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Storia pettegola d'Italia
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Storia pettegola d'Italia
E-book425 pagine6 ore

Storia pettegola d'Italia

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Un libro di cui tutti parleranno

I sussurri dei salotti, i complotti dei politici e gli scandali delle star: in ogni diceria si nasconde sempre un fondo di verità

Dietro un grande evento storico c’è sempre un grande pettegolezzo e in ogni diceria si nasconde immancabilmente un fondo di verità.
Trame e complotti sono spesso stati il vero motore di episodi fondamentali nel corso della storia del nostro Paese: a partire dall’omicidio di Giulio Cesare per arrivare fino ai “Monuments Men” nostrani, che hanno messo in salvo dal nazismo tante preziose opere d’arte, anche grazie alle indiscrezioni che arrivavano alle loro orecchie. E non solo politica, ma anche tanto gossip: dalle chiacchiere che animavano i salotti rinascimentali a Striscia la notizia e Dagospia, passando per la Dolce Vita e la figlia segreta di Cleopatra, le vicende raccontate in questo libro getteranno una nuova luce su molti scandali, noti e meno noti, che hanno costellato la storia italiana, dall’antichità fino ai nostri giorni..

Un libro di cui tutti parleranno!

• carmina triumphalia, fescennini e orazioni funebri
• la figlia di Cleopatra
• le vite dei Cesari di Cvetonio
• Liutprando da Cremona, il pettegolo
• lo strano caso della papessa Giovanna
• donna Olimpia Pamphili
• la chiacchierata Lady Hamilton
• i salotti italiani: Giovanna Dandolo, Cristina di Svezia e Clara Maffei
• via Veneto e la nascita della Dolce Vita
• relazioni (quasi) pericolose: Pirandello e Abba; Rossellini e Bergman; Togliatti e Iotti; Loren e Ponti; Pasolini e la Callas
• gossip, cronaca e opinionisti: da Striscia la notizia ai talk show

Hanno scritto di Storia erotica d’Italia:

«Gli amori, gli scandali, il sesso e la vita privata dei nostri avi. La storia d’Italia che avreste sempre voluto leggere e che nessuno ha mai osato raccontare.»
F

«Questa Storia erotica d’Italia di Cinzia Giorgio ci spiega come e dove nasce il mito dell’amante latino alla maniera di Casanova e del bel tanguero Rodolfo Valentino.»
La Stampa
Cinzia Giorgio
È dottore di ricerca in Culture e Letterature Comparate. Si è specializzata in Women’s Studies e in Storia Moderna, compiendo studi anche all’estero. Organizza i salotti letterari dell’Associazione di Studi Umanistici Leussô di Roma e insegna Storia delle Donne all’Uni.Spe.D. È autrice di saggi scientifici e romanzi. Per la Newton Compton ha pubblicato Storia erotica d’Italia e Storia pettegola d'Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2015
ISBN9788854187900
Storia pettegola d'Italia

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    Anteprima del libro

    Storia pettegola d'Italia - Cinzia Giorgio

    Parte prima

    Antichità

    Dalla sua fondazione, avvenuta, come vuole la leggenda, il 21 aprile del 753 a.C., la storia di Roma può essere divisa in tre periodi fondamentali: il periodo della monarchia, quello della Repubblica e infine quello dell’impero.

    Lo storico Tito Livio, nella sua opera Ab Urbe condita, scrive che la città fu fondata da Romolo. Secondo il mito, il dio Marte avrebbe stuprato la vergine vestale Rea Silvia, che in seguito avrebbe partorito i gemelli Romolo e Remo. Rea Silvia era la principessa di Alba Longa ed era figlia di re Numitore, diretto discendente del troiano Enea, a sua volta figlio della dea Venere e di Anchise. Lo zio di Rea Silvia, Amulio, imprigionò suo fratello Numitore e ne uccise i figli maschi, costringendo la giovane nipote a consacrarsi alla dea Vesta. Le vestali erano le sacerdotesse vergini le quali custodivano il sacro fuoco, che tutelava la città. Come vestale, Rea Silvia doveva rimanere vergine e non poteva quindi generare figli che avrebbero potuto rivendicare il trono. Rea Silvia, però, diede alla luce due gemelli. Secondo il racconto di Tito Livio, i neonati furono lasciati andare in una cesta lungo il Tevere, ma sopravvissero.

    Romolo e Remo, una volta cresciuti, decisero di vendicare il torto subìto dalla madre e uccisero lo zio Amulio, rimettendo sul trono di Alba Longa il re legittimo, ovvero il nonno Numitore. I due gemelli avrebbero poi litigato tra loro, e Romolo avrebbe ucciso Remo proprio mentre fondava la città. Fin qui la leggenda, che nel racconto di Livio continua con i mitici sette re di Roma, i quali si sono succeduti dal 753 al 509.

    Con la cacciata del re etrusco Tarquinio il Superbo, si aprì per Roma la fase della Repubblica. L’autorità era distribuita tra i consoli, che gestivano il potere militare, e il Senato, che deteneva il potere legislativo, mentre i comizi popolari sceglievano i magistrati, diritto ottenuto dopo un periodo di lotte fra patrizi, ovvero le famiglie fondatrici e aristocratiche, e plebei, ovvero il popolo.

    L’esercito di Roma, intanto, espandeva i confini della città prima nel Lazio, poi in Campania e in tutto il Sud della penisola, territorio della Magna Grecia. Crebbe anche la potenza della marina militare, e i romani ben presto furono in grado di sfidare e sconfiggere Cartagine, la colonia fenicia più potente del Mediterraneo. Roma combatté le tre guerre puniche contro Cartagine e infine rase al suolo la città. Ma l’esercito romano non si limitò a conquistare i Paesi che si affacciavano sul Mare Nostrum, come chiamavano il mar Mediterraneo. In breve tempo furono conquistate l’Illiria, la Macedonia e la Siria. Dopo la dittatura di Silla, Giulio Cesare completò l’annessione delle Gallie e avviò una lunga serie di riforme anche istituzionali. Alla sua morte, avvenuta nel 44 a.C. a seguito di un complotto, la Repubblica cadde e dopo una lunghissima e sanguinosa lotta fratricida prese il potere il nipote di Cesare, Ottaviano Augusto. Sotto il suo principato, Roma visse un periodo di pace e di prosperità che si rivelò un’età dell’oro dal punto di vista sia politico, per la pax augustea, sia artistico e letterario. È l’epoca in cui scrivono geni come Virgilio e Orazio, grazie al finanziamento dello stesso imperatore e di Mecenate.

    Augusto attuò tutta una serie di riforme e diede inizio alla fase dell’impero. Dopo di lui si susseguirono quattro imperatori della dinastia giulio-claudia: Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. Si imposero poi gli imperatori Vespasiano, Tito e Domiziano, della dinastia flavia. Seguirono Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Dopo di loro, con gli imperatori Settimio Severo e Caracalla cominciarono a formarsi delle crepe all’interno del vasto impero, la cui capitale fu spostata a Costantinopoli, in Oriente. Crepe che poi portarono alla disgregazione e alla caduta della struttura imperiale. Roma fu invasa da orde di popolazioni barbariche che più volte la saccheggiarono, fino a che Odoacre, re degli eruli, non depose l’ultimo imperatore romano, il giovanissimo Romolo Augusto. La gloriosa storia di Roma e del suo vasto impero era cominciata e finiva con un Romolo al potere.

    1.

    Fescennini, carmina triumphalia e orazioni funebri

    I fescennini, probabilmente originari della città di Fescennium nell’Etruria meridionale, erano versi in saturni che andavano a formare una sorta di farsa popolare alimentata per lo più da dicerie, oppure oscenità, e consistevano in uno scambio concitato di battute mordaci e caustiche tra coloro che prendevano parte alle feste rustiche durante le quali i fescennini venivano recitati. Si trattava di una forma di intrattenimento popolare e rozzo formato da dialoghi piccanti che aveva fatto la sua apparizione intorno al II secolo a.C. e la cui recitazione cantata dei versi era basata sul botta e risposta in un crescendo di battute sempre più spinte. Al canto si univa anche la danza. Quando i versi fescennini non furono più di moda, sopravvissero in parte nei canti licenziosi che i romani intonavano durante i banchetti nuziali. Un’altra variante della tradizione dei fescennini vuole che questi canti derivino dalla parola fascinum, che poteva riferirsi non solo al malocchio, ma anche all’organo sessuale maschile. La connessione tra malocchio e organo maschile era un chiaro tentativo di esorcizzare il male, ridicolizzandolo e paragonandolo al fallo. Secondo Tito Livio, si trattava dunque di scambi di battute oscene tra contadini che festeggiavano la fine del raccolto. Le maledizioni venivano scagliate contro il carro che trasportava l’uva degli agricoltori rivali. Lo stesso Orazio Flacco nell’Epistola ai Pisoni descrive i versi fescennini come un misto di canti e ingiurie grossolane, basate sulla calunnia. Il pettegolezzo e la diceria venivano quindi utilizzati come base su cui costruire un intrattenimento giudicato con il passare del tempo sempre più spudorato e senza freni. Gli spettacoli improvvisati dei fescennini divennero a un certo punto così irridenti che il Senato decise di prendere dei provvedimenti limitandone la rappresentazione.

    I versi fescennini svolsero tuttavia un ruolo importantissimo presso gli etruschi e diedero probabilmente origine alla satura. Fu il grammatico Diomede, vissuto nel VI secolo d.C., a dare la prima definizione della parola satura o satyra o satira: un carme basato sulla maldicenza che aveva l’intento di fustigare i vizi degli uomini. La parola derivava infatti da sàtyroi, cioè gli esseri delle mitologia greca per metà uomini e per metà capre o cavalli; o ancora da lanx satura, il piatto ricolmo di primizie che si offriva agli dèi in alcune feste religiose. Questo piatto fu poi chiamato semplicemente satura perché pieno, come dice il temine stesso. Sta di fatto che gli elementi caratteristici della satira erano molto simili a quelli dei fescennini: la critica aggressiva nei confronti dei costumi e la struttura composita di contenuti, danza e canto. La poesia satirica sarebbe dunque nata con i fescennini nell’ambito delle festività religiose legate soprattutto al raccolto e al culto della terra, quindi a quello della dea Cerere in particolare. I partecipanti al culto erano saturi sia di vino e cibo che di battute sferzanti e audaci. Durante questi riti venivano presi di mira il mondo contemporaneo – non il passato o i miti legati a Roma – e la realtà vera, concreta. Le battute erano dirette, provocatorie e spesso grossolane, anche quando rivolte a personaggi importanti. Si parlava di vita politica, di costume, di sesso, e tutto partiva da uno spunto banale per poi trasformarsi in invettiva, vituperio o riflessione. Erano bersagliati i vizi dei singoli cittadini, le loro manie, i loro costumi sessuali, e si dava adito alle dicerie. Si faceva riferimento a un’attualità quasi giornalistica e si affrontavano i temi più scabrosi con atteggiamento irriverente, spesso critico nei confronti della stessa società e della tradizione.

    I carmina triumphalia erano i canti che venivano intonati dai soldati in occasione delle celebrazioni, i trionfi appunto, delle battaglie vittoriose. Il comandante dell’esercito, che entrava a Roma in trionfo, doveva salire sul Campidoglio e offrire una parte del bottino di guerra a Giove. Durante il tragitto i suoi soldati e commilitoni intonavano canti spesso volgari, interrotti dal grido «Io triumphe!». L’argomento dei canti variava e mescolava lodi sperticate nei confronti del comandante con pettegolezzi, allusioni alle sue abitudini, alle sue pratiche sessuali e alla sua vita privata in generale. I canti trionfali sono quasi tutti andati perduti. Come ci riferisce Svetonio¹, che riporta qualcuno dei rari frammenti giunti fino a noi, in queste opere si sfiorava il vituperio.

    Durante il trionfo di Giulio Cesare per la vittoria nella guerra contro i galli, per esempio, mentre seguivano il carro, i suoi commilitoni cantavano: «Cesare sottomise le Gallie, ma Nicomede sottomise Cesare», una chiara e non troppo velata allusione alla presunta relazione omosessuale di Cesare con il re di Bitinia, Nicomede IV Filopatore. La diceria della presunta relazione fra i due era nata perché dal 94 al 74 a.C. il giovane Giulio Cesare era stato inviato in Bitinia come ambasciatore; il suo compito era persuadere il re a mantenere la promessa fatta a Roma di inviare una flotta ausiliaria che coadiuvasse quella romana durante l’assedio del porto di Mitilene. Cesare ebbe la meglio e Nicomede inviò gli aiuti ai romani. Fu proprio la solerzia con cui quest’ultimo mandò la flotta ad alimentare la diceria. Questo pettegolezzo fu per Cesare una spada di Damocle che pendette sulla sua testa per tutta la vita. Più Cesare si adoperava per far cessare il pettegolezzo, più veniva irriso dai suoi nemici. Cicerone arrivò a dire che Cesare aveva perso la sua verginità con il re di Bitinia, mentre altri lo chiamavano rivale della regina di Bitinia o lupanare di Nicomede. Bisogna però aggiungere che Cesare trovò un modo molto particolare di farsi giustizia: andò a letto con le mogli dei suoi nemici. Tanto che fu definito il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti. In Svetonio si legge: «Cittadini, sorvegliate le vostre mogli»² in riferimento alle molteplici avventure di Cesare con donne sposate. Tra le tante consorti che cedettero al suo indiscutibile fascino vi fu anche la castissima moglie di Catone Uticense, Atilia, che, non appena si scoprì la tresca, venne ripudiata. Un pettegolezzo dell’epoca insinuava che fosse stata la sorellastra dell’Uticense, la famosa Servilia, amante di Cesare e madre di Giunio Bruto, a chiedere al suo innamorato di portarsi a letto Atilia per vendicarsi del fratellastro.

    Il vituperio nei confronti del generale protagonista del trionfo era, dunque, una pratica universalmente riconosciuta, anche se lo metteva in ridicolo attraverso pettegolezzi e ingiurie. Si correggeva in tal modo la laudatio, ovvero la lode al talento e al genio militare del comandante, perché gli si ricordava la sua natura umana e non divina, una sorta di memento necessario a non far montare la testa al trionfatore e di conseguenza a non irritare gli dèi. La libertà del linguaggio usato durante i cori dei trionfi era sfrenata e abbatteva la differenza di rango tra i commilitoni, ma soprattutto allentava la rigida disciplina militare. I soldati, infatti, aggredivano verbalmente il loro generale spesso con lazzi osceni dando credito ai più infimi pettegolezzi. Il canto era strutturato a botta e risposta ed era molto simile a quello dei fescennini.

    Il contraltare dei canti trionfali era rappresentato dalla nenia funebre cantata da donne prezzolate, le prefiche, che intonavano i loro lamenti intorno al letto del defunto, accompagnate dal suono della lira. Al rimpianto per la dipartita dell’estinto si univa la descrizione della sua vita, delle sue virtù e delle sue gesta. I romani prendevano molto sul serio i lamenti funebri perché li consideravano parte integrante dell’omaggio da tributare al morto attraverso la celebrazione delle sue glorie passate sia all’interno del nucleo familiare sia nella vita pubblica. Al rito partecipavano i familiari, che indossavano delle maschere di cera, le imagines, ricavate dal calco dei visi dei membri della famiglia passati a miglior vita e conservate con cura in appositi armadi nell’atrio delle case romane. Queste imagines venivano indossate per rappresentare il cordoglio degli avi della famiglia che piangevano anche loro il defunto durante il corteo che giungeva al Foro. Nemmeno i funerali, scrive il filologo Ugo Enrico Paoli, erano immuni dai pettegolezzi e dai lazzi fastidiosi dei fescennini: ballerini e mimi accompagnavano il corteo funebre, detto pompa, e canzonavano il morto raccontando aneddoti non proprio edificanti. Come il generale veniva irriso durante il trionfo, così il morto – a maggior ragione se si trattava di un personaggio noto – era oggetto di allusioni e dicerie sulla sua condotta in vita.

    Una volta giunto al Foro, il corteo si arrestava per ascoltare un discorso commemorativo. Di solito, a prendersi carico della cosiddetta laudatio funebris era il figlio del morto o comunque una persona con un vincolo familiare molto stretto. Polibio riferisce:

    Quando chi pronuncia la laudatio del defunto ha finito di parlare di lui, prende a riferire anche delle azioni degli avi presenti [sotto forma di imagines], cominciando dall’avo più antico per narrare via via le imprese anche degli altri. Si rinnova in tal modo la fama della virtù di quegli uomini di valore e si rende immortale la loro gloria […] affinché i giovani siano stimolati ad affrontare le sfide e possano compiere imprese gloriose.³

    Nel Brutus Cicerone esprime un giudizio molto severo nei confronti della laudatio funebris perché «molte cose che si trovano scritte non corrispondono al vero. Vi sono narrati falsi trionfi, immaginari consolati, genealogie improbabili e finte parentele con famiglie plebee», insomma una marea di dicerie che alimentavano il mito di una famiglia senza alcuna ragione fondata. Le orazioni funebri più note restano, oltre a quelle di Marco Antonio e Marco Giunio Bruto al funerale di Giulio Cesare, di cui si parlerà più avanti, quelle in onore di Lucio Giunio Bruto e di Giulia, zia di Cesare. Nelle Antiquitates Romanae Dionigi di Alicarnasso attesta la presenza delle orazioni funebri fin dalla tarda età repubblicana e narra dei funerali del tirannicida e primo console di Roma Lucio Giunio Bruto.

    Nel 69 il trentenne Cesare si rese ancora una vota bersaglio di pettegolezzi, misti a una cauta ammirazione, perché pronunciò un’orazione funebre in onore di sua zia Giulia, moglie del dittatore Mario, e della sua amata moglie Cornelia, morta prematuramente. Al funerale erano presenti le imagines degli avi delle due donne, e l’episodio fece scalpore. Prima di tutto perché, nonostante la Repubblica romana fosse sotto la dittatura di Silla – acerrimo nemico di Mario –, Cesare fece sfilare le immagini dell’ex dittatore Caio Mario e di suo figlio, ma anche perché mai prima di allora era stata pronunciata una laudatio funebris in commemorazione di due donne. Cesare rincarò la dose affermando pubblicamente che la zia apparteneva a una stirpe reale, poiché discendente dei re Marzii, e quindi da Anco Marzio quarto re di Roma; e riaffermò la natura divina della gens Iulia, che discendeva direttamente dal figlio di Enea, Ascanio-Iulo. A sua volta, Enea discendeva dall’unione della dea Venere con un uomo, Anchise. È Svetonio a riportare le parole di Cesare: «Nella nostra stirpe si trovano dunque la sacralità dei re, che governano gli uomini, e la santità degli dèi»⁴.

    L’elogio alla giovane moglie, inoltre, era una pratica quanto meno insolita perché non si usava in casi di donne morte prematuramente. Il popolo, però, sembrò apprezzare tale dimostrazione di amore coniugale, anche perché Cornelia non incarnava l’ideale della matrona romana, bensì quello della giovane moglie innamorata. Fu forse per questa ragione che Silla guardò fin da subito con sospetto quel giovane romano dalla grande passione politica e dalla sfrenata ambizione e disse di temerlo perché in lui vedeva mille volte Mario.

    2.

    Saturnalia

    I saturnali o saturnalia erano i giorni di festa dedicati al dio Saturno, la divinità romana assimilabile al dio greco Crono. Nella Roma repubblicana i festeggiamenti si tenevano il 17 dicembre, ma pian piano si aggiunsero altri giorni: si passò, infatti, dai due giorni stabiliti da Cesare ai quattro di Caligola, per finire con i sette di Domiziano. Si trattava di una festa molto particolare, la cui organizzazione definitiva è databile intorno al 217 a.C. dopo la disfatta militare dei cartaginesi nella seconda guerra punica. I saturnali erano inizialmente una festa agricola, per la buona riuscita delle messi, ma col tempo assunsero sempre più un significato simbolico, che richiamava una mitica età dell’oro, quando regnava Saturno e si viveva in pace e nell’abbondanza. La crescente importanza dei festeggiamenti per il dio Saturno coincise anche con la penetrazione della cultura greca a Roma.

    Durante i saturnali i romani si vestivano con delle tuniche semplici, componevano epigrammi, gli xenia, e si scambiavano doni, detti strenne, come statuette di argilla, oggetti per la casa e ceri. A volte gli epigrammi, composti anche da letterati di fama, erano utilizzati per farsi pubblicità: chi aveva una bottega, infatti, diffondeva così la voce che nel suo negozio si poteva trovare una determinata merce.

    La caratteristica più singolare, però, era il temporaneo ribaltamento dei ruoli sociali: per un giorno gli schiavi diventavano padroni e i padroni diventavano schiavi. Lo storico Franco Cardini afferma che i saturnali erano la festa delle «libertà di dicembre»⁵ durante la quale gli umili si mischiavano ai potenti, i poveri ai ricchi e i servitori ai padroni. Questa apparente allegria celava in realtà una profonda angoscia e serviva a esorcizzare le forze disgreganti della società: dopo il caos, la società sarebbe risorta rinvigorita, come se fosse tornata giovane. Nonostante le evidenti analogie dei saturnali con il Natale cristiano – lo scambio di doni e il periodo dell’anno simile –, per certi versi i saturnali ricordano di più il disordine carnevalesco e le feste del martedì grasso.

    Nel 430 d.C. Ambrogio Teodosio Macrobio compose un’opera sui saturnali intitolata appunto Saturnalia in cui, dopo una dissertazione sulle origini della festa, nel secondo libro si dedica ai motti e alle sentenze celebri pronunciate durante la festività. L’opera, scritta sotto forma di dialoghi tra convitati, inizia con un prologo in cui si racconta la consuetudine dei patrizi romani di riunirsi in banchetti per intrattenersi in conversazioni di vario genere durante i saturnali. Siamo in casa del nobile Vettio Agorio Pretestato. Dopo un discreto pasto, uno degli ospiti, Simmaco, propone agli altri commensali di disquisire su un tema meno dottrinale rispetto a quello del mattino, ovvero ognuno di loro dovrà raccontare i motti, le battute e le arguzie dei personaggi famosi. Si potrà narrare così di Plauto, uno dei padri della commedia latina, di Cicerone e di Catone il Censore. In sostanza, Simmaco chiede di dare voce ai pettegolezzi sui personaggi famosi dell’epoca, non tanto per irriderli, quanto per tirare fuori aneddoti e arguzie che li rendono a volte più umani, a volte sempre più mitici.

    Simmaco dà la parola al loro ospite Pretestato, il quale racconta del generale punico Annibale che, sconfitto, si era rifugiato da Antioco III di Siria. Quando il re siriano gli aveva mostrato le armi belle, ricche ed eleganti delle sue truppe, Annibale gli aveva chiesto se sarebbero bastate per sconfiggere i romani, e il re gli aveva risposto: «Certo, perché i romani sono molto avidi». Invece di combattere, sarebbe bastato regalare loro le armi.

    A turno, tutti gli invitati al banchetto riferiscono così aneddoti più o meno famosi, che hanno per protagonisti personaggi quali Cicerone e l’imperatore Augusto. È il convitato Avieno a raccontare di una irriverente battuta fatta da un provinciale ad Augusto. L’imperatore aveva notato, infatti, la straordinaria somiglianza tra sé e un uomo venuto da una delle province dell’impero, così lo aveva convocato e gli aveva domandato se sua madre fosse mai stata a Roma; il provinciale gli aveva prontamente risposto: «No, mia madre non è mai stata a Roma, ma mio padre ci è venuto spesso». Non si sa che fine abbia poi fatto il provinciale.

    Infine giunge la sera: mentre gli invitati cenano, si discute degli autori antichi sia greci, come Platone e Aristotele, sia latini, come Varrone, e delle loro opinioni sui piaceri della tavola e del vino.

    3.

    Cornelia, la madre dei Gracchi

    Dei dodici figli che Cornelia aveva dato al console Tiberio Sempronio Gracco, ne sopravvissero solo tre: Tiberio, Caio e Sempronia. Cornelia era nata a Roma forse nel 189 a.C. e apparteneva a una delle più nobili gens romane, quella dei Cornelii. Era figlia di Cornelio Scipione l’Africano, vincitore di Annibale, nonché ambiziosa, bella e intelligente. Era cresciuta in un ambiente raffinato capace di stimolarla e di farle guadagnare la fama di essere una delle donne più colte di Roma. Si narrava che la sua conoscenza delle questioni filosofiche fosse così profonda che persino il filosofo scettico Carneade di Cirene accettava di disquisire di filosofia in sua presenza, nonostante lei avesse il solo difetto di essere una donna. Le piaceva circondarsi di uomini di cultura, politici e letterati con i quali discorreva da pari a pari. Il poeta satirico Giovenale, noto anche per la sua profonda misoginia, non riusciva a scrivere male della figlia dell’Africano senza sembrare inattendibile. La fama della donna era così radicata nella società romana da renderla quasi mitica.

    Cornelia aveva sposato il console Tiberio Sempronio Gracco perché era stata la famiglia a imporglielo, ma è noto che l’unione fu azzeccata, e la coppia risultò fin da subito ben assortita. Lo dimostrano non solo i dodici figli che lei diede al marito, ma anche la stima che entrambi dichiaravano di provare l’uno per l’altra. Polibio ci riferisce che si sposarono a Literno qualche anno dopo la morte di Scipione l’Africano. E non poteva che essere così dal momento che, quando Scipione morì, Cornelia era poco più di una bambina. Il matrimonio fece scalpore soprattutto perché seguì a un’accorata difesa che il futuro sposo aveva fatto in favore della famiglia degli Scipioni, nonostante fossero avversari politici. Forse quell’unione aveva avuto il compito di stabilire la pace tra le due gens.

    La questione era nata dopo la battaglia di Magnesia, vinta da Emilio Scipione detto l’Asiatico. Per gli avversari politici degli Scipioni, ovvero gli Emilii, i Fabi e Marco Porcio Catone, sembrava assurdo che Scipione l’Asiatico, fratello dell’Africano, non avesse trafugato le leggendarie ricchezze del re Antioco III di Siria. Così Scipione l’Asiatico fu accusato di concussione e peculato; quando Catone inveì contro di lui, Tiberio Gracco, inaspettatamente, prese le difese del suo antico nemico. Tito Livio riporta che il console Gracco aveva chiesto di non incarcerare chi «aveva esteso i domini di Roma fino ai confini stessi della terra»⁶. Aveva poi difeso anche l’Africano affermando con forza quanto fosse disonorevole ascoltare le insolenze dei denigratori gonfi d’invidia che lo accusavano senza alcuna prova.

    Così, non appena la giovane figlia dell’Africano raggiunse l’età da marito, fu data in sposa al console Gracco. In merito alla personalità di Tiberio Gracco, Plutarco scrive: «La sua nobiltà fu soprattutto una nobiltà dovuta alla virtù; tanto che dopo la morte di Scipione Africano, fu ritenuto degno di sposare la figlia Cornelia, nonostante fosse stato oppositore se non nemico del padre di lei»⁷.

    Secondo Polibio e Valerio Massimo, i due sposi si volevano molto bene, anzi si amavano profondamente. Entrambi gli storici narrano che Tiberio Gracco un giorno aveva trovato due serpenti nel suo letto nuziale. Si era quindi recato in tutta fretta dall’aruspice per chiedergli il significato di quel ritrovamento. L’aruspice gli rispose che se avesse liberato il serpente maschio, sarebbe morta sua moglie, se invece avesse liberato il serpente femmina, sarebbe morto lui. Tiberio Gracco non ebbe un attimo di esitazione: fece uccidere il serpente maschio e liberò la femmina. Valerio Massimo scrisse che ebbe un gran coraggio, Tiberio, nel rimanere a osservare il rettile mentre si contorceva e moriva, perché in quella morte stava osservando anche la sua fine. E la morte per Tiberio Gracco arrivò puntuale, nel 154.

    Quando il marito morì, Cornelia aveva trentacinque anni ed era ancora molto bella e forte. Si mormorava che tra i pretendenti alle seconde nozze figurasse anche il faraone d’Egitto Tolomeo VIII, che lei aveva respinto per occuparsi dei figli. E così fu: Cornelia prese sulle sue spalle tutto il carico dell’istruzione di Sempronia e dei due maschi, preoccupandosi della loro formazione come uomini e come politici.

    Visse la vedovanza e la perdita degli altri nove figli con serenità, nonostante tutto, concentrando sui vivi l’energia di cui disponeva. Divenne così il prototipo della madre romana e della madre italica per eccellenza. È un celebre aneddoto sull’orgoglio materno riportato da Valerio Massimo ad averla resa immortale. Pare che un giorno Cornelia avesse ricevuto la visita di una matrona appartenente ai nuovi ricchi romani, ovvero coloro che si erano arricchiti con l’oro e gli schiavi provenienti dall’Oriente. Si era verificato infatti un cambiamento profondo, da un po’ di anni, nella società romana, che da austera e quasi spartana nei costumi era diventata più superficiale e amante del lusso. La matrona che era andata a trovare Cornelia, dicevamo, aveva cominciato a spettegolare su vari cittadini romani per poi vantarsi senza pudore alcuno delle ville, dei numerosi acquisti da lei sostenuti e soprattutto dei suoi gioielli preziosi, tra i quali anche quelli che indossava. Cornelia aveva atteso il ritorno da scuola dei figli Tiberio e Caio e, quando li aveva visti entrare in casa, aveva esclamato, rivolta alla matrona: «Haec ornamenta mea», ovvero Ecco i miei gioielli!. Non si trattava solo di una battuta di spirito intelligente, quanto piuttosto di riaffermare con forza i valori della dignitas, che si stavano perdendo, e di prendere le distanze da una mollezza dei costumi deleteria. Cornelia rappresentava quindi la matrona romana per eccellenza, ma anche la madre fiera che non ha bisogno di altro ornamento se non dei suoi figli. Non che lei non si potesse permettere gioielli e oggetti di lusso, ma così dimostrava che il suo unico interesse era la famiglia.

    Nell’elencare le sue doti di madre e di educatrice, Plutarco continua: «Nei fratelli Gracchi l’educazione fece più della loro stessa virtù, che possedevano comunque». Anche Cicerone elogiò la donna, dandole il merito, fra le altre cose, di aver insegnato il greco ai figli, che lo parlavano fluentemente: «Ci si accorge, leggendo le lettere di Cornelia, che i Gracchi furono allevati non tanto nel grembo della loro madre quanto nella lingua»⁸. Con l’insegnamento del greco la donna aveva trasmesso ai figli anche i sentimenti più puri.

    Cornelia morirà a settantanove anni, un’età considerevole all’epoca. Questa fu una fortuna, ma anche una dannazione: vide infatti morire prima Tiberio, ucciso quando lei aveva cinquantasei anni e poi, a distanza di poco più di un decennio, anche Caio. Entrambi avevano ricoperto la carica di tribuno della plebe e avevano contribuito alla formulazione di leggi più eque per il popolo. Alla morte dei figli si ritirò a vivere a Capo Miseno e, quando morì, venne eretta una statua in bronzo per onorarla. Alla base della statua una sola scritta: Cornelia madre dei Gracchi.

    4.

    Delazioni e proscrizioni: Mario e Silla

    Quando Caio Mario entrò nella scena politica della Repubblica, si disse ciò che da sempre si va ripetendo quando un sistema politico è in agonia: «Ci vorrebbe un uomo giusto…»⁹. Mario in effetti riuniva in sé tutte le caratteristiche dell’homo novus: proveniva da una famiglia contadina di Arpino (la stessa cittadina di Marco Tullio Cicerone), si era arruolato giovanissimo e aveva seguito tutto l’iter del cursus honorum, partendo dal gradino più basso. Aveva inoltre avuto l’astuzia, o forse il buon senso, di contrarre un matrimonio vantaggioso. Sua moglie Giulia era la zia del futuro condottiero, console e pontefice massimo Caio Giulio Cesare. In quel momento, però, la gens di Giulia non godeva di molto prestigio, poiché si trattava di semplice aristocrazia terriera, per di più quasi in disgrazia.

    Il giovane e ambizioso Mario combatté al fianco di Metello durante la guerra contro Giugurta, e quando rientrò a Roma, il suo stesso generale si scandalizzò alquanto nel sentirlo chiedere per se stesso il consolato, nonostante – in teoria – la carica fosse aperta anche ai plebei. Mario si offese a morte con il suo ex comandante, che aveva espresso parere sfavorevole, e il giorno della sua effettiva elezione alla carica di console, fu grande la sua gioia nello spodestare Metello per ricoprire il suo seggio. Fu un’elezione lungimirante e felice: con Mario, la guerra contro Giugurta si concluse in un batter d’occhio. Il popolo romano lo acclamò vincitore assoluto, non sapendo che il vero vincitore era stato un suo giovane luogotenente di nome Silla, il quale aveva di fatto assestato il colpo decisivo contro l’usurpatore della Numidia.

    In quel momento Mario era per tutti l’uomo giusto al momento giusto. Ed era vero: grazie alla sua oculatezza e ai suoi calcoli bellici, le ostilità erano cessate.

    Intanto da nord i galli e i germani avevano ripreso a minacciare le frontiere, promettendo di mettere Roma a ferro e fuoco e di spassarsela con le mogli dei loro nemici. Per la cronaca: non attuarono mai le loro minacce.

    Per far fronte al pericolo, Mario aveva arruolato praticamente tutta la popolazione maschile in quello che fu chiamato esercito proletario e che andava a sostituire le truppe mercenarie. Con questo esercito che riuscì a addestrare in tempi record, grazie a lunghe marce ed estenuanti guerriglie, Mario vinse e rientrò a Roma, acclamato per la seconda volta salvatore della patria. Era diventato ricchissimo. Fu rieletto console per la sesta volta, in barba alle rigide leggi romane. Il suo esercito, ormai non più scalcagnato, pretese però la realizzazione delle ventilate promesse di ricevere terre e denari al rientro a Roma. Così Mario chiamò a rapporto due rispettabili delinquenti: Saturnino, tribuno della plebe, e Glaucia, pretore. I due trafficoni tuttofare, che fungevano anche da spie, raggirarono Mario per fare i loro interessi. Di fatto, le terre vennero distribuite ai veterani grazie all’applicazione delle stesse leggi in base alle quali i due fratelli Gracchi erano stati condannati a morte. Le leggi gracchiane fecero felici i soldati, però destabilizzarono il bilancio statale con gravi conseguenze.

    Quando il Senato chiese con forza a Mario di prendere una posizione netta, perché la situazione a Roma era diventata insostenibile, questi esitò: era ormai vecchio, grasso, alcolizzato e non sapeva più come comportarsi. Si diceva che la politica lo avesse reso fiacco e lo avesse privato di nerbo. E le dicerie si rivelarono esatte: Mario decise di mettersi in testa ai senatori e agli aristocratici, mandando a morte i suoi ex compari. Inviso ormai a tutti, vittima dei più meschini, ma spesso veri, pettegolezzi, Mario fuggì in Oriente con la scusa di un viaggio per riprendersi dalle fatiche della politica romana.

    Lucio Cornelio Silla proveniva da una famiglia appartenente alla piccola aristocrazia. Non aveva il fanatico patriottismo di alcuni suoi commilitoni, ma in compenso aveva avuto un passato da giovane scavezzacollo. Per un periodo lo aveva mantenuto una prostituta greca molto più vecchia di lui. Più lei gli garantiva il sostentamento, più lui la maltrattava e la tradiva. Benché non fosse stato uno studente modello, amava leggere, soprattutto in greco.

    Era stato Silla a sferzare il colpo decisivo nella guerra giugurtina e a convincere il re Bocco a consegnare ai romani Giugurta anche se, come abbiamo visto, i meriti se li era presi tutti Mario. Re Bocco, però, commise l’imprudenza di regalare a Silla un bassorilievo d’oro rappresentante la scena della consegna di Giugurta a lui e non a Mario. Quest’ultimo si offese a tal punto da rompere del tutto i rapporti con il suo luogotenente. Non poteva sapere, Mario, di essersi fatto, a causa della sua eccessiva vanagloria, un nemico temibile.

    Del resto, agli occhi di Mario, Silla sembrava del tutto innocuo. Quando nel 99 a.C. era

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