei subappalti delle imponenti opere pubbliche realizzate al Sud come al Nord.

    Nel Lazio, a Roma, Latina e Fondi, investiranno molti soldi per acquistare immensi e lussuosi immobili riuscendo persino a impossessarsi di locali importanti, a Roma, come il Caffè de Paris in via Veneto o il Caffè Chigi nel cuore pulsante dell’Italia politica e parlamentare. Lo stile tenuto sarà sempre quello dell’immersione, tanto caro successivamente in Sicilia a Bernardo Provenzano.

    In Calabria cadranno solo due magistrati: Francesco Ferlaino, avvocato generale dello Stato di Catanzaro, ammazzato nel luglio del 1975 a Lamezia Terme, e Nino Scopelliti, sostituto procuratore generale in Cassazione, ucciso a pochi passi da Villa San Giovanni nell’agosto del 1991. La loro morte rimarrà impunita.

    Un altro magistrato, Bruno Caccia, procuratore di Torino, sarà ammazzato nel giugno del 1983 in Piemonte perché ostacola gli interessi dei mafiosi calabresi. Due, invece, sono i politici particolarmente in vista assassinati in tempi differenti e per ragioni diverse: Vico Ligato, ex potente presidente democristiano delle Ferrovie statali, eliminato a Bocale (Reggio Calabria) nel 1989, e il già citato Francesco Fortugno, vicepresidente in quota Pd del Consiglio regionale calabrese. Ligato pagherà il desiderio di rimettere il naso, dopo l’esperienza romana, negli affari di Reggio; Fortugno, invece, pagherà la colpa di essersi posto come ostacolo alle mire d’una frangia criminale locrese particolarmente interessata a drenare soldi dalle casse regionali.

    In questo contesto di famelica e moderna managerialità non mancheranno, tuttavia, tra gli anni ’90 e il terzo millennio, le faide e le stragi: fenomeni fisiologici della ’Ndrangheta che testimoniano l’uso, da parte di boss e picciotti, della violenza belluina per continuare a imporsi nei territori d’origine.

    Tre i fatti di sangue (fatta eccezione per Duisburg) che hanno particolarmente colpito l’opinione pubblica internazionale. Il primo risalente al maggio del 1991 quando, a Taurianova, due commercianti vengono uccisi davanti a un supermercato per vendicare la morte del mammasantissima locale Rocco Zagari. I killer infieriscono sul cadavere di una delle vittime, tagliando la testa, lanciandola in aria e facendo poi un macabro tiro al bersaglio. Il secondo evento si verifica a San Lorenzo del Vallo, nel 2011, quando due donne, madre e figlia, finiscono sotto il tiro dei sicari che irrompono nell’appartamento dove le due vivono e le massacrano a colpi di fucile e mitraglietta. La più giovane delle vittime viene inseguita fin sul balcone dell’abitazione e rimane con mezzo corpo penzolante nel vuoto e lo sguardo sbarrato, sino all’arrivo dei carabinieri. L’unico superstite della mattanza, un giovane appena ventenne ferito dagli attentatori e fintosi morto per sfuggire al colpo di grazia, l’anno dopo deciderà di collaborare con la procura antimafia di Catanzaro riconoscendo e facendo arrestare i presunti assassini della madre e della sorella. I sicari agiscono per vendicare la morte di Domenico Presta, figlio del boss Franco, ucciso un mese prima da un parente delle due donne al termine di un litigio.

    Il terzo fatto di sangue è l’omicidio di un bambino di tre anni, Cocò Campolongo, assassinato a Cassano e poi dato alle fiamme insieme al nonno, Giuseppe Iannicelli, e a una donna marocchina amica di quest’ultimo. La vicenda, che risale al 16 gennaio 2014, susciterà la reazione persino di Papa Francesco, che non solo condannerà duramente l’evento brutale la settimana successiva, durante l’Angelus pronunciato in piazza San Pietro, ma deciderà pure di visitare la diocesi di Cassano. Giunto, nel giugno 2014, nella città in cui viveva il bimbo ucciso, il Pontefice, per la prima volta nella storia della Chiesa cattolica, scomunicherà con veemenza gli ’ndranghetisti. Per effetto della posizione assunta dal Papa e dopo l’inchino fatto dalla statua della Madonna davanti alla casa del boss di Oppido Mamertina Giuseppe Mazzagatti, il vescovo della diocesi di Palmi, Giuseppe Milito, rilevando l’infiltrazione dei mafiosi nelle manifestazioni religiose, vieterà per due anni la celebrazione delle processioni in tutta l’area.

    Tutti i vescovi della regione decideranno, infine, di vietare donazioni di denaro in occasione di processioni e feste dedicate ai santi e alla Madonna, imponendo che il trasporto delle statue durante le celebrazioni venga assicurato da persone che non abbiano alcun precedente penale o conti in sospeso con la giustizia.

    L’autorità parallela

    La ’Ndrangheta riesce a condensare in sé due identità: è dunque antica e al tempo stesso moderna, capace di fare grandi speculazioni e organizzare immensi traffici pur rimanendo sempre una bestia feroce e spietata. Una bestia assetata di sangue e denaro che viene ormai riconosciuta in tutto il nostro Paese come una autorità parallela allo Stato, in grado di garantire servizi, appoggi istituzionali e fornire capitali, come dimostrano le inchieste condotte negli ultimi anni dalle Direzioni Distrettuali Antimafia di Torino e Milano.

    In Piemonte, boss di origini calabresi vengono scoperti in affari con imprenditori e politici, e sorpresi a condizionare pesantemente le elezioni sia locali che nazionali. Uno di loro tenta persino di mettere il becco nelle primarie del centrosinistra che si concluderanno con la designazione e la successiva elezione a sindaco di Torino di Piero Fassino. Altri picciotti, invece, eserciteranno così tanta ingerenza nelle vicende amministrative del comune di Leinì (gestito per lungo tempo dall’ex sindaco di centrodestra Nevio Coral) che questo ne determinerà lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Pochi mesi dopo, stessa sorte toccherà a Rivarolo Canavese, dove il segretario comunale sarà accusato di voto di scambio, in combutta con un imprenditore, per aver promesso 20.000 euro al capo della ’Ndrangheta locale in cambio dell’appoggio elettorale dei calabresi al sindaco di centrodestra della cittadina, in occasione delle elezione Europee del 2009.

    In Lombardia sarà ancora peggio. La magistratura scoprirà, infatti, che le cosche della ’Ndrangheta hanno chiesto 200.000 euro a Domenico Zambetti, candidato alle elezioni regionali, in cambio di 4.000 voti. Tutte le fasi della singolare trattativa saranno seguite in diretta dagli investigatori grazie a intercettazioni telefoniche e microspie. Il politico, ottenuta l’elezione, verrà nominato assessore nella giunta guidata da Roberto Formigoni. Zambetti, così come i suoi referenti nella ’Ndrangheta, Eugenio Costantino di Cosenza e Pino D’Agostino di Rende, finiranno in manette e infine condannati. Altre inchieste consentiranno poi di appurare che la mafia calabrese garantisce pure il servizio d’ordine in dieci discoteche del Milanese e assicura a imprenditori che ne fanno richiesta il recupero dei crediti rimasti inevasi.

    Un’immagine plastica di quanto ormai accade in tutto il settentrione del Paese ce la restituisce un filmato di enorme interesse storico-investigativo, girato dai carabinieri all’interno di un circolo ricreativo di Paderno Dugnano. Tutti i rappresentanti delle consorterie mafiose operanti in terra lombarda vi sono infatti ripresi intorno a un tavolo mentre si apprestano ad eleggere il loro capo. Sembra la scena d’un film di Francis Ford Coppola o Martin Scorsese ma è la cruda realtà.

    Nessuna ’ndrina costituita fuori dalla Calabria gode tuttavia di una sua vera autonomia. È sempre l’organizzazione madre della terra d’origine a sancire la credibilità d’ogni sodalizio creato in zone lontane. Lo spiega Antonio Belnome, boss in ascesa in terra padana e assassino di Carmelo Novella, il padrino che stava creando la Lombardia, un crimine completamente indipendente da San Luca e dagli altri santuari della ’Ndrangheta.

    «Pur mantenendo un’autonomia operativa» dice Belnome «ogni Locale è forte se ha le sue radici in Calabria. Chi non ha

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