Le ’ndranghetiste dell'Est. Profili internazionali della mafia calabrese
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Anteprima del libro
Le ’ndranghetiste dell'Est. Profili internazionali della mafia calabrese - Arcangelo Badolati
collana
Mafie
diretta da Antonio Nicaso
23
ARCANGELO BADOLATI
LE ’NDRANGHETISTE
DELL’EST
Profili internazionali della mafia calabrese
I diritti dell’autore del volume verranno devoluti interamente alla Fondazione Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime
di Natuzza Evolo a Paravati e alla Fondazione intitolata a Roberta Lanzino
a Rende
ISBN 978-88-6822-584-1
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2017
Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Siti internet: www.pellegrinieditore.com
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I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Per il resto la donna ha paura,
è vile davanti al ferro e alla lotta.
Ma quando è minacciato il suo letto,
non c’è anima più sanguinaria.
Euripide, Medea
Introduzione
Le mafie, la reputazione, le donne
di Ercole Giap Parini
La reputazione ha permesso ai mafiosi di trasformarsi, da manutengoli e faccendieri di basso livello, in interlocutori privilegiati, prima delle classi possidenti quindi delle élite politiche ed economiche del Paese, sancendo con queste un patto che ha segnato profondamente la storia a partire dall’Unità d’Italia e che ha continuato a condizionare, con sempre rinnovata pervicacia, la vicenda repubblicana.
La reputazione di onorabilità, pur costruita sull’illusorietà, quando non sulla smaccata menzogna, è una risorsa chiave, che ha permesso ai mafiosi di costruire quel capitale sociale che li rende così temibili e che ne ha segnato l’attitudine a non esaurire la propria azione nelle vicende criminali, rendendoli parte di un reticolo di interessi e di potere ove sfuma la distinzione tra legale e illegale.
Se un tempo i meccanismi della reputazione erano spesi quasi esclusivamente entro i confini italici, oggi in particolare le vicende della organizzazione mafiosa calabrese, la ’ndrangheta, mostrano come quella stessa attenzione ai meccanismi reputazionali la abbiano resa referente privilegiato per molti gruppi criminali che operano sulla scena transnazionale dei mercati illeciti. Certamente a supporto di una presunzione di affidabilità che si è procurata trafficando stupefacenti per anni.
La reputazione, si sa, è cosa che deve essere ben visibile, deve apparire alla superficie e i suoi motivi vanno sempre rievocati e riprodotti. Costi quel che costi. A partire da questa considerazione, chi studia il fenomeno mafioso è particolarmente attento all’uso di linguaggi, codici e simboli che, tutt’altro che semplici espressioni del folclore, entrano funzionalmente nelle strategie con le quali le mafie consolidano il proprio potere e rendono sempre più profittevole la propria posizione nell’ambito dei mercati illeciti. Per certi aspetti, questo utilizzo simbolico, volto a richiamare un passato più o meno mitologico e leggendario, rappresenta uno dei tratti costitutivi del fenomeno mafioso in generale, e della ’ndrangheta in modo particolare, attribuendo alle cosche un’aura particolare che le distingue dal resto del fenomeno della criminalità organizzata e le rende, agli occhi dei più, organizzazioni di uomini onorati.
È un’entità sfuggente la ’ndrangheta, difficile dare di essa una definizione esaustiva, in particolare a causa della pluralità dei propri comportamenti e delle proprie espressioni. Nell’immaginario collettivo si alternano, per esempio, immagini legate alla tradizione più cupa delle terre ove ha preso piede (lo ’ndranghetista con la coppola e la lupara che si aggira in territori rurali e boschivi esclusi dai processi di modernizzazione) e quella del manager mafioso che intrattiene affari in mezzo mondo, forte di competenze e di reti ben tese nei processi di globalizzazione. Luci sfavillanti delle metropoli simbolo del capitalismo e bagliore intermittente di tizzoni che ardono in un bivacco aspromontano.
Ebbene, proprio per definire una entità siffatta è necessario evidenziare, come tratto costitutivo particolarmente rilevante, la capacità di tenere insieme passato e presente, tradizione e modernità, cristallizzazione di elementi del passato e fluidità delle relazioni tipiche della nostra epoca.
Entro questa ottica, i tratti del passato, e con essi intendo quegli elementi ascrivibili all’arcaismo mafioso, non vanno letti alla stregua di elementi che permangono come tratti inerziali; essi vanno, piuttosto, considerati alla luce delle dinamiche del presente, come elementi messi a profitto nelle più moderne strategie di accumulazione mafiosa. E che alla ’ndrangheta forniscono indubbi vantaggi competitivi rendendola la temibile organizzazione conosciuta in tutto il mondo.
Il libro di Arcangelo Badolati sembra fare proprio questo punto di vista: l’autore parte dall’assunto che la forza della ’ndrangheta vada ricercata in questa miscela di tradizione e modernità: È una mafia antica nei riti, nei linguaggi e nei simbolismi ma modernissima e manageriale nella gestione degli affari e nel governo del territorio
. E il governo del territorio – fonte di qualsiasi altra dimensione del potere mafioso – è gestito attraverso un sottile esercizio del consenso, dell’autorità e della prevaricazione, una combinazione capace, nei contesti a tradizionale presenza mafiosa, di ridurre i cittadini di una moderna democrazia in sudditi; una privatizzazione dell’equilibrio tra diritti e doveri che segna i tratti di quella che gli studiosi chiamano signoria territoriale. Tale governo del territorio è caratterizzato da un uso della violenza che ha una forte caratteristica simbolica. Le faide, espressione di un mondo medievale che privatizzava l’esercizio della giustizia in uno scenario di disinteresse del sovrano per le faccende del popolo, diventano, nelle attuali strategie mafiose, sia mezzi violenti per il controllo dei moderni affari sia espressione simbolica dello strapotere delle cosche sui territori di tradizionale insediamento. E non soltanto su questi, come il Ferragosto di sangue del 2007 a Duisburg ha messo in evidenza. Badolati, con dovizia di informazioni e raffinatezza di analisi, torna sulle tante faide che hanno insanguinato la Calabria in decenni di storia mafiosa, seguendone le strategie, le logiche strumentali insieme ai motivi simbolici.
Il libro, sin dal titolo, dedica una particolare attenzione al ruolo delle donne nelle strategie mafiose. In una organizzazione fondata sulla supremazia maschile, le donne sono sempre state strumento per l’accrescimento della potenza mafiosa. Anche qui, anzi, forse qui più che altrove, è visibile quella attitudine tutta mafiosa a fare profitto degli elementi di una tradizione cristallizzata a uso di quegli stessi meccanismi. Se uno dei tratti tipici della modernità è il cosiddetto amore romantico
, vale a dire quello che lascia ai partner la libera scelta dell’incontro a partire dal mistero dell’innamoramento, nelle famiglie mafiose continuano a prevalere logiche premoderne nella gestione dei matrimoni. L’assoggettamento delle donne alle strategie della famiglia, quindi della accumulazione mafiosa, è ben descritto da Badolati: l’obiettivo di ogni padrino che si rispetti è, infatti, l’ampliamento della sfera di influenza della propria famiglia-clan attraverso lo sperimentato metodo dei matrimoni combinati e dei comparaggi utili di alleanze basate sul vincolo della consanguineità
. E in questo modo, le cosche riescono a contaminare
– è questa l’espressione utilizzata dall’autore – gli ordini professionali e i luoghi del capitale di mezzo mondo.
Come sottolinea il titolo del libro, che proietta queste strategie nel terzo millennio, spesso le donne che i mafiosi prendono in moglie non appartengono tradizionalmente a queste terre; tuttavia, identica è la pretesa di dominio che i boss e le loro famiglie esercitano sulle loro menti e i loro corpi. È il caso di Ewelina Pytlarz, che era andata in sposa a uno dei fratelli Mancuso, potente cosca di Limbadi, nel Vibonese. È lei stessa, al termine di questa dura esperienza, a denunciare la condizione di subalternità di sapore feudale entro quella famiglia Da qualche anno subivo le angherie di mia suocera, di mio marito e del fratello (…). Loro mi impedivano di uscire di casa e di avere contatti con chiunque (…) per sette anni ho vissuto in questa drammatica situazione comprendendo di essere caduta in balia di una famiglia temuta da tutta la popolazione
.
Un destino che arriva a sancire la morte quando il legame fiduciario viene meno, ribadendo la pretesa di un controllo sulla vita delle persone come si confà a ogni sistema di potere totalizzante. Ne è esempio il caso della cognata di Ewelina, Tita Boccafusca, che si toglie la vita, in circostanze che lasciano più che qualche dubbio, dopo avere tentato di svincolarsi dalla famiglia acquisita.
A volte, entro le dinamiche delle famiglie mafiose, le donne riescono ad acquisire posizioni di rilievo negli affari criminali. L’autore descrive, tra gli altri, il caso di Edyta Kopaczynska, che, andata in moglie al boss emergente di Cosenza, Michele Bruni, si è trovata al centro di una rete di relazioni che le garantiva importanti privilegi economici e il rispetto da parte di un gran numero di persone; inoltre, la fiducia coniugale le permetteva di venire a conoscenza dei principali legami che il marito intratteneva in tutta la Calabria e in Campania, così come degli omicidi commessi. La conoscenza dei fatti, in ambito mafioso, non è solo espressione di fiducia, ma anche e soprattutto riconoscimento di un ruolo di potere; inoltre, a quanto si apprende, ella stessa gestiva direttamente alcune attività della cosca, come quelle relative al denaro a strozzo
. Tali privilegi e tale posizione di potere, però, vennero immediatamente meno alla morte del marito; una vicenda che sottolinea come nella logica mafiosa l’organizzazione sia sempre fondata sul maschio e pretenda che il comportamento della donna rimanga entro quei limiti di subalternità. Anche quando controlla e comanda. Sono molti i casi che mostrano come nella storia della mafia le donne assumano ruoli di primo piano. Ma si tratta, sempre, di situazioni che poco hanno a che fare con processi di reale acquisizione di potere; essendo piuttosto un potere esercitato nelle veci di un uomo, quindi a termine, condizionato. Men che meno è possibile intravverdervi meccanismi di un pur perverso processo di emancipazione, laddove vengono riprodotti, anche con la complicità attiva delle donne, logiche fondate sul maschio.
In ogni caso, a soccombere, in questa logica di dominio esercitato e subito, è la qualità della vita dei soggetti; soltanto andando al fondo di questo elemento è possibile immaginare percorsi di emancipazione dal potere mafioso. È a questo punto della riflessione che mi sovvengono le parole di Renate Siebert quando, nel suo Le donne la mafia (il Saggiatore 1994), introduce la vicenda di Rita Atria, colma di emozione, dolore e sottile speranza:
Il pentimento, la scelta di ripartire da sé, bene o male, significano diventare protagonisti, agire in prima persona, essere, ancora una volta, attivi. (…) Credo che la sorte che tocchi, in questi contesti, alle donne, sia più difficile perché mediata. Diventare protagoniste, in un contesto segnato dalla dipendenza, richiede uno sforzo particolare, uno sforzo in più. Il proprio agire in prima persona, in questi casi, è tutto da inventare, non ci sono tradizioni, modelli culturali, non ci sono modelli da imitare, vie note da percorrere.
Quel partire da sé non riguarda soltanto i protagonisti delle vicende mafiose; riguarda in qualche misura tutti noi. La lettura delle pagine di Badolati, ispirate da una volontà di conoscenza e al contempo attraversate da una passione civile, possono essere fonte per alimentare quel desiderio di buona vita che troppo spesso è assopito nella nostra coscienza.
1. La ’ndrangheta: padrini, manager,
colletti bianchi e assassini
Dai vecchi capi ai moderni uomini d’affari
La ’ndrangheta è una mafia insidiosa e silente. Rappresenta su scala internazionale un modello di organizzazione criminale strisciante e incline alla dissimulazione, abituata da un secolo a flirtare con il potere e restia all’utilizzo di sistemi d’attacco frontale contro le Istituzioni statuali. Allo stragismo di matrice siciliana preferisce la sotterranea trattativa, il ricatto nascosto, il messaggio trasversale. Da decenni coltiva floridi interessi in varie regioni del mondo e vive in immersione
, lontana dai grandi circuiti mediatici e forte di indissolubili legami parentali.
È una mafia antica nei riti, nei linguaggi e nei simbolismi ma modernissima e manageriale nella gestione degli affari e nel governo del territorio. Ogni cosca è costituita da uomini imparentati fra loro e pronti ad offrire i rampolli e le donne del casato
in sposi e spose alle figlie o ai figli di capi
di altre ’ndrine. L’obiettivo di ogni padrino che si rispetti è, infatti, l’ampliamento della sfera di influenza della propria famiglia-clan attraverso lo sperimentato metodo dei matrimoni combinati e dei comparaggi utili alla creazione di alleanze basate sul vincolo della consanguineità. Se la ’ndrangheta del secolo scorso guardava prima al mondo rurale e, poi, ai sequestri di persona, alimentando, nel contempo, il mito di uomini capaci di spietate vendette come Giuseppe Musolino, di Santo Stefano d’Aspromonte, Angelo Macrì di Delianuova, Domenico Maisano di Drosi, Giuseppe Barca di Oppido Mamertina, quella del terzo millennio punta dritto alla contaminazione degli ordini professionali e della società civile, sfornando figli e nipoti esperti in professioni mediche, ingegneristiche e giuridiche, e investendo capitali in beni e servizi sparsi per il globo. I boss di oggi sono azzimati, parlano in perfetto italiano, usano l’iPod e il BlackBerry e guardano ai mercati mondiali dopo aver conquistato e saccheggiato l’Italia.
Non c’è azienda in Piemonte, Lombardia, Liguria, Umbria, Toscana, Lazio, Emilia Romagna e Veneto che non abbia sperimentato la diabolica capacità dei boss calabresi di alterare e condizionare il mercato e la libera concorrenza, d’infiltrarsi nella politica, di impadronirsi con capitali freschi di imprese in difficoltà economica, di scalare, addirittura, i vertici di banche e istituti di credito. Fatto scempio della Penisola, le consorterie hanno scatenato la loro campagna di colonizzazione
dell’Europa, investendo in immobili e attività commerciali nell’Est europeo, in Olanda, Belgio e Spagna, ripetendo l’offensiva scattata già negli anni ’70 in Germania, Francia del Sud, Australia e Canada.
Quella della seconda metà del Novecento fu un’azione di espansione avviata sfruttando in modo deviato il fenomeno dell’emigrazione, mentre quella dei nostri giorni si compie attraverso gli strumenti della globalizzazione. Basta un clic
sulla tastiera di un computer per contattare partner commerciali, avviare collaborazioni
e stabilire patti finanziari e investimenti poi perfezionati attraverso società costituite ad hoc nei paradisi fiscali e manager prezzolati e insospettabili pronti ad imbarcarsi sul primo aereo per firmare contratti e stabilire quote e dividendi. Il Vecchio continente s’è accorto dei picciotti
partiti dalla Locride o dalla Piana di Gioia Tauro, dal Vibonese o dal Crotonese, dal Cetrarese o dalla Sibaritide, solo dopo la strage di Duisburg, nel 2007, quando i vendicatori
di San Luca saldarono i loro conti facendo sei vittime davanti ad una pizzeria ch’era appena stata sede di un rito di affiliazione
.
La parola faida
, che richiama gli ancestrali metodi della giustizia privata e un «potere millenario – scriveva l’intellettuale Corrado Alvaro – che irride tutti gli altri poteri» occupò in quell’occasione improvvisamente le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. La comunità internazionale inorridì e prese finalmente consapevolezza dell’esistenza di una entità criminale che opera attraverso