Ingialliti sudari
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Anteprima del libro
Ingialliti sudari - Dario Taurino
POSCRITTO
Dario Taurino
Ingialliti sudari
I Canti del Male
Youcanprint Self-Publishing
Titolo | Ingialliti sudari
Autore | Dario Taurino
ISBN | 9788827816295
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A Avril Ramona e Josephine
CONSUMPTA SUDARIA CARMINUM LIBRI TRES
PRAEFATIO
Nelle morte cavità della Notte, quando i pensieri stillano sulle immote acque dei laghi del tempo, mi accingo, come sovente mi accade di fare, a vergare questi sdruciti versi – infausta rivelazione di un insano scellerato, che ha abiezione per la luce del giorno – per recare alla mia avvizzita anima, fiaccata dai malanni contratti nelle incerte stagioni della giovinezza, un poco di desiata requie, onde ritardare la mia rovinosa caduta negli sterili abissi della Follia. Più volte, se ben ricordo, la mia carne di fanciullo riottoso, cariata da un’inestinguibile necessità di lordarmi coi liquami della lussuria, dedito agli amari nepenti che danno l’oblio, si è imporporata della rutilante luce dell’aurora dalle dita di rosa, prima di celarsi nei cerosi anfratti dell’avita dimora paterna, le cui spesse mura – oscura latebra, intrisa di lacrime amare e di sputi – hanno sempre contenuto le urla del mio cuore malato, che essudano, come putrida semenza, da questi ingialliti fogli, intrisi del sudore della mia insonne mano callosa.
Punito dal severo Fato, mi sono sempre aggirato – emaciata ombra, lutata dalla caligine della necessità – per le fosche e silenti terre della Notte, e come una creatura colta da inestinguibile fame, ho masticato a lungo ammuffiti sudari e bevuto caldo sangue, lontano dal calore della vita che mi è sempre stata ostile. Da molto tempo ormai, abito in un Inferno fatto di spesse mura di carne, che il tempo, reo di nascondersi nei cunicoli delle mie assenze, non pare abbia mai sbrecciato, mai scalfito; né le rumorose e interminabili crapule hanno mai fatto marcire il mio ventre di esecrabile cinedo, il cui stigio e mesto verbo ha consacrato alle maledette lingue del vangelo della disperazione.
Costernato dagli altisonanti canti dell’espiazione, mi ritrovo, ogni giorno, a officiare solenni preci e sacrifici dinanzi a vuoti altari eburnei, illuminati dalla fioca luce del fuoco sacrificale, cosparso di aulenti oli che sgocciolano sulle bianche vesti di attento miste, mentre gli odorosi fumi che sgorgano da incontinenti turiboli effondono, nella morta aria del mio tempio di ombre vetuste (la stipata dimora!), raro olibano, acciocché la divina ulzione possa venire purificata, a causa della quale venni colpito per tre volte nel delicato costato da acuminata enea lancia. Ingoio, con estrema fatica e con riluttanza, lunghe sorsate di veleno, acciocché spenga le oscene salmodie che inneggiano ai miei immaturi verbi – scomposti arazzi di sozzo plauso intrisi.
O pietà divina, tu che redimi il peccatore penitente, allevia le mie pene, e soffia le fiamme dell’alta pira giù per i miei abissi, acciocché le loro lingue insolenti lambiscano le mie illividite carni e le consumino in un sol combusto pasto, e l’oltraggio delle ombre che ivi hanno dimora presto si asciughi. Ho attraversato tutte le età del mondo, per vivere in quella della decadenza più santa, nella quale ho posto in pesanti e rugginosi ceppi la voce del mio cuore idolatra; di esse, non ricordo che le torbide maree della rabbia dissolvere la mia ferita carne di fanciullo, tristo retaggio che il Male restituisce del proprio peccato mortale. Sento ancora, nella brevità del respiro della giovane tenebra, il funesto canto della morte invocare il mio antico nome: nel velamine dell’espiazione, ho celato soltanto le mie vulnerate membra, mentre le sue stanche ombre sono nude, e mi sconfessano dinanzi al chiassoso consesso degli dèi adirati e falsi.
Deliro come se fossi affebbrato, ma la mia voce non si spande, come mesto flammeo, sui cadaveri dei miei malaticci verbi, putrido soma nel ventre del disadorno ciborio occultato. Io, che ho versato l’amaro cruore delle mie intonse carni di martire del mendacio Verbo, non risorgerò più nella carne; precipiterò, invece, nel fosco abisso delle mie passioni abortite, subendo dell’urna di Minosse l’incerta sorte. Sono l’accolito del superno Male, della quale ascesa decanto le prodezze e le funeste pugne, come le vili e enfie menzogne: esso, creatura d’abominio impareggiabile, si aggira per le vuote e vetuste stanze della mia vagula animula, e da essa, come scaltro furo, trafuga il fuoco della ragione. Stolto, nell’ora più incerta della Notte, tento di invocare il sonno dei Titani, acciocché addormenti la furia – fuoco imperituro, che della tenebra esalta il tumefatto volto – che arde dentro le mie ripide solitudini di candido dio lapso.
Aspergo di aulenti balsami le impenitenti carni mie per sanarle dalla devozione, per poi avvolgere in ingialliti sudari ciò che resta del mio mortale sembiante – simulacro difforme di carne, che degli dèi superni è l’imperfetta imitazione. Nel martirio dei miei stinti giorni, conficco su canne d’issopo i miei sogni nati prematuri, e li offro al Cielo dimentico perché faccia tacere i suoi stonati canti di remissione dei peccati. Tu, dio decaduto, spodestato dal dorato soglio del Cielo, che ti ergi dai miei rutilanti abissi senza eco, allevia le mie sanguinanti miserie, e dammi la pace eterna.
Tu, immacolato Lucifero, figlio immemore del mio insonne doppio – specchio deforme dell’Ego – spegni l’irta fiamma che lambisce le mie carni, ormai aduste di martire converso al mendace precetto. Amareggiato dal lutto delle mie violate promesse, tracanno avido lunghe sorsate di veleno, acciocché