Angeli Randagi
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Anteprima del libro
Angeli Randagi - Alberto Danieli
Epilogo
Presentazione
di Mario Pavan
Questo breve romanzo, il primo di Alberto Danieli, è un distillato di Storia e storie, arricchito dalla musica e dal suo mistero, nelle atmosfere di una Venezia che si offre come una donna generosa, pur rimanendo nella penombra. Si percepiscono, tra le pagine, le inquietudini di una Serenissima proiettata nel Mondo Nuovo, ma con la pesante eredità di una Controriforma che resiste ad ogni cambiamento.
È la storia di alcune donne e della loro vita, sospesa tra desiderio, arte e spiritualità. L’autore si destreggia in descrizioni sobrie ma efficaci, ampliando i confini di un Veneto che si rivela nella sua bellezza e nella sua diversità. Dalla piazza S. Marco delle notti di Carnevale, si passa a sperduti ospitali
di montagna nei quali si lotta disperatamente contro la diffusione della pellagra e delle malattie della povertà, fino a Vienna, dove la grande musica vive la sua stagione migliore.
È anche la storia di un amore saffico che trascende il pregiudizio, l’ottusità di un moralismo ipocrita, il dolore imposto dalla separazione e dalla lontananza, l’ineluttabilità della morte.
I rosari di religiosità tra chiese e chiostri
modulano i suoni di un violino riemerso
che è vita e dà senso alla vita stessa:
sotto i cieli di un Tintoretto come ritrovato
tra calli e profili di basiliche e chiese.
E la Serenissima stanca ascolta le sue stagioni,
quelle del prete rosso su note di violino
a Santa Giustina così lontana e vicina
nel cuore, senza distinguere tra boschi
e cattedrali, tutte ma tutte oasi di Natura.
Mario Pavan
Il rosario nero
Parte I
Prologo Valli del Cadore - Ospitale di S. Floriano
Il XVIII è al tramonto e le armate di Bonaparte attraversano le terre della Serenissima Repubblica di Venezia diffondendo il verbo della rivoluzione e del mondo nuovo. Ma i clamori della storia non raggiungono questa landa battuta dal vento dove i raggi del sole si dissolvono all’ombra della montagna nelle prime ore pomeridiane.
Luisa Bardi è Madre Superiora dell’Ospizio dei poveri. Come ogni giorno, madre Luisa si alza prima dell’alba e prega in ginocchio, sul pavimento della cella, sotto un crocifisso in legno appeso alla parete. Vicino al letto, una libreria contiene, stipati l’uno accanto all’altro, libri di ogni genere. Sullo scrittoio, disposti in disordine, manoscritti, disegni e tavole anatomiche, spartiti e pentagrammi musicali e un violino. Una viola da gamba è appoggiata al muro, sotto la finestra che dà sul chiostro del convento. Come ogni mattina a quell’ora qualcuno bussa alla sua porta. È Maria, una degente dell’Ospizio. Entra con un infuso di erbe L’aspettiamo nella cappella, Madre. Siamo pronti
.
Madre Bardi, in quel luogo di dolore, ha creato un coro. Ne fanno parte alcuni malati a cui ha trasmesso la passione per la musica e per il canto. Sono i malati della miseria, vittime di malattie come la pellagra, lo scorbuto, la demenza e l’ospizio è il rifugio in cui hanno incontrato la misericordia di Dio.
Prima di avviarsi verso la cappella, Luisa Bardi, come ogni giorno, rilegge le poche parole vergate a mano su una pergamena, che nel corso di questi anni le hanno dato il coraggio di vivere. Datemi la vostra benedizione Madre. Eleonora
Quelle parole vengono da lontano, da un’altra vita.
Venezia. Istituto di S. Giustina Venti anni prima
Luisa Bardi aveva da poco raggiunto l’età di quarant’anni. Insegnava composizione armonica, tecnica strumentale, violino, viola e musica per archi, presso l’Istituto di S. Giustina. Il suo nome era conosciuto e apprezzato nei circoli di Venezia, come quello di una musicista di talento. Dirigeva concerti che il gruppo orchestrale di SG teneva in ambienti raccolti: inchiostri, cappelle, sale d’ascolto. Luisa Bardi era una bella donna. Luisa Bardi era una monaca.
Veniva da una famiglia nobiliare del bassanese, a cui erano appartenuti autorevoli uomini di chiesa e religiose come lei. Il fratello Gregorio era vescovo nelle diocesi di Belluno e del Cadore. Luisa sembrava predestinata; era la sua strada perché incoraggiata dal padre, austero, severo, calvinista nel modo di concepire la vita, perché a Luisa il mondo faceva paura e le mura di un convento si presentavano come una protezione. Gli uomini le apparivano incomprensibili e non si sentiva portata alla ristrettezza di un vita familiare. Lo studio e la musica le avrebbero dato libertà, anche portando il velo.
L’istituto di S. Giustina rappresentava un motivo di vanto ed orgoglio per chi nel governo della Serenissima intendeva diffondere le idee e la cultura dei tempi nuovi ed era al tempo stesso osteggiato da chi difendeva ostinatamente la tradizione. L’Istituto era costituito dall’Ateneo che comprendeva la Scuola superiore di studi umanistici e di letteratura classica e il liceo musicale. In alternativa all’Ateneo le allieve potevano iscriversi all’ Accademia Scientifica che offriva corsi di matematica, fisica, astronomia. C’era infine una terza possibilità per le ragazze dotate di abilità pratiche e artigianali: la Scuola d’arte e mestieri formava miniaturiste, ragazze esperte nell’arte incisoria, decoratrici, ricamatrici e ceramiste.
L’insegnamento era affidato alle monache che risiedevano nel convento. Le monache e le madri che lo dirigevano erano libere di non portare il velo al di fuori dei momenti di preghiera e delle funzioni religiose.
S. Giustina era sostenuta dall’ala libertaria del clero veneziano che era la corrente dominante nel dibattito sempre aperto tra riformisti e conservatori. Ospitava le figlie del patriziato ed era per questo oggetto di attenzioni particolari Per Madre Luisa rappresentava un angolo di Paradiso, una Città del Sole per artiste, religiose, letterate e sognatrici come lei. Madre Luisa Bardi aveva i capelli castani che le scendevano sulle spalle e che raccoglieva qualche volta in una treccia. Al collo portava una collana leggera di perline bianche.
L’Istituto aveva una direzione collegiale, il quadrumvirato. Era composto da Madre Ludovica Favaretto, economa, responsabile dell’amministrazione. Donna rigida, ma generosa, totalmente dedita al proprio lavoro. Nessuno aveva mai visto il colore dei suoi capelli.
Madre Martina Orsi era invece coordinatrice e docente nell’indirizzo scientifico e appassionata di astrologia e di esoterismo. Disponeva di un osservatorio che nel corso del tempo aveva dotato di strumenti che le consentivano di studiare le stelle tra le quali desiderava perdersi. Avrebbe potuto essere una donna di scienza nella Venezia del Settecento, ma come diceva scherzando, era solo una suora (femena e suora, che disgrassia…
). Amatissima dalle sue studentesse, per la preparazione e cultura, per l’umanità, ma soprattutto perché faceva oroscopi alle ragazze che lo richiedevano, oroscopi accurati, arricchiti da calcoli e disegni astronomici dove avrebbero potuto leggere le linee del loro destino per quanto fossero unicamente interessate a responsi di natura sentimentale.
Oltre a Luisa Bardi, cui spettava la direzione del Liceo musicale, del gruppo orchestrale e del coro, del quadrumvirato faceva infine parte Benedetta Lazzari, madre superiora e preside del collegio. L’ultima parola su qualsiasi questione era la sua. Docente di letteratura antica esigente e severa, rappresentava l’ala radicale di S. Giustina. Era un’umanista e si riconosceva nello spirito libertario della modernità.
Ludovica Favaretto amava le sue consorelle e pregava per loro: per Martina, perchè rinsavisse presa com’era dai misteri dei corpi celesti, per Benedetta perché, mezza atea, non finisse all’inferno e per Luisa che fra di loro era la più indifesa. Non era nata per essere suora e la musica non sarebbe bastata a proteggerla dalle insidie della vita.
Il quadrumvirato era a capo di un numero consistente di sorelle minori
, dedite a mansioni ordinarie per quanto importanti: alcune erano monache che si erano formate nell’istituto e dopo un periodo di perfezionamento erano diventate assistenti delle titolari. Affiancavano le docenti nelle lezioni, tenevano lezione loro stesse. Presenziavano alle prove delle allieve con facoltà di voto. Quando non erano impegnate nell’attività didattica, si chiudevano in biblioteca. Un parere diffuso attribuiva loro poteri soprannaturali: potevano rimanere senza mangiare, senza dormire isolate dal mondo e senza nessun contatto con il resto del genere umano per periodi di tempo interminabili. Se fosse venuto il giorno del giudizio, se l’angelo vendicatore annunciato dalle trombe dell’Apocalisse fosse emerso dalle acque con la sua spada fiammeggiante, lo avrebbero rimproverato per tutto quel fracasso, per tornare subito dopo ai loro studi e alle loro ricerche.
Poi venivano le guardiane a loro volta suddivise in due categorie: le prime erano denominate le lupe
. Magre come un chiodo e pallide come la morte. Preposte alla sorveglianza, all’osservanza della disciplina, allo svolgimento delle pulizie e dei lavori di manutenzione delle inservienti. Particolarmente odiate perché vedevano tutto, sapevano tutto e riferivano tutto alla Superiora che ascoltava, o faceva finta di ascoltare, o alla Favaretto, che invece ascoltava attentamente limitandosi comunque a qualche richiamo Per il resto lasciava correre tanto il diavolo vince sempre
era solita dire.
Le lupe
perquisivano le stanze e le ragazze si vendicavano seminandovi di tutto: dal topolino morto trovato in giardino all’impiccato nello sgabuzzino, un pupazzo di panno che poteva richiedere notti intere di lavoro. Le guardiane soprannominate Valchirie
avevano gli stessi compiti delle lupe
, ma erano morfologicamente diverse. Suore dalla corporature imponente ma di animo gentile. Intervenivano per placare gli animi in occasione di scaramucce e battibecchi o per interrompere qualche bagordo notturno.
Erano temute per le dimensioni delle mani, grandi come badili. Una notte le allieve avevano inscenato la simulazione di una possessione demoniaca. Era stata scelta la più estrosa e scapestrata della compagnia, assistita da una truccatrice, da una regista e da un gruppo di supporto. C’era grande attesa per l’evento. In una notte l’istituto fu turbato da urla improvvise (il famoso gruppo di supporto) e la posseduta si rivelò efficace nella sua parte: sproloquiò in latino, greco, spagnolo, veneziano, il tutto condito da una bestemmia, una sola, per rendere più credibile la cosa. Si era materializzata dal nulla una valchiria, visibilmente infastidita (era meglio Satana di una valchiria infastidita), che in un attimo risolse la faccenda. Una badilata in faccia alla malcapitata e gli spiriti immondi abbandonarono la fanciulla con la luce del Redentore che si diffuse nella stanza. E calò un silenzio di pace fino all’alba.
Le suore fiordalise
, invece, erano vere e proprie artiste del giardinaggio. L’orto botanico di S. Giustina era la perla della laguna. Le allieve quando parlavano di loro (con loro era quasi impossibile perchè di natura angelica, eterea) ricorrevano alle Metamorfosi di Ovidio.
Infine le monache infermiere, figure sacrali, considerate dalle ragazze vere e proprie sacerdotesse con la missione di vegliare sulla loro bellezza e sulla loro salute, in grado di risolvere drammi come un labbro screpolato, un brufolo sulla guancia, un’unghia scalfita o qualche linea di febbre. Si trattava comunque di donne capaci, esperte. Nella farmacia e nell’erboristeria di S. Giustina si potevano trovare unguenti, infusi, essenze aromatiche, tisane e decotti preparati con piante medicinali, pasticche curative a base di menta, liquerizia, verbena, aloe, gomma arabica, tarassaco. Erano soprannominate, con rispetto e deferenza, le dotòre
.
Il quadrumvirato si riunisce
Le madri si riunivano una volta alla settimana per discutere ordini del giorno che andavano dai problemi amministrativi, alle relazioni con il mondo esterno, al regolare funzionamento dell’Istituto. Più raramente le madri venivano convocate dalla superiora in riunioni straordinarie. Le sedute si aprivano con alcuni minuti di raccoglimento a cui seguiva la preghiera. Venivano effettuate nella cappella dell’Istituto. In questo caso invece la riunione si tenne nella sede della Direzione. Madre Lazzari aveva davanti a sé un incartamento da sottoporre all’attenzione delle consorelle, relativo ad una richiesta di ammissione all’Istituto, richiesta accettata dal momento che tutto era in ordine. Ma Benedetta Lazzari dava segni di preoccupazione e ne spiegò le ragioni:
"Il nome della nuova ospite non vi dirà nulla. Si tratta di Eleonora Dal Fos. Aristocratica della Marca, appartiene ad una delle famiglie più potenti e conosciute di quella terra. Il padre è Erminio Dal Fos, personaggio controverso, influente, oltre che ricchissimo. Stando alla documentazione in nostro possesso, la ragazza ha dimostrato capacità notevoli negli studi. Ma il suo curriculum parla anche di un carattere irrequieto, ribelle, insofferente ad ogni regola, di atti di insubordinazione e atteggiamenti irriverenti verso qualsiasi forma di autorità.
Il padre ha solide relazioni a Venezia. Potrebbe darci problemi ma non ho paura di lui. Mi preoccupa invece questa lettera che ci è pervenuta dall’Ufficio inquisitorio, il braccio armato dei falchi, la polizia segreta dei preti di Venezia. Ve la riassumo decifrando il messaggio in codice che nasconde nel tono accomodante, ingiunzioni per non dire minacce. La sostanza è questa: ci rammarica il fatto, care sorelle, che accogliate tra di voi una libertina (sono al corrente dell’arrivo della dal Fos perché vogliono i nomi delle nuove allieve). Ci rammarica ma non ci stupisce e nel caso di irregolarità, di comportamenti illeciti della suddetta, vogliamo essere messi al corrente e siamo pronti a intervenire. Quindi collaborazione e ubbidienza alla Madre Chiesa.
Eleonora Dal Fos, che alle proprie spalle ha una storia tormentata, potrebbe essere il pretesto per uno scandalo, per limitare la nostra autonomia, per tagliarci le ali e screditarci. Ma quelle righe nascondono o credono di poter nascondere altro. Sapete quanto la pratica dello spionaggio e della delazione siano diffuse a Venezia. Sono sicura che abbiano già mandato