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Noi siamo il buio: Nel ventre di Napoli
Noi siamo il buio: Nel ventre di Napoli
Noi siamo il buio: Nel ventre di Napoli
E-book380 pagine4 ore

Noi siamo il buio: Nel ventre di Napoli

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Info su questo ebook

Francesco Dommarco è un ragazzo come tanti altri. Una notte all’uscita di un locale di Napoli, lui e i suoi amici disturbano un senzatetto. Non sanno che hanno scelto l’uomo sbagliato… Un mondo che brulica sotto i nostri piedi, pochi metri sotto il Maschio Angioino o Piazza del Plebiscito. È il sottosuolo di Napoli, stratificato, nascosto, a più livelli, che arriva addirittura a quaranta metri di profondità. Laggiù il tempo si paralizza, non si conoscono le stagioni, non c’è mai differenza di temperatura. È il luogo dove tutte le aspirazioni dell’uomo vengono alimentate da uno strana forza. Dove un ragazzo dovrà lottare con tutto il suo coraggio per salvare una bambina, con il solo aiuto di un vecchio professore che con il mondo di sopra ha chiuso. È il luogo dove il popolo dei reietti si nasconde, dove vive e dove crea le proprie regole. Abbiate paura degli abitanti del mondo di sotto. Stanno venendo su.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2018
ISBN9788868103576
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    Anteprima del libro

    Noi siamo il buio - Stefano Cordoni

    Stefano Cordoni

    NOI SIAMO IL BUIO

    Nel ventre di Napoli

    Prima Edizione Ebook 2018 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868103576

    Copertina

    Progetto grafico

    Massimo Casarini e Fabio Mundadori

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena

    http://www.damster.it  e-mail: damster@damster.it

    Stefano Cordoni

    NOI SIAMO IL BUIO

    Nel ventre di Napoli

    Romanzo

    INDICE

    PROLOGO

    1.

    2.

    3.

    4.

    5.

    6.

    7.

    8.

    9.

    10.

    11.

    12.

    13.

    14.

    15.

    16.

    17.

    18.

    19.

    20.

    21.

    22.

    23.

    24.

    25.

    26.

    27.

    28.

    29.

    30.

    31.

    32.

    33.

    34.

    35.

    36.

    37.

    38.

    39.

    40.

    41.

    42.

    43.

    44.

    45.

    46.

    47.

    48.

    49.

    50.

    51.

    52.

    53.

    54.

    55.

    56.

    57.

    58.

    59.

    60.

    61.

    62.

    63.

    64.

    65.

    66.

    67.

    68.

    69.

    70.

    71.

    72.

    73.

    74.

    FINE?

    Ringraziamenti

    NOTE

    L’autore

    COMMA21 la collana

    E quando noi verremo su…

    (Alberto Radius: Coccodrilli bianchi)

    Tutte le decadenze in tutti i luoghi e in tutti i tempi

    sono contrassegnate dai medesimi fenomeni:

    le accresciute distanze sociali fra un numero sempre più piccolo di privilegiati e una massa sempre più grande di derelitti,

    l’affievolimento di ogni vincolo di solidarietà

    e la totale indifferenza di tutti agl’interessi della comunità.

    (Montanelli/Gervaso: L’Italia dei secoli bui)

    PROLOGO

    Lauretta rise in maniera chiassosa, come fanno le ragazzine di dodici anni quando sono in pubblico insieme alle amiche. Si trovava nel cortile della scuola insieme alla sua migliore amica Betti.

    Lauretta avrebbe voluto essere come Betti, che aveva dodici anni e mezzo ma ne dimostrava almeno quindici, con una cascata di capelli biondi curati e vaporosi e le prime eyeliners a incorniciarle gli occhi azzurri.

    Lauretta invece era magra e minuta. Fino al giorno prima i capelli castani lunghi le scendevano fino a metà schiena, ma si era stufata di doverli asciugare per un’ora tutte le volte che faceva la doccia e così aveva preso una decisione radicale. Era andata con la mamma dal suo parrucchiere francese, il quale le aveva proposto un taglio a caschetto con le punte davanti più lunghe. E quella mattina si era presentata a scuola con il nuovo look: scarpe da tennis bianche e rosa, leggins grigio chiaro e t-shirt ma, soprattutto, capelli corti.

    Betti le aveva fatto un sacco di complimenti per tutta la mattina e adesso, mentre uscivano dal cortile della scuola, parlava a raffica come solo lei sapeva fare.

    – ...allora io gli ho detto di non rivolgermi mai più la parola. Mai più! Se preferisce le oche senza cervello, be’, allora vada dietro a quelle...

    – Hai fatto bene!

    – Vero?

    – Ma non è che magari era solo un’amica?

    Betti finse di indignarsi. – Un’amica? Ma sei nata ieri? Tra maschi e femmine l’amicizia non può esistere!

    – E perché? Io per esempio di Marco sono amica.

    – Ah, ecco! Vedi, forse tu sei sua amica, ma lui? I maschi fanno solo finta, ma sotto sotto...

    Lauretta si grattò la testa, riflettendo su questa affermazione. Decise che avrebbe osservato con più attenzione Marco per vedere se sotto sotto avesse altre intenzioni. Non che le piacesse particolarmente, ma doveva capire meglio.

    In quel momento sentì una spinta sulla spalla destra che quasi la fece cadere.

    – Ehi! – gridò Betti.

    – Ehm, scusa... – mormorò il ragazzetto della seconda C, arrossendo e tornando velocemente verso i compagni che ridevano sguaiatamente.

    – Cretini! – urlò Betti prendendo Lauretta per un braccio e allontanandola dai maschi. Lauretta si voltò per vedere il ragazzo, che se la stava prendendo scherzosamente con i compagni che lo avevano spintonato apposta verso di loro.

    – Lauretta! Girati, non dargli corda! – sussurrò Betti.

    Accelerarono il passo con espressione indignata. Lauretta si voltò e con la coda dell’occhio notò che il ragazzo della seconda C le stava ancora guardando.

    – Ti ho detto di ignorarli, Lauretta! – le disse Betti stringendole la spalla. Dopo un po’ risero entrambe e Betti si avvicinò all’orecchio dell’amica.

    – Ehi, hai visto? Piaci a quello della seconda C, com’è che si chiama...

    Lauretta spalancò gli occhioni neri. – Io? Guarda che lo spingevano verso di te!

    – Ma cosa dici, per me è troppo ragazzino! Te lo dico io che gli piaci tu. Secondo me è tutto merito di questo nuovo taglio! – rise Betti scompigliando il caschetto all’amica.

    Le due ragazze si erano ormai allontanate dalla scuola. Lauretta e Betti abitavano vicine, e facevano quasi tutto il tragitto da scuola a casa insieme. Attraversarono l’incrocio e costeggiarono i muri diroccati della vecchia fabbrica di cioccolato.

    – Mia madre ha detto che al posto della fabbrica ci faranno una scuola di danza.

    – Già, e sembra anche una scuola di musical.

    – Ehi Lauretta, ci iscriviamo? Io voglio fare il musical!

    – Anch’io, anch’io!

    – All’inaugurazione voglio essere in prima fila.

    Betti diede un’occhiata al cancello arrugginito e alle erbacce che crescevano tra le crepe dell’asfalto, immaginando l’entrata della scuola di musical. Poco oltre c’erano tre cassonetti della spazzatura e una pila di vecchie scatole di cartone accatastate.

    – Speriamo che si sbrighino! Così almeno sistemeranno tutta questa robaccia...

    – Già, che schifo...

    Lauretta si fermò improvvisamente dandosi una pacca sulla fronte con il palmo della mano.

    – Accidenti! Vuoi vedere che ho dimenticato il libro di storia sotto il banco?!? – Si sfilò lo zaino dalle spalle e lo appoggiò a terra. – Aspetta, fammi controllare!

    In quel momento a Betti squillò il cellulare.

    – Ah, sei tu? Non ti avevo detto di non chiamarmi più?

    Mentre Lauretta rovistava nello zaino, Betti le diede un’occhiata d’intesa. – È lui! – sussurrò. Superò i cassonetti, parlando e gesticolando ostentatamente, poi si allontanò fino a svoltare a destra, oltre il muro di cinta della fabbrica.

    – No, ti ho detto che non ci sto più con te, figuriamoci, dopo quello che mi hai fatto. – Betti andava avanti e indietro con il cellulare all’orecchio. – E proprio quella smorfiosetta senza cervello, poi! Scusa ma credevo avessi più buon gusto... Guarda non ho più voglia di parlarti, devo andare a casa. E allora adesso ascolta con attenzione quello che ti dico... – afferrò il cellulare saldamente con entrambe le mani e lo portò davanti alla bocca prendendo un respiro. – AD – DI – O!!!

    Chiuse il cellulare fissandolo per qualche secondo finché un sorriso si allargò gradualmente sul suo viso.

    – Ehi, Lauretta, adesso l’ho fatto proprio morire – ridacchiò.

    Si voltò, ma Lauretta era rimasta dietro l’angolo. Tornò sui suoi passi.

    – Ehi Lauretta, allora, l’hai trovato il libro di storia? – Betti si avvicinò all’angolo. – Lauretta? Devi tornare a scuola a prenderlo?

    Costeggiò il muro della vecchia fabbrica fino all’incrocio.

    – Lauretta?

    Betti si guardò intorno. Lo zaino aperto per terra, sul marciapiede, vicino ai cassonetti e ai cartoni abbandonati, esattamente nel punto in cui lo aveva lasciato Lauretta.

    Fece qualche passo avanti poi si voltò indietro. – Lauretta?... – sussurrò.

    Ma Lauretta non c’era più.

    Tre mesi dopo circa...

    1.

    Checco uscì dal locale. Una zaffata di aria calda e umida lo investì, il ragazzo storse la bocca in una smorfia d’insofferenza. Avrebbero dovuto dare il premio Nobel a chi aveva inventato l’aria condizionata. Si mise le mani in tasca e si guardò intorno. Agosto in città era palloso, non c’era nessuno in giro e faceva un caldo della madonna. Dietro di lui si aprì la porta del locale e persino da lì sentì lo sbuffo dell’aria condizionata, come una pentola a cui si alza il coperchio. I suoi due amici, Rusty Palla da biliardo e Milza, uscirono ridendo dal locale.

    – Che merda di posto!

    – Neanche una fica degna di questo nome!

    – Quelle buone sono tutte al mare a mostrare il culo e le tette…

    Rusty si lisciò il capo completamene glabro, come faceva sempre, e diede una pacca sulla spalla a Checco.

    – Allora Checco, ce la facciamo una paglia?

    Checco assorbì il colpo alla spalla e fece un mezzo sorriso.

    – Certo.

    Tirò fuori dalla tasca dei jeans un pacchetto di ultra-sottili, aprì il coperchio con il pollice e porse le sigarette agli altri dando un leggero picchiettio sul fondo della scatola.

    Rusty ne prese due, ne mise una dietro l’orecchio e guardò con attenzione l’altra sigaretta come se non ne avesse mai viste prima. L’inumidì con la lingua e l’accese. Checco non aveva ancora capito se quel gesto di inumidire la sigaretta servisse veramente a qualcosa o voleva solo far scena. Porse poi il pacchetto a Milza, che però declinò.

    – Bah, che serata di merda…

    Camminavano tutti e tre con le mani nelle tasche dei jeans, che lasciavano intravedere l’elastico degli slip. Checco indossava una t-shirt nera con il nome di un gruppo rock, Milza una polo chiara e Rusty una maglia di acrilico attillata che evidenziava i muscoli pompati in palestra. I nervi e i muscoli guizzavano sul suo corpo asciutto, dando l’impressione di una forza pericolosa.

    – Ho sentito dire che in quel posto nuovo, il Red Devil, ci sono delle cinesi che fanno dei giochetti...

    – Già, è vero, l’ho sentito anch’io – disse Checco.

    Rusty Palla da biliardo espirò il fumo reclinando la testa verso l’alto.

    – Be’ potremmo andarci, no?

    Checco annuì.

    – Però saranno rimaste solo le vecchie baldracche. Con questo caldo chi può è scappato via…

    – Mmmh, sono cinesi, queste lavorano sempre…

    – Se volete vi ci porto, però io non ho un euro – propose Rusty.

    Checco si asciugò il collo dal sudore. Era passata già da un pezzo la mezzanotte, ma l’umidità era terribile. Era un’estate maledettamente afosa e non sembrava avere alcuna intenzione di allentare la presa sulla città.

    Pensò alla sua famiglia, al mare. Probabilmente sua sorella in quel momento si trovava sulla terrazza del Caprice a mangiare una granita al limone insieme alle amiche. Magari c’era anche Anna tra loro, così dolce e riservata. Provò un moto d’invidia. Maledizione, con una piccola dose di orgoglio in meno sarebbe potuto andare anche lui con i genitori e non sarebbe stato costretto a mangiare scatolette e surgelati per due settimane.

    – Io mi sono rotto, torno a casa – disse improvvisamente Rusty.

    – C’è tuo padre?

    – Non lo so, ultimamente lo vedo pochissimo. Tanto meglio.

    Checco sapeva che la madre di Rusty era morta e il padre era un uomo violento. Quando ancora Rusty frequentava la scuola, nonostante i professori lo avessero convocato più volte per parlare del comportamento del figlio, non si era mai fatto vedere. Neanche una volta.

    – Beato te. Io appena compio diciott’anni, sciò, sparisco da casa, mi volatilizzo… – commentò Milza.

    – E dove vai?– chiese Checco.

    – Ah, mi prendo una camera da qualche parte, e faccio quello che mi pare.

    – E i soldi?

    – Mi cerco un qualche lavoretto per tirar su qualcosa e poi bum bum bum, ogni sera me ne trombo una diversa.

    – Sì ciao, giusto Susi ‘a Chiattona…

    – Macchè, manco ‘a Chiattona ci sta con Milza!

    – Che stronzi…

    Ridacchiarono insieme e Rusty, scherzando, affibbiò a Milza uno scappellotto piuttosto forte sulla nuca.

    – Be’, io sono arrivato – fece Checco, davanti all’ingresso di casa.

    – Che ti ritiri a fare? Dai, accompagnaci un pezzo – disse Milza.

    – A meno che tu non debba studiare, nel qual caso… – lo schernì Rusty.

    In effetti Checco era rimasto in città a causa dello studio. Da quando frequentava Rusty, Milza e qualcun altro della gang, il suo rendimento scolastico era rapidamente scemato. I genitori non ci avevano fatto troppo caso, il padre preso com’era dalla sua carriera politica e la madre impegnata tutto il giorno ad accondiscendere il marito.

    Quando avevano scoperto che sarebbe stato bocciato, per loro era stato uno shock. Il padre era andato su tutte le furie mentre la madre si chiedeva alzando gli occhi al cielo in cosa avessero sbagliato. L’unica che stava dalla sua parte era la sorella. L’aria si era fatta pesante e al momento di partire per le vacanze il padre aveva fatto pesanti commenti sul fatto che il suo rendimento scolastico lo metteva in imbarazzo in un momento così importante della sua carriera. Che si vergognava di lui e che dopo una bocciatura così non si meritava di andare in villeggiatura. – E allora non vengo, andateci voi in vacanza! – aveva risposto Checco.

    Era successo un casino, ma lui non aveva voluto cedere e si era impuntato.

    Sarebbe rimasto a casa da solo.

    All’inizio provò una specie di euforia. Il pensiero che avrebbe potuto portarsi in casa tutte le ragazze che voleva, organizzare serate con gli amici e fare un sacco di feste era molto stuzzicante, ma sinora le cose erano andate per il verso sbagliato. Le sue amiche erano tutte via e dei suoi amici non era rimasto in città quasi nessuno, per cui la sera si trovava spesso da solo.

    Per fortuna c’erano Rusty e Milza.

    Checco non raccolse la battutina di Rusty. Rusty aveva frequentato la stessa scuola di Milza e Checco ma era di qualche anno più grande. Era stato bocciato due volte e dall’anno prima aveva cominciato a lavorare in una ditta di impalcature, insieme al padre. Checco sapeva che arrotondava vendendo marijuana fuori dalla scuola ma non gli importava. Rusty era rispettato e temuto un po’ da tutti e lo aveva preso a benvolere.

    – Allora, domani sera? – chiese Milza.

    – Red Devil? – domandò Checco.

    Rusty ci pensò un momento. – Ok. Red Devil. Vi vengo a prendere con la scoperta, però da bere offrite voi.

    Rusty era l’unico con la macchina. Aveva una bellissima cabrio gialla. Checco sospettava venisse da giri non troppo puliti, ma in fondo chi era lui per giudicare? Rusty era tosto e questo bastava, e da quando si frequentavano la sua vita si era fatta più facile. Alcuni studenti più grandi avevano smesso di infastidirlo, e in qualche modo anche le ragazze avevano cambiato atteggiamento. Erano più… ecco, rispettose. E da allora aveva ricevuto anche un paio di piacevoli lavoretti nel bagno della scuola.

    Le strade erano deserte, illuminate solamente dalla luce fioca dei lampioni. Svoltarono da via dei Tribunali e s’inoltrarono nel vicolo che conduceva a casa di Milza. Rusty aveva cominciato uno dei suoi soliti racconti da bullo da strada.

    – Quando è stato? Forse martedì scorso. Sto lì seduto sulla panchina del parco, quello vicino alla scuola, quando arrivano due tizi, così, come noi, con i jeans e le scarpe da tennis, e mi fanno Ehi tu? Cosa fai qui? io dico E a te che cazzo te ne frega? Il più grosso dei due mi si avvicina a due centimetri, io faccio per alzarmi quando tira fuori un distintivo…

    – Bastardo! – commentò Milza.

    – Stavo già partendo con una testata proprio sul naso, ma riesco a fermarmi all’ultimo secondo. E allora? Ti abbiamo chiesto che cazzo fai qui a quest’ora. Aspetti qualcuno? Magari hai un fratello minore che esce da scuola tra poco? Immagina la scena. Io in piedi davanti a questa testa di cazzo, oh mi arrivava qui, che resistevo dal non tirargli un ceffone e allora gli faccio...

    Milza all’improvviso inciampò e urlò cadendo per terra.

    Anche Checco fece un salto all’indietro. Da dietro un grosso bidone di immondizia, nascosto dai cartoni e da un vecchio carrello di un supermercato ripieno di stracci, era saltata fuori un’ombra proprio davanti a loro.

    Era un vecchio con la barba incolta.

    Un fetore disgustoso riempì l’aria calda intorno a loro. Doveva essere un barbone. Di sicuro non si lavava da mesi. Allungava le mani a chiedere qualche soldo, toccando e spingendo Rusty e Checco.

    – Ehi, che cazzo fai?– gli urlò contro Rusty mentre aiutava Milza a rimettersi in piedi.

    Il vecchio non rispose e cominciò a grugnire e toccare i due ragazzi per ottenere qualche moneta. Checco si ritrasse, schifato dall’aspetto e dalla puzza dell’uomo, un odore dolciastro, come di carogna.

    – Vai via, pezzo di merda! – urlava Milza.

    Rusty sorrise con un ghigno. – Ehi vecchio, aspetta un attimo – disse, come parlasse a un bambino. – Ragazzi, ci sta solo chiedendo due monete! Dovrà pur ubriacarsi in qualche modo per dimenticare la vita di merda che fa…

    Il vecchio non rispondeva, ma si era immobilizzato, guardingo. Checco ebbe modo di osservarlo con più attenzione. Non doveva essere così vecchio come sembrava a prima vista. Vestito di vecchi abiti strappati, aveva capelli e barba di un colore indefinito, ma che forse una volta erano stati biondi. Gli occhi però erano vigili, socchiusi in due fessure sottili. Il colore azzurro pallido, chiarissimo, delle iridi si riusciva a intravedere nonostante la luce gialla dei lampioni.

    – Milza, coglione, ti sei spaventato per questo gentile signore? Ma non lo vedi, ti chiede solo due monete. Ce le hai due monetine in tasca?

    Milza si era ripreso e ora che la situazione era sotto controllo stava tornando rapidamente alla consueta strafottenza. Checco si era accorto da un po’ che il suo vecchio amico era cambiato. Da quando frequentava Rusty si comportava sempre più spesso in modo sgradevole.

    Milza imprecò sottovoce poi si aprì in un finto sorriso. – Certo che ce le ho. Tieni pure, vecchio, comprati qualcosa da bere… – tirò fuori lo scontrino del locale, un bottone e alcune vecchie cartine appallottolate che aveva nella tasca del pantalone e gliele lasciò cadere con gesto plateale sulla mano aperta.

    Le carte e i bottoni finirono a terra, il vecchio non si mosse e restò immobile davanti a loro, con la mano tesa e lo sguardo fisso negli occhi di Milza.

    – E allora, non sei contento? – alzò la voce Milza. – Ma come, uno fa del bene alla gente e neanche un grazie...

    Intervenne Rusty. – Non fare così, Milza, bisogna avere comprensione per chi è più sfortunato di noi.

    Prese dalla tasca l’accendino e si sfilò la sigaretta che aveva sull’orecchio. – Ecco, fumati qualcosa, anzi guarda te l’accendo io.

    Rusty si accese la sigaretta coprendola con la mano a coppa anche se non c’era un filo di vento, poi allungò la mano con l’accendino acceso verso la barba del vecchio, che fece un passo indietro per evitare che la barba prendesse fuoco.

    – E allora?– urlò Rusty in faccia al vecchio. – Salti ancora fuori all’improvviso dando fastidio alle persone che si fanno i cazzi propri? Eh, razza di bastardo?

    L’uomo sgranò gli occhi e indietreggiò mentre Rusty gli avvicinava l’accendino pericolosamente al viso. Dopo due passi indietro di una strana macabra danza a due, il vecchio si trovò spalle al muro, con il viso di Rusty Palla da biliardo a venti centimetri di distanza dal proprio. Il barbone inclinava la nuca all’indietro contro il muro per allontanarsi il più possibile dalla fiamma, mentre a Rusty si stavano gonfiando le vene del collo. Avvicinò ancora la fiamma verso la barba del vecchio fino a sfiorarla, ma improvvisamente i lineamenti del viso di Rusty si rilassarono, la tensione svanì rapidamente e la bocca si trasformò in una smorfia.

    – Bleah, che puzza!

    Rusty spense l’accendino senza smettere di fissare l’uomo di fronte, poi gli sputò in faccia e con uno spintone lo fece cadere a terra.

    Milza rideva. – Ben fatto, Rusty, così gli passerà la voglia di fare il furbo!

    Rusty si pulì le mani battendole l’una contro l’altra, poi si allontanò lentamente dalla sagoma a terra.

    – Che schifo! – sussurrò ancora guardandosi le mani. – Andiamo... – disse infine.

    – Sì, andiamo – ribatté Milza, e così dicendo si avvicinò al vecchio e gli mollò un calcio sul costato. Il vecchio grugnì per il dolore.

    Rusty e Milza girarono le spalle al barbone e si avviarono in mezzo al vicolo, seguiti da Checco.

    Dopo qualche metro Checco si voltò verso il vecchio che, da terra, si teneva il costato con una mano. Anche da lì scorgeva il riflesso delle iridi chiare illuminate dai lampioni. Brillavano come gli occhi di un ratto nella penombra. E li stavano fissando.

    I tre ragazzi ridevano.

    – Che testa di cazzo!

    – Ah, ma la prossima volta gli do fuoco per davvero! – diceva Rusty.

    – Così gli passa la voglia di fare il furbo – ribatteva Milza.

    Checco annuiva, anche se la scena lo aveva un po’ infastidito.

    – Oh, io sono arrivato. Ragazzi, ci vediamo domani sera? – chiese Milza.

    – No, mi sono ricordato che domani sera non ci sono, devo accompagnare un tipo vicino ad Aversa per un affare…

    – E tu, Checco?

    – Ti so dire.

    – Dopodomani allora?

    – Al Red Devil?

    – D’accordo.

    – A meno che non sia chiuso per ferie...

    – La topa cinese non chiude mai per ferie…

    Dopo aver salutato gli altri con un cinque, Milza si infilò nel portone. Le finestre che davano sulle scale del condominio si illuminarono. Checco sapeva che sua mamma lo aspettava alzato, davanti alla tv. Il padre, come ormai nella maggior parte delle famiglie dei suoi amici, se n’era andato qualche anno prima.

    L’appartamento di Milza era posizionato poco più a sud rispetto alla casa di Checco. I quartieri erano attigui ma, sebbene si affastellassero l’uno con l’altro, la differenza tra i due appariva evidente.

    Rusty e Checco si fermarono a guardare la sagoma scura di Milza salire rapidamente le scale.

    – Checco, mi spiace ma è un periodo nero, mi è rimasto solo qualche spicciolo per la benzina. Se al Red Devil mi fai la cortesia di anticiparmi l’entrata, nel giro di una settimana te li rendo, e tu lo sai che lo faccio.

    – Non c’è problema... – disse Checco.

    Rusty tirò con avidità l’ultima boccata della sigaretta e con un rapido schiocco tra pollice e medio fece volare via il mozzicone alcuni metri più in là.

    – La prossima settimana viene da queste parti una tipa, una con la quale sono stato un paio di anni fa, e rimane a Napoli qualche giorno. Forse porta la sorella: se è così ti chiamo, ci andiamo a mangiare una pizza dal Presidente e poi, bum bum, a casa tua. Che ne dici?

    Checco ci pensò un po’. – Dipende da quando. Sai che fra dieci giorni tornano i miei…

    In realtà un po’ gli dava fastidio portare Rusty a casa. Era pur sempre la casa dove vivevano suo padre, sua madre e sua sorella. Far venire un estraneo per quelle cose, anche se era un amico...

    – Allora io vado, ci vediamo dopodomani, ok?

    – Dai, al Red Devil.

    Rusty diede a Checco un affettuoso pugno sulla spalla.

    – Ciao.

    Checco lo guardò allontanarsi, chissà dove andava a quell’ora.

    Si mise le mani in tasca e si voltò per ritornare sui propri passi. Sarebbe rientrato a casa, avrebbe lanciato la t-shirt sulla poltrona e, così com’era, si sarebbe steso sul letto. Non avrebbe neanche acceso la luce.

    Il pensiero andò alla sua famiglia, al mare a San Benedetto del Tronto. A quell’ora la gente passeggiava ancora sul bellissimo lungomare con le palme oppure si radunava ad assistere a uno dei concerti estivi sulla spiaggia. Sua sorella Martina forse era ancora fuori, magari alla pineta, oppure a chiacchierare vicino alla ruota panoramica del Luna Park. Stava crescendo e forse da quest’anno le avrebbero consentito di tornare a casa più tardi.

    Anche lui aveva degli amici, che rivedeva ogni estate. Se li immaginò abbronzati, con le camicie colorate a disturbare le ragazze. E poi c’era sempre Anna, il suo sogno proibito. Chissà come era vestita questa sera, e se i capelli li portava come l’anno scorso. Frugò con la mano nella tasca sfiorando i bordi del cellulare. Notò con sorpresa che era già la seconda volta che era tentato di chiamare i genitori e chiedere se poteva raggiungerli…

    Quando lui e il padre avevano avuto l’alterco, se ne era andato in camera sua sbattendo la porta. In quel momento aveva immaginato come sarebbero stati quindici giorni da solo in città, e la cosa gli era sembrata allettante. Il giorno in cui i suoi si

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