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Il potere dell'educazione
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E-book392 pagine5 ore

Il potere dell'educazione

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Info su questo ebook

In un tempo in cui continuano a fronteggiarsi, senza bussola pedagogica, i sostenitori del permissivismo (della libertà senza confne) e quelli dell’autoritarismo (della libertà repressa), il volume intende ripensare il tema del potere, e quello strettamente connesso dell’autorità, nei processi educativi che si svolgono nella famiglia, nella scuola, nei luoghi del lavoro, non senza averne prima tratteggiato, mediante un’operazione di interpretazione pedagogica, l’identità di strumento fnalizzato ad aiutare la persona a conquistare la libertà responsabile. Chi educa utilizza il potere che ha per dare potere al soggetto educativo dotandolo della capacità di compiere volontariamente e moralmente le sue azioni. Esercita un’autorità funzionale contrassegnandola come emancipativa e per questo destinandola ad accompagnare la coscienza dell’e- ducando a destarsi e formarsi nonché ad assicurargli le possibilità e le condizioni idonee a costruirsi come personalità governata dal principio-guida della singolarità, in modo da evitare i pericoli dell’eterodirezione e della copionalità, dell’intruppamento gregario e dell’omologazione, e da caratterizzare secondo originalità, autonomia e responsabilità il proprio essere, pensare, sentire, decidere, conoscere, apprendere, convivere, agire. Alla base dell’intero discorso sta il convincimento che l’educazione si serve del potere per conseguire il fne dell’umanizzazione della persona. Se l’autorità è il principio che regola il potere, questo è il dispositivo che consente all’autorità di esplicitarsi e di raggiungere la meta che si è prefissa. Senza autorità non può esserci vera ed effcace relazione educativa. 
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2018
ISBN9788838247514
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    Anteprima del libro

    Il potere dell'educazione - Bruno Rossi

    Bruno Rossi

    IL POTERE DELL'EDUCAZIONE

    ISBN: 9788838247514

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Prefazione

    I. ERMENEUTICA PEDAGOGICA DEL POTERE

    1. Il 'potere su' per il 'potere di'

    2. Autorità e libertà alleate

    II. IL POTERE PER L'EDUCAZIONE

    1. Potere etico

    2. Autorità autorevole

    3. Obbedienza convinta, disobbedienza critica

    4. Contro l’autoritarismo e il permissivismo

    5. L’autorità del valore

    6. Dialogo e testimonianza, strumenti emancipativi

    7. Liberarsi dal potere sopra e dal potere contro

    III. GENITORI AUTOREVOLI

    1. Lasciar essere orientando

    2. Disciplinare autonomizzando

    3. Accompagnare guidando

    4. Condurre empatizzando

    IV. INSEGNANTI AUTOREVOLI

    1. Eros in aula

    2. Star bene per apprendere

    3. Disciplina e discipline

    4. Insegnare con il cuore

    V. LEADER AUTOREVOLI

    1. La persona al centro dell’organizzazione

    2. Talent developer

    3. Empowering leadership

    4. Caring leadership

    5. Potere emotivo

    Bibliografia

    Indice dei nomi

    CULTURA

    Studium

    142.

    Scienze dell’educazione, Pedagogia e Storia della pedagogia

    Bruno Rossi

    IL POTERE DELL'EDUCAZIONE

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2018 by Edizioni Studium - Roma

    ISBN 9788838247514

    www.edizionistudium.it

    Il governante più alto è quello della cui esistenza i sudditi si accorgono appena. Poi viene quello che amano e stimano. Poi quello che temono. Infine quello che disprezzano.

    (Lao Tzu, La regola celeste)

    Onnipresenza del potere: non perché avrebbe il privilegio di raggruppare tutto sotto la sua invincibile unità, ma perché si produce in ogni istante, in ogni punto o piuttosto in ogni relazione fra un punto ed un altro. Il potere è dappertutto; non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove.

    (M. Foucault, La volontà di sapere)

    Il potere è un elemento universale della condicio humana , esso determina radicalmente l’essenza della socialità umana. […] si annida dappertutto, si tratta solo di imparare a vederlo. […] è onnipresente, e la ricerca di uno spazio libero dal potere diviene un rompicapo speculativo. […] L’ opportunità di esercitare potere è inscritta nelle azioni sociali quotidiane. Essa può essere sfruttata intenzionalmente e in modo eclatante in infiniti contesti.

    (H. Popitz, Fenomenologia del potere. Autorità, dominio, violenza, tecnica)

    Il potere è un inevitabile aspetto di ogni relazione umana, e influisce su tutto, dalle nostre relazioni sessuali al lavoro che svolgiamo, le automobili che guidiamo, la televisione che guardiamo, i sogni che facciamo. Noi siamo un prodotto del potere molto più di quanto la maggior parte di noi possa immaginare.

    (A. Toffler, Powershift. La dinamica del potere)

    Il potere è la realtà duratura di ogni tipo di ambiente educativo, organizzativo e comunitario.

    (S.D. Brookfield, Powerful Techniques for Teaching in Lifelong Learning)

    Ogni qual volta vogliamo fare qualcosa come agenti, il potere fa la sua comparsa.

    (J. Hillman, Gli stili del potere)

    Il potere è un grande narcotico: dà vita, nutre, ci rende schiavi.

    (M.F.R. Kets de Vries, Leader, giullari e impostori. Sulla psicologia della leadership )

    Prefazione

    Coloro che hanno responsabilità educative spesso non riescono a rendersi autori di un agire autorevole e quindi a rappresentare un simbolo e una presenza prestigiosa per i destinatari della loro azione. Tale incapacità è inseparabile dall’odierna contestazione globale dell’autorità, dall’attuale crisi dell’autorità, dal contemporaneo tramonto, e forse tracollo, del principio di autorità.

    Di tale crisi v’è chi individua la causa nella diffusione di un individualismo illimitato, generato a sua volta dalla progressiva affermazione di una visione utilitarista e opportunista del mondo che ha finito con l’incrementare relazioni contrattuali e competitive, con il ridurre affinità elettive e solidarietà e con l’assumere il criterio quantitativo come il solo metro di valutazione dell’essere umano. Sembra che l’unica autorità e l’unica gerarchia accettate e accettabili siano determinate dal successo, dal profitto, dal potere.

    L’uomo postmoderno mira a conquistare potere sugli altri. Il coefficiente di forza o di debolezza pare essere l’unico parametro scelto per pensare e concepire l’esistenza personale. La forza è diventata così ossessiva che la società ha finito per originare una concezione della libertà basata sull’egemonia e sul possesso. L’autonomia-dominio è diventato l’ideale di autonomia.

    In questo tempo connotato dalla dissoluzione della potenza della tradizione e dall’indebolimento generalizzato di ogni autorità simbolica guadagnano sempre più spazio competizioni, arrivismi, cinismi, avidità, autocentramenti, godimento fine a se stesso, realizzazione di sé estranei alle regole e alle costrizioni.

    In questa sociocultura può essere trovata una delle cause maggiormente responsabili dell’iper-soggettivazione, del sovradimensionamento dell’io e della svalutazione del tu e del noi, del radicamento del modello dell’indifferenza e del relativo, della progressiva affermazione del culto dell’ego come prototipo culturale. Così prossimi sono i pericoli della finalizzazione dell’altro a mezzo di conferma del proprio sé e della mancanza di premura per lui.

    In verità, la nostra è una stagione caratterizzata non poco da edonismo, narcisismo ed egoismo, popolata da numerosi soggetti monologanti chiusi in un impoverente solipsismo etico, disegnata dalla dilatazione dell’anonimia e dell’impersonalità, da comunicazioni contrassegnate dalla cura del proprio particolare, dalla mentalità del tornaconto e della convenienza, da diffusi atteggiamenti pragmatici sostenuti da un considerevole funzionalismo. Il significato degli stessi rapporti intergenerazionali non di rado è più strumentale che espressivo, riguarda più la sfera dell’utile che quella morale e affettiva.

    Sono facilmente registrabili lo sbilanciamento della relazione diritti-doveri a vantaggio dei primi, il disequilibrio del rapporto tra desiderio e rispetto del limite a favore del primo, la prevalenza della libertà assoluta nei confronti della libertà responsabile, un essere e un fare marcatamente discrezionali finanche senza condizioni, fughe nell’autoreferenzialità e nella chiusura, condotte interpersonali moralmente disimpegnate tutt’altro che idonee all’affermarsi di una filosofia della persona e di una cultura del cuore.

    Disorientata tra le polarità del dominio e del servizio, della conquista e dell’amore, dell’appropriazione e dell’aiuto, la persona sembra disposta più a prendere che a donare, più a difendersi che a spendersi, più a perseguire quello che è utile a sé che quello che è vantaggioso per gli altri, più a soddisfare i propri bisogni e interessi che a esprimere attenzione per quelli altrui. Il per-sé pare di gran lunga più coltivato e custodito del per-altri.

    Non poche volte l’altro è ridotto a insignificante realtà fisica, a partner senza volto e senza anima cui monologisticamente rivolgersi, cui unidirezionalmente dire, cui pragmaticamente rapportarsi. È svilito a specchio, a destinatario passivo, a oggetto da adoperare.

    Troppo spesso lo scambio è eletto a occasione di strumentalizzazione dell’altro, con il quale stabilire una relazione per avere, possedere, ottenere risarcimento, perseguire i propri obiettivi e soddisfare le proprie voglie, senza ostacoli e opposizioni, svincolati da norme e legami, sordi alle irrinunciabili istanze morali di rispetto e stima. Sovente manca il senso della libertà conquistata, sempre inseparabile dalla responsabilità.

    Il livellamento spersonalizzante è confuso con la parità ontologica. Il permissivismo e la facoltà di autodeterminarsi al di là di regole e criteri orientativi sono equivocati con la democrazia. L’autorità, identificata con l’autoritarismo, è pensata come l’opposto della ragione e della libertà e il suo rispetto è avvertito come rassegnazione pusillanime. La norma esterna è giudicata limitativa dell’autonomia personale. La libertà è interpretata come alternativa a prescrizioni e legami. L’obbedienza, considerata condotta arrendevole e autoliberticida, è ritenuta espressione di soggezione e minorità. L’aver (sempre) ragione è vantato come un diritto irrinunciabile. La fatica e il sacrificio personale non sono accettati. L’appagamento non deve conoscere differimenti. Complessivamente l’esistenza viene vissuta come una serie di limiti e vincoli privi di legittimazione.

    Rilevanti sono l’insofferenza per i principi e i riferimenti normativi, l’intolleranza per il confine, il fastidio per qualsiasi impedimento e pur minimo condizionamento, la propensione all’autotutela continua e all’autogiustificazione permanente, il convincimento arrogante di poter fare a meno della guida di un altro significativo fuori di sé, l’illusione di potersi fare da soli, l’orientamento a farsi governare dal criterio relativistico del Perché no? che, privando di significato ogni esperienza del limite, sottrae senso alla rinuncia e alla proroga della gratificazione pulsionale e alimenta così un distruttivo godimento autistico.

    In particolare nell’universo adolescenziale e giovanile non sono rari la trasgressione impulsiva e volgare, la condotta spavalda e bulla, l’allontanamento deliberato dalla normalità, il disordine, l’inosservanza aprioristica del divieto, del legame, della tradizione, la provocazione sfidante e la disobbedienza irriverente.

    In nome del rispetto della libertà dell’educando (figlio, alunno, studente, soggetto in formazione) chi ha la responsabilità dell’ aver cura ha difficoltà a trovare le ragioni per giustificare e motivare la richiesta di obbedienza. Gli è arduo soddisfare il compito di convincere ad accettare e osservare regole e condizioni. Non riesce a farsi ascoltare, a ottenere il consenso, a sostenere il valore della disciplina, a trovare facilmente la legittimazione per esercitare potere e autorità e conseguire il credito necessario per conquistare quell’adesione e quella complicità che sono irrinunciabili per il raggiungimento degli obiettivi progettati. Sovente preferisce costruire uno scambio orizzontale, un’interazione tra pari, una relazione simmetrica, una comunicazione neutra. Fatica a transitare dall’emotivo all’educativo. In questo modo, finisce per perdere quel potere autorevole che è indispensabile per attuare una relazione di aiuto e servizio.

    A causa tanto dell’educatore quanto dell’educando (della debolezza del primo e della prepotenza/tirannia del secondo, della rinunzia all’esercizio del diritto-dovere dell’autorità da parte del primo e del conferimento a sé di un potere illegittimo da parte del secondo, dell’abdicazione del primo alle proprie responsabilità e del rifiuto a obbedire da parte del secondo), nei processi della formazione ne deriva una simmetrizzazione impropria e inefficace delle varie relazioni con conseguente loro deterioramento. Spesso infatti è assente quell’asimmetria che è necessaria per dare vita a un’autorità e per creare al tempo stesso un senso e un contesto favorevoli a un’interazione emancipante e arricchente per entrambi.

    Ma, anche a motivo del suo disorientamento axiologico e della sua impreparazione culturale, non è raro che chi ha responsabilità educativa opti per un atteggiamento rigidamente asimmetrico, autoritario, generatore di asservimenti e ubbidienze cieche.

    In ambedue i casi è impedita quella reciprocità comunicativa che è fattore indispensabile per l’efficace svolgimento della funzione educativa. Così nei differenti contesti per l’educatore è sempre più difficile fare esercizio del proprio ruolo e svolgere il proprio compito.

    Per il soggetto in formazione ne consegue il rischio che, in assenza di una sua seduzione o di un suo dominio, non trovi alcun motivo per obbedire a un altro che esige il rispetto, non riesca a individuare un valido principio comune in nome del quale accettare un rapporto di autorità senza che la comunicazione degeneri in autoritarismo o in ribellione, finanche in un conflitto spesso violento. Piuttosto che consentire egli dissente o non sente o si rende assente. E in mancanza di un’autorità direzionante e supportiva, rassicurante e contenitiva, è solo dinanzi alle proprie emozioni e fatiche e all’ansia conseguente con possibile compromissione del suo percorso autorealizzativo.

    I vari e molteplici comportamenti problematici, agiti tanto nell’ambiente familiare quanto in quello scolastico e del tempo libero, sollecitano da più parti la critica, e per questo l’abbandono, di metodi educativi troppo impostati sulla comprensione, sull’indulgenza, sulla giustificazione. Si torna a sostenere la funzione formativa della rinuncia e del limite.

    Se da un lato si rifiuta l’autoritarismo in quanto negatore della libertà e produttore di disuguaglianze, dall’altro è frequente e pressante la domanda sociale di più autorità. Si invoca maggiore severità e dunque si reclamano (più) regole e limiti. Si auspica una comunicazione normativa contrassegnata dal rigore, dalla disciplina, dall’ordine, dall’ubbidienza, finanche dell’intransigenza. Si chiede il (ri)conferimento di un giusto potere a chi ha compiti educativi.

    In un tempo in cui continuano a fronteggiarsi, senza bussola pedagogica, i sostenitori del permissivismo (della libertà senza confine) e quelli dell’autoritarismo (della libertà repressa), il volume intende ripensare il tema del potere, e quello strettamente connesso dell’autorità, nei processi educativi che si svolgono nella famiglia, nella scuola, nei luoghi del lavoro, non senza averne prima tratteggiato, mediante un’operazione di interpretazione pedagogica, l’identità di strumento finalizzato ad aiutare la persona a conquistare la libertà responsabile.

    Chi educa utilizza il potere che ha per dare potere al soggetto educativo dotandolo della capacità di compiere volontariamente e moralmente le sue azioni. Esercita un’ autorità funzionale contrassegnandola come emancipativa e per questo destinandola ad accompagnare la coscienza dell’educando a destarsi e formarsi nonché ad assicurargli le possibilità e le condizioni idonee a costruirsi come personalità governata dal principio-guida della singolarità, in modo da evitare i pericoli dell’eterodirezione e della copionalità, dell’intruppamento gregario e dell’omologazione, e da caratterizzare secondo originalità, autonomia e responsabilità il proprio essere, pensare, sentire, decidere, conoscere, apprendere, convivere, agire.

    Alla base dell’intero discorso sta il convincimento che l’educazione si serve del potere per conseguire il fine dell’umanizzazione della persona. Se l’autorità è il principio che regola il potere, questo è il dispositivo che consente all’autorità di esplicitarsi e di raggiungere la meta che si è prefissa. Senza autorità non può esserci vera ed efficace relazione educativa.

    I. ERMENEUTICA PEDAGOGICA DEL POTERE

    Ogni relazione è territorio di emergenza e di esercizio del potere. Questo è intrinseco alle relazioni, le attraversa. È nel mezzo, è un mezzo. È fra e per.

    Lungi dal risiedere esclusivamente nelle strutture istituzionali e burocratiche, è una forza interstiziale che si insinua nei contesti, nelle situazioni, nelle pratiche, circola tra le persone, le vincola costruendo legami sociali, le lega in un rapporto che, allorquando ha luogo un conflitto di interessi, spesso si esprime come comunicazione tra il forte e il debole, il dominatore e il dominato, il carnefice e la vittima, al cui interno il secondo non sempre ha consapevolezza di essere implicato, di essere perfino complice della disuguaglianza prodotta e pertanto di essere responsabile della sua subalternità.

    Potere e educazione, potere e educatore sono inestricabilmente intrecciati. Nei processi formativi c’è sempre esercizio di potere, pur se non di rado latente, pur se spesso praticato in maniera non intenzionale, inconsapevole, impersonale, incontrollata, pur se non poche volte espresso tramite l’inazione.

    Il potere è strutturale all’educazione. Abita in essa. Ha fissa dimora in essa. Dell’esperienza formativa è una componente reale, una condizione costitutiva, una dimensione necessaria, una presenza inevitabile e ineliminabile, sagomatrice di soggetti e contesti, pervasiva di esperienze e azioni, generativa di filosofie, traguardi, culture, atmosfere, impostazioni, comunicazioni.

    Non esiste potere che venga esercitato senza una serie di intenti e di obiettivi [1] . Anche nei luoghi e nei processi della formazione è praticato per modificare atteggiamenti e comportamenti altrui in una direzione desiderata [2] .

    L’educatore ha un potere, esercita un potere (buono) grazie al quale indirizzare e sostenere la faticosa quanto irrinunciabile impresa di attuazione del poter-essere dell’educando, guidare e accompagnare il suo processo autorealizzativo.


    [1] M. Foucault, La volontà di sapere, trad. it., Feltrinelli, Milano 1999, p. 84.

    [2] H. Popitz, Fenomenologia del potere. Autorità, dominio, violenza, tecnica, il Mulino, Bologna 2001.

    1. Il 'potere su' per il 'potere di'

    Oltre che dai contesti in cui si esplica, ogni forma di potere è precisata da chi ha responsabilità educative sulla base soprattutto di orientamenti valoriali, direzioni di senso, finalità umanizzanti, attribuzione di dignità e valore ontologici al destinatario dell’atto educativo. In assenza del riconoscimento intersoggettivo e dell’intersoggettività riconoscente il potere finisce per andare incontro alla deriva della violenza.

    L’arte dell’educare non è tanto l’arte del comando quanto l’arte del rispetto, del servizio, della cura, della dedizione gratuita da manifestare nei riguardi del bene del soggetto educativo. Essa trova il suo senso nella relazione e nell’azione e non nella distanza e nella posizione, nell’impegno a rendere il soggetto educativo co-autore dell’impresa della sua emancipazione e della sua crescita.

    In quanto finalizzata all’autonomia dell’educando, la condizione di superiorità dell’educatore genera un legame e un compito di cura. Questa, mentre rende possibile il transito dal sentimentalismo all’amore, dà concretezza all’interesse per l’altro e al desiderio di realizzare il suo bene.

    In questo senso, è necessario che chi educa, oltre ad avere consapevolezza della disparità di potere che è presente nel processo e che ne condiziona l’andamento, soddisfi il compito di apprendere ad adoperare il potere in maniera pedagogicamente propria al fine di generare maggior libertà e coinvolgimento e dunque di disciplinare la personale volontà di potere salvaguardando questo contro i suoi possibili stravolgimenti, evitando di trovare sempre nell’educando la causa delle difficoltà incontrate. Ciò, mentre gli consente di interpretare responsabilmente eventuali rifiuti e resistenze dell’educando riconducendoli al potere da esercitare su di sé piuttosto che su di lui, lo sollecita a dare alla relazione un’altra forma e un altro contenuto. Il governo del potere su è fattore di conferimento all’educando del potere di.

    Nei processi educativi la disuguaglianza e la diversità di posizione e ruolo, mentre non comportano imposizioni e discriminazioni, autoritarismi o abdicazioni, seduzioni o rinunce, appropriazioni o ‘predestinazioni’, non esigono protagonismi da parte di chi educa, non sospingono verso improduttivi egualitarismi, non si configurano fattori di riduzione o lesione della dignità del soggetto educativo, di insulto del suo valore, di misconoscimento del suo essere altro, non ne mortificano il bisogno di affermazione, e pertanto non si costituiscono causa di privazione della sua esistenza.

    La pratica educativa è responsabilità e non privilegio e noncuranza, è testimonianza e non prepotenza e arroganza, è potenziamento degli altri e non esercizio narcisistico del potere in sé, è conferimento di forza interiore e non dominio delle menti e dei cuori, è arricchimento e non limitazione, è apertura e aggiunta di nuove possibilità e non espropriazione dell’altrui libertà. Pratica educativa e coscienza morale sono inscindibili.

    Lo stile educativo ha una rilevante incidenza sulla relazione e dunque sul processo del dare forma e prendere forma. Ben diversi sono gli esiti di una relazione concepita come incontro interpersonale incrementante o come rapporto dalla cifra gerarchica, come scambio orizzontale o verticale, come comunicazione impostata in maniera dialogica o impositiva, persuasiva o costrittiva, riconoscitiva o utilitaristica, agita con finalità di aiuto o di autodifesa, preoccupata della continua modulazione dell’asimmetria o fortemente e rigidamente asimmetrica, facilitante il protagonismo o sollecitante il gregarismo, accogliente e valorizzante o censoria e colpevolizzante.

    Le potenzialità e le risorse della persona, le sue ricchezze e la sua libertà crescono se, in definitiva, un’altra persona la condiziona prendendosi cura di lei, se un altro autorevole se ne fa carico e la guida e l’accompagna per un tratto del suo percorso esistenziale al fine di aiutarla a individuare il senso dell’umano e a farne pratica percependosi autrice della propria vita. «Che cosa significa dunque educare? Di certo, non che un pezzo di materia inanimata riceva una forma, come la pietra per mano di uno scultore. Piuttosto, educare significa che io do a quest’uomo coraggio verso se stesso. Che gli indico i suoi compiti, ed interpreto il suo cammino – non i miei. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria» [1] .

    Per sviluppare appieno il suo possibile, per attuare progressivamente le energie e le risorse insite costitutivamente nel suo essere, nonché per consapevolizzarsi degli propri obblighi nei riguardi del mondo circostante, l’educando ha bisogno di presenze autorevoli e diligenti, coerenti e fedeli, autentiche e leali, pazienti e gentili, benevolenti e supportive, capaci di un vivo contatto con la sua interiorità, in grado di ascoltarlo e interpretarne la domanda formativa e l’appello di aiuto, di rispondere intenzionalmente ed efficacemente alle sue attese e alle sue richieste di orientamento e guida incoraggiandolo e aiutandolo a correggersi senza peraltro porlo in condizione di umiliazione e vergogna, sostenendolo senza farlo sentire oggetto di compassione caritatevole, determinate a facilitargli l’assunzione della responsabilità della propria formazione. Così, progressivamente, l’educazione è in grado di diventare autoeducazione. L’ aver cura autorevole aiuta l’altro a divenire consapevole e libero per la propria cura [2] .

    La libertà di chi educa è fatta di ospitalità dell’altro e passione per lui, di attenzione e responsabilità per lui, di ansia per lui e di cura di lui. Se l’educazione è da intendere come l’arte di fare pratica dell’autorità per rendere la persona libera, la relazione educativa è da interpretare e vivere precipuamente come azione emancipante, come processo destinato a conferire ampiezza e spessore all’autonomia del soggetto in formazione, come esperienza curativa dedicata a dare definizione ed espressione al progetto di un sé inedito che oltrepassa quello già attuato.

    Il prendersi cura ha vari corollari: conservare, condividere, permettere. Corollari che conferiscono potere agli altri, invece di delegare. Corollari che smentiscono l’idea di materia inferiore […]. A differenza della tradizionale concezione passiva secondo cui la materia deve essere mossa esercitando su di essa una forza superiore (e questo in pratica significa la forza di qualcuno che è superiore nella catena del comando), la visione del mondo basata sul prendersi cura sostiene che esiste un potenziale innato in ciascuna persona, in ciascun compito, in ciascuna creatura, animata e inanimata. Questo potenziale non è inerte ma, come direbbero i marxisti, è in catene [3] .

    Muovendo da un iniziale legame di bisogno e dipendenza, l’autorità è finalizzata a favorire la conquista di livelli di libertà sempre più elevati e il conseguimento del governo di sé per non essere schiavi delle proprie passioni e sottoposti agli altri. È compito educativo, questo, irrinunciabile da coltivare per l’intera esistenza se siamo d’accordo con lo psicologo sociale allorquando sottoscrive che nell’essere umano la disposizione a sottomettersi all’autorità è profondamente radicata. La persona, fin dai primi anni di vita, cresce in mezzo a strutture autoritarie (la famiglia e la scuola soprattutto) che le impongono certe regole da cui derivano facilmente imperativi morali e impersonali atteggiamenti e comportamenti di sudditanza nei riguardi dell’autorità, cosicché la coscienza e la responsabilità possono essere facilmente anestetizzate: «ciò che determina le azioni di un soggetto non sono tanto le caratteristiche della sua personalità, quanto la situazione in cui egli si trova ad agire» [4] .

    Non c’è educazione senza autorità, pur dovendo riconoscere che non ogni autorità è educativa. Piuttosto che rigettare aprioristicamente l’autorità, si tratta di dare ad essa sostanza e qualità pedagogica. Così essa viene a configurarsi autorità che legittima e sostiene gli interventi necessari all’affermazione e all’espansione di una personalità nella cui interiorità sono custoditi poteri e tensioni autoperfettive, disposizioni e talenti che attendono di essere congruentemente manifestati e promossi, rispettati e indirizzati alla luce del valore.

    Stretto è il legame tra buon esercizio del potere e divenire umano. Di là dal condannarlo in blocco, è possibile dimostrarne l’inevitabilità ponendo in risalto l’irrinunciabilità del potere educativo nelle varie età della vita e nei vari ambienti. Se ben gestito, nell’esperienza educativa il potere ha un considerevole potere. Anche in questa esperienza esso «sarebbe ben fragile cosa se la sua sola funzione fosse quella di reprimere» [5] .

    L’esercizio dell’autorità è legittimato dai traguardi formativi che persegue: aver cura, emancipare, potenziare, far acquisire potere, autonomizzare, responsabilizzare, formare la coscienza, costruire e sviluppare umanità. Il diritto di educare si esercita perseguendo la meta della realizzazione del poter-essere dell’altro al livello più alto possibile.

    In questa finalità sta la condizione legittimativa dell’autorità educativa.

    L’autorità non possiede un valore autentico se non nella misura in cui si esercita nel senso della vita del fanciullo. Le restrizioni ed i limiti che l’educazione impone per reale necessità, esistono solo provvisoriamente, e unicamente in vista di un ulteriore schiudersi dello spirito. L’ideale sarebbe che l’autorità degli educatori non fosse altro che un mezzo per guidare il fanciullo verso la soddisfazione dei suoi bisogni più profondi, vale a dire verso la libertà! Essa potrebbe allora essere intesa come l’espressione volontaria e cosciente del dinamismo stesso della vita. L’autorità non deve servire a soffocare; il suo compito è al contrario quello di preparare la maturazione dell’individuo. Ciò che la rende valida, non è il rango della persona che la esercita, ma bensì il fatto che essa stessa è, talvolta contro ogni apparenza, al servizio di coloro sui quali si esercita [6] .

    Il fine dell’autorità dell’educatore è la libertà dell’educando. L’autorità del primo è la condizione maieutica e sviluppativa della libertà del secondo. Grazie all’autorità l’educando è aiutato a fare pratica dell’impegno e della responsabilità e a compiere scelte significative cosicché, muovendo dal piano della libertà intesa come assenza di leggi e regole, possa pervenire al piano della libertà come autoconduzione e autogoverno eticamente disciplinati.

    Avvertire ciò è sostenere l’irrinunciabilità di realizzare la comunicazione interpersonale come incontro eterocentrico governato dall’etica della responsabilità e di costruire un’interazione che si consegni il compito di esaltare sempre la singolarità della persona educanda, di avvalorare in essa una forza di autodeterminazione e di determinazione del mondo, di accreditarne ragionevolezza e libertà, coscienza di sé e dei propri atti, di incrementarne le possibilità intrinseche, di aiutarla ad avere potere di.

    Si tratta di una relazione che, mentre nega ogni antinomia tra chi educa e chi è educato, espunge domini e sottomissioni pur non potendo ignorare che l’educazione si muove sempre tra i poli dell’autorità e della libertà mai separabili e contrapponibili, accompagna il soggetto educativo a trasformarsi guadagnando potere personale e a stabilire così un rapporto maturo con il potere, e dunque consentirsi l’emancipazione.

    In virtù di una relazione intersoggettiva liberante, eticamente ispirata, l’educatore assolve quel peculiare compito che è identificabile nell’aiutare l’educando a essere esercitando la propria libertà e la propria responsabilità in una graduale scoperta della personale decisionalità e della criticità che la sorregge e la nutre. «Si potrebbe chiamare l’etica pedagogica un’etica potenziata della responsabilità, nel senso che essa è mossa dalla responsabilità di promuovere nel partner dell’educazione la molla della responsabilità. In altri termini la sua motivazione è provocare nell’educando l’intenzione o la motivazione di porsi quei fini che essa propone a se stessa» [7] .

    Nell’educazione, ossia nella promozione di personalità libere e responsabili, occorre trovare la ragion d’essere dell’autorità. Piuttosto che l’arroganza o il mandato o il carisma o l’ascendente, è la relazione educativa tra un soggetto che possiede competenze e un soggetto bisognoso di aiuto che origina l’autorità. Questa, intesa come virtù pedagogica, deve essere anche «una autorità determinata oggettivamente. L’educatore infatti, nell’esercizio del suo ufficio, non rappresenta se stesso, ma qualcosa di oggettivo, e cioè l’esigenza e il compito propri del mondo educativo e formativo. Codesto mondo, dunque, e non soltanto le sue qualità personali, conferiscono al suo agire quel contenuto e quella sostanza che, se venissero a mancare, renderebbero l’agire stesso formale e astratto» [8] .

    Ciascun incontro educativo, in quanto comunicazione tra soggettività contrassegnate dall’unicità, interazione tra coscienze, confronto tra personalità, scambio tra libertà in divenire, reciprocità di presenze, trova il suo cominciamento e il suo sostegno in un dinamismo dialettico in virtù del quale poter conciliare autorità e autonomia, norma e consenso, asimmetria e uguaglianza, disparità e gemellarità, giustizia e bontà, disciplina e affetto, fermezza e sollecitudine.

    L’agire educativo, lungi dal risolversi in un’astensione o in un’appropriazione, in un dominazione o in un’intrusione, non può che individuarsi nella pratica di un’autorità verso una libertà, nell’impegno di una libertà al servizio di un’altra libertà, nel potenziamento della libertà dell’altro e non nella sottrazione a lui di

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