Ecologia Esistenza Lavoro
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Le ricerche di Tim Ingold, il grande antropologo scozzese, hanno investito il problema della tecnica nei suoi rapporti con la biologia evoluzionistica e l’ecologia; la sua lezione ha un’importanza decisiva per rispondere alle questioni sopra sollevate. Per questo motivo, il volume si apre con un’intervista a questo studioso intorno ai temi fondamentali delle sue indagini.
Con un'intervista a Tim Ingold a cura di Ivano Gorzanelli
Gli autori: Andrea Angelini, Stefano Berni, Rosella Corda, Ubaldo Fadini, Ivano Gorzanelli, Alfonso Maurizio Iacono, Tim Ingold, Manlio Iofrida, Francesco Marchesi, Igor Pelgreffi, Stefano Righetti, Elettra Stimilli, Matteo Villa.
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Anteprima del libro
Ecologia Esistenza Lavoro - Officine Filosofiche
OFFICINE FILOSOFICHE
Che senso ha tentare di lanciare un nuovo progetto di lavoro filosofico collettivo (Officine Filosofiche
) in un momento come questo? Credo che sia a tutti evidente, infatti, come ormai da vari anni, non solo in Italia, ma anche a livello internazionale ci troviamo in un periodo di crisi della filosofia: le vecchie scuole e i loro vecchi leader sono quasi tutti scomparsi o stagnano nella ripetitività, mentre d’altra parte monta una forma di brutale pragmatismo che non travolge solo la filosofia, ma ogni tipo di cultura, anche scientifica, che non sia immediatamente fonte di profitto. Allarghiamo dunque un po’ il discorso alla situazione storico-politica, dato che il tipo di filosofia che esso cercherà di rilanciare non si colloca in una dimensione teoretica e astorica, ma, al contrario, intende rivendicare la sua appartenenza alla storia.
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Edizione digitale: giugno 2017
Produzione digitale: Mucchi Editore
ISBN: 9788870007534
ISSN di collana: 2532-3822
OFFICINE FILOSOFICHE
Collana di filosofia
Coordinamento scientifico:
Manlio Iofrida, Stefano Berni, Ubaldo Fadini, Stefano Righetti
Comitato di redazione:
Andrea Angelini, Silvano Cacciari, Marco Della Greca, Alessandro Dondi, Ivano Gorzanelli, Claudia Landolfi, Diego Melegari, Igor Pelgreffi, Katia Rossi, Andrea Sartini, Caterina Zanfi
Segreteria di redazione:
Andrea Angelini, Prisca Amoroso, Alessandro Dondi
Direttore:
Manlio Iofrida
Università di Bologna, Dipartimento di Filosofia, via Zamboni, 38 – 40126 – Bologna
e-mail: manlio.iofrida@unibo.it
www.officinefilosofiche.it
Indice
Collana
Colophon
Comitato
Frontespizio
Presentazione di Manlio Iofrida
Nota introduttiva all'intervista a Tim Ingold - Ivano Gorzanelli
Qualche domanda a Tim Ingold - intervista a cura di Ivano Gorzanelli
Saggi
Ambivalenza della cooperazione - Alfonso Maurizio Iacono
Autonomia, individualismo e paradigmi di welfare capitalism: una lettura in chiave ecologica secondo Bateson e Polanyi - Matteo Villa
Verso una x
: linee di materialismo antropologico
- Ubaldo Fadini
L'etica del limite nella teoria della descrescita - Stefano Righetti
Soggetto, tecnica, scrittura. Su How I write: Sociology as Literature di Richard Sennet - Igor Pelgreffi
Linee di fuga: tra esoneri e de-territorializzazioni - Rosella Corda
Per un'ecologia dello sguardo. Tecnica, arte e natura nel cinema di Jean Renoir - Andrea Angelini
Foucault, Protagora e la politica - Stefano Berni
Libri recenti
Roberto Esposito, Due La macchina della teologia politica e il posto del pensiero
Pierre Macherey, Il soggetto produttivo: da Foucault a Marx
Manlio Iofrida
Presentazione
Dal postmoderno al paradigma del corpo
Fra i temi della natura e dell’ecologia e quello del lavoro esiste un nesso che vada al di là di quello importante, ma pur sempre estrinseco e contingente, che li vede al centro della crisi che stiamo vivendo? Sono convinto di sì: fra la necessità di un paradigma ecologico come nuova grammatica con cui leggere il nostro presente e il ripensamento del tema del lavoro il nesso è interno ed è su questo che verte il volume di Officine
; nel saggio che segue mi limiterò ad enunciare alcune linee fondamentali di questa tematica, con l’ovvia premessa che esse valgono soprattutto per me.
Bisogna innanzitutto ricordare che viviamo sulle rovine di un paradigma culturale e filosofico, quello postmoderno, che aveva avuto le sue basi fondamentali proprio in un ripensamento del concetto di lavoro. Riprendiamo in mano, ancora una volta, il testo-chiave, dal punto di vista filosofico, di tale paradigma, La condizione postmoderna di Jean-François Lyotard¹, per verificare questo assunto. Il cuore della prospettiva postmoderna, come delineato nel fortunato pamphlet lyotardiano, è costituito da un’analisi del nuovo capitalismo come produzione di informazione (l’informazione è ormai la merce per eccellenza, il valor d’uso essendosi completamente cancellato); il capitalismo è dunque ancora una volta tecnoscienza, in un mondo che è diventato un insieme di bit e in cui il sapere stesso è costituito da banche di dati. Il conclamato congedo di Lyotard dalla modernità non era dunque che la conferma del delirio prometeico di quest’ultima: convergendo con l’idea kojèviana di fine della storia, rimessa in circolazione, qualche anno dopo, in un fortunato libro da Francis Fukuyama², il postmoderno si rivelava come l’ultimo avatar delle prospettive apocalittiche e millenaristiche che abitano il nucleo della modernità stessa. In un mondo integralmente tecnologizzato e ridotto a informazione, è chiaro che l’unica prospettiva di differenza
poteva essere affidata al linguaggio: e in particolare, ai giochi linguistici wittgensteiniani e austiniani e alle paralogie dell’epistemologia di Kuhn³. Inutile aggiungere che nessuno spazio veniva qui lasciato alla natura, al corpo, alla materia; essa era stata così fagocitata che il lavoro era ormai ridotto a lavoro intellettuale mediato dal computer: a un maneggio di simboli⁴.
Per andar subito all’essenziale: la posizione di Lyotard non faceva che portare al parossismo, e quindi rendere particolarmente debole, quell’aspetto della filosofia post-strutturalista per cui essa, fin dai primi anni ’60, aveva messo da parte il tentativo di Merleau-Ponty di reintrodurre nella riflessione occidentale e moderna il tema della natura⁵; inutile anche rammentare come in questa posizione vi fosse una fondamentale subalternità all’analisi che del capitalismo e della tecnoscienza aveva fatto Heidegger. In realtà, seppur con una gran finezza, questa posizione risaliva a Bataille e Blanchot, padri della generazione post-strutturalista, che avevano condiviso, sulla scia di Kojève, le conclusioni di Heidegger (e del nostro Severino), secondo cui il nostro mondo è in preda a una tecnica totale⁶. In base a queste analisi, produzione e lavoro costituiscono una gabbia d’acciaio da cui non c’è scampo; o piuttosto: da cui l’unico scampo è la fuga. In altri termini, siamo di fronte all’alternativa: produzione o libertà.
In fondo, nonostante abbiano affascinato e affascinino a tutt’oggi molti marxisti, queste analisi erano assai lontane dalla sostanza della lezione di Marx, per il quale la libertà si doveva conseguire non grazie all’ozio caro a suo genero Paul Lafargue⁷, ma con e nel lavoro⁸; e per il quale la natura, in via di principio, rimaneva un’entità sempre indipendente dal lavoro. Certo, Marx era poi incorso in assai gravi equivoci positivistici, da cui anche un grande testo come la Critica del Programma di Gotha non è esente, e su cui si sarebbe costruita tutta la linea socialdemocratica, che non è altro che un’altra versione del prometeismo capitalistico moderno.
In ogni caso, a giudicare dal dibattito filosofico attuale, specialmente quello italiano, sembrerebbe che alla soluzione heideggeriana non vi sia alternativa; in realtà, è invece da tempo che si sta costruendo un paradigma del corpo⁹, che implica in modo essenziale una valutazione diversa della tecnoscienza e, quindi, una differente analisi del capitalismo. Si tratta di pensare a un lavoro che non sia fagocitante rispetto alla materia e alla natura; a una tecnica che non sia vista come l’altro della natura, ma come una sua emanazione e un suo complemento¹⁰; a una relazione dell’uomo con lo strumento che sia mediata dal corpo. Su tutti questi temi (e anche questo numero lo documenta) le ricerche sono numerose e da angolature differenti – il che dimostra, per così dire, l’oggettività
della questione.
Fra Lévi-Strauss e Merleau-Ponty: il bricoleur e l’organista
Possiamo partire da una delle poche posizioni che, negli anni ’60, si sia contrapposta al delirio di progresso tecnologico che pervase allora Occidente e Oriente: alludo a quella di Claude Lévi-Strauss. Negli anni Cinquanta, al prezzo di un primitivismo che avrebbe poi rinnegato, il grande antropologo aveva dato alle stampe un capolavoro della critica alla civiltà occidentale, Tristi Tropici¹¹; nel 1962, Il pensiero selvaggio (non a caso dedicato alla memoria di Merleau-Ponty)¹² si apriva con uno straordinario passaggio sul bricolage; ai suoi tempi celebre, esso non è più stato preso in considerazione, specie in rapporto alla problematica del lavoro: è dunque opportuno tornare a soffermarsi brevemente su di esso.
Il discorso di Lévi-Strauss prende le mosse dalla distinzione di due tipi di pensiero scientifico fra i quali non è da istituire alcuna gerarchia di valore: uno è ovviamente quello a noi più noto, perché frutto della rivoluzione scientifica moderna; l’altro risale a tempi assai più remoti, ed è una scienza che non abbandona il livello della percezione e dell’intuizione, che si basa sulla possibilità di organizzare e di sfruttare speculativamente il mondo sensibile in termini di sensibile
¹³. Questo secondo tipo di conoscenza scientifica è vivo ancor oggi nell’attività del bricoleur, che viene contrapposto al moderno ingegnere:
Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via «finito» di arnesi e di materiali, peraltro eterocliti […] L’insieme dei mezzi del bricoleur non è dunque definibile in base a un progetto ([…] come accade all’ingegnere); esso si definisce solamente […] perché gli elementi sono raccolti o conservati in virtù del principio che «possono sempre servire»¹⁴.
Di conseguenza, il bricoleur non si volge all’oggetto investendolo e annullandolo nel suo progetto assoluto: ha uno sguardo retrospettivo, dialogante, che tien conto della storia di ciascuno dei mezzi di produzione
, che agisce entro vincoli, il cui fine deve sempre far dei compromessi con i mezzi utilizzati, per cui il risultato inevitabilmente diverge dall’intenzione iniziale¹⁵.
Il discorso non va certo letto nel senso di una contrapposizione cronologica fra bricoleur e ingegnere; il passo non ci parla di un’evoluzione lineare fra due modalità di atteggiamenti verso la natura, ma di due attitudini antropologiche che rimangono compresenti: il bricolage è un aspetto fondamentale della nostra relazione alla natura oggi come qualche migliaia di anni fa¹⁶ ed esso è presente nelle nostre società tecnologiche avanzate come lo era e lo è in quelle selvagge.
Fin qui Lévi-Strauss: ma se, andando oltre la lettera del testo, in un modo che non ne tradisce lo spirito (almeno in quel momento della impresa intellettuale dell’autore), pensassimo a una tecnica che sia riportata entro i termini del bricolage? Che, sganciata dal suo aspetto prometeico, sia riportata a quella proiezione dello schema corporeo che ne costituisce l’origine e il fondamento? Per giustificare questa conclusione, basta riflettere sul fatto che un’attitudine verso la natura come quella del bricoleur è caratterizzata dal fatto di presupporre l’inerenza e non la trascendenza del soggetto rispetto al suo mondo: l’attività del bricoleur implica una costante messa in relazione dell’oggetto con il proprio corpo, su cui il soggetto testa continuamente le possibilità dello strumento tecnico, per orientarsi nella sua prassi artigianale¹⁷. Ora, questo è vero anche per il rapporto che abbiamo oggi con la tecnologia: secondo la lezione di Tim Ingold, anche i guidatori dei moderni locomotori ne fanno un’estensione del loro corpo e ciò vale per qualunque strumento, per quanto avanzato tecnologicamente esso possa essere: nella misura in cui siamo noi a usarlo, anche un computer diventa un’appendice del nostro corpo, una nostra estensione che ci permette di gestire al meglio il nostro rapporto con l’ambiente che ci circonda. Tutto si gioca a livello di una relazione di senso fra il nostro corpo e lo strumento, relazione per cui lo strumento non diventa dominio del soggetto sul mondo, ma relazione e comunicazione con esso. Naturalmente, nemmeno quando mi relaziono a tu per tu col mio computer, questa relazione prescinde dalla relazione con gli altri e da quella con me stesso; e tuttavia, le modalità di tale relazione possono essere qualitativamente diverse. È dunque a livello di tale modalità che il discorso diventa politico: qui si giocano varie scelte, varie possibilità, vari programmi; qui si apre l’alternativa fra il dominio e la libertà, fra prometeismo e rispetto di se stessi e degli altri.
In questo modo, emerge un’altra dimensione fondamentale del discorso di Lévi-Strauss: quella della connessione fra bricolage e tematica del gioco: gioco è la relazione che il selvaggio istituisce con la natura; nel suo rapporto col mondo, egli è in una dimensione attivo-passiva, di obbedienza quanto di (relativo) controllo; il discorso si apre qui su quella tematica del gioco come libertà che, iniziata da Kant e Schiller, nel ’900 è culminata nella riflessione di alcuni autori della Scuola di Francoforte – Adorno, Benjamin, Marcuse – e in quella di Johann Huizinga. Ma prima soffermiamoci su quel che sull’argomento è possibile ricavare da Merleau-Ponty.
Che rapporto c’è fra la filosofia di quest’ultimo e la questione del lavoro? Distesamente, come è noto, egli ne parla poco, ma in realtà il nesso fra la sua riflessione e questo tema è profondo. Partiamo dall’opera che Merleau-Ponty scrive prima di diventare marxista, La struttura del comportamento, dove troviamo una posizione molto tradizionale, ‘cassireriana’ sul lavoro: il lavoro è cultura, o, per meglio dire, Civilisation; esso corrisponde a quella specificità dell’uomo rispetto all’animale per cui l’uomo ha un progetto, per cui, come diceva Marx, l’uomo costruisce una tela in modo del tutto diverso dal ragno; il lavoro significa, hegelianamente e cassireriaramente, imprimere significati, valori, simboli sulla natura¹⁸.
Nella stessa opera, però, ci sono chiare tracce di un’impostazione opposta, o, per lo meno, profondamente diversa: anzi, uno dei concetti-base su cui è costruita, l’idea secondo cui la percezione è un rapporto intrinseco e non estrinseco col mondo, un rapporto di inerenza con esso, va esattamente nella direzione opposta. Conviene, comunque, andare direttamente all’opera successiva, Fenomenologia della percezione, in cui la questione è ripresa in un passo fondamentale, quello sul rapporto fra l’organista e il suo strumento:
È noto che uno strumentista esperto è capace di servirsi di un organo che non conosce e che ha le tastiere più o meno numerose e i registri disposti diversamente rispetto a quelli del suo strumento abituale. Gli basta un’ora di lavoro per essere in grado di eseguire il suo programma […] durante la breve prova che precede il concerto, egli non si comporta come chi vuole tracciare un piano [corsivo mio]. Prende posto sul sedile, aziona i pedali, alza o abbassa i registri, misura lo strumento con il suo corpo, assimila le direzioni e le dimensioni, si installa nell’organo come ci si installa in una casa [corsivo mio]¹⁹.
Infine, in questa rapida rassegna che non vuol essere affatto esaustiva, ricorderò che Merleau-Ponty ribadirà tale posizione in un breve passaggio de L’occhio e lo spirito:
[…] il corpo non è […] strumento della vista e del tatto, ma loro depositario. I nostri organi non sono affatto strumenti, ma sono i nostri strumenti ad essere degli organi aggiunti²⁰.
In questa seconda posizione di Merleau-Ponty verso la tecnica, il punto centrale è quello di una compenetrazione fra l’uomo e lo strumento; sottolineiamo anche un altro aspetto fondamentale del discorso: qui si tratta di una situazione artigianale, o per lo meno, di una relazione artigianale²¹ fra il soggetto e lo strumento, per cui quest’ultimo diventa un prolungamento del corpo di colui che lo usa; questo prolungamento non significa però sovrapposizione dell’umano sul naturale, ma una vera e propria relazione di interpenetrazione, in cui lo strumento ripete quella caratteristica del nostro corpo che Merleau-Ponty ha esplicitato più volte riferendosi al modello del toccante-toccato: il mio corpo è in se stesso soggetto e oggetto, è un ibrido di soggettività e oggettività, che rimanda anche (ecco un altro punto fondamentale per la nostra riflessione su lavoro e tecnica) al fatto che l’attività è inestricabilmente passività. Quindi: la tesi che la tecnica sia una sorta di prolungamento dell’uomo sulla natura non va letta unilateralmente come se essa comportasse una culturalizzazione integrale del naturale; al contrario, essa non è che lo spostamento, nell’oggettivo, di quel chiasma soggetto-oggetto che è il nostro corpo, il suo rilancio infinito, che non metterà mai capo a un mondo meramente oggettivo.
Questa è dunque un’idea di tecnica e lavoro che in Merleau-Ponty troviamo fin dall’inizio; essa è infatti legata al tema fondamentale del suo pensiero, che è quello della percezione: che è, in se stessa, tecnica e lavoro; in che senso? Riportiamoci al significato fondamentale che la percezione ha per Merleau-Ponty: essa è in sostanza la relazione del vivente con il suo ambiente, una relazione che non è di possesso dell’essere vivente su ciò che lo circonda, ma di scambio, di attività che è inestricabilmente ricettività; il lavoro del vivente è questa relazione che esso istituisce col mondo, relazione che presuppone sempre un’appartenenza, una passività. E dunque, tecnica e lavoro non sono che un’altra espressione di questa relazione di appartenenza dell’uomo alla natura.
È evidente che questo modello di tecnica e lavoro è profondamente diverso dal primo che avevo menzionato, quello che vede il lavoro come una sovraimposizione dell’umano sul naturale; e lasciamo perdere la questione di come il marxismo – che è pur sempre una filosofia del lavoro nel secondo senso – potesse rientrare allora nel progetto merleaupontyano della percezione, che va nella direzione contraria. Quel che è certo è che, quando Merleau-Ponty, nei primi anni Cinquanta, rompe con Sartre e, nello stesso tempo, si rende conto che il suo progetto filosofico contiene ancora dei nodi non sciolti, il problema della tecnica torna ad essere centrale; e torna ad essere centrale nella misura in cui viene in primo piano la questione della natura, cioè la questione di un limite della culturalizzazione.
Per cercare di chiarire ulteriormente questa posizione di Merleau-Ponty, possiamo riferirla alla classica antitesi Kultur-Civilisation²²; per un lato, quest’ultima si caratterizza per l’esaltazione della tecnica e del lavoro; dall’altro lato, abbiamo i critici della modernità che si rifanno a Burckhardt, Nietzsche e Schopenhauer, che, lasciando da parte tutto quello che li divide, della tecnica e del lavoro hanno un’idea decisamente negativa, anche perché li vedono legati a doppio taglio con la democrazia. La Kultur si definisce per la sua rottura con la civiltà della tecnica e del lavoro: il lavoro è condanna, ripetizione, mutilazione dell’infinità dell’uomo. Rispetto a questa antitesi, la posizione di Merleau-Ponty non è univocamente collocabile. Per il filosofo francese tecnica e lavoro sono, lo abbiamo visto, non una condanna, ma un’emanazione naturale della nostra corporeità: ne emerge un senso positivo di lavoro; ma questo senso positivo sottende una critica a un tempo del capitalismo e del marxismo; da questo punto di vista, si apre un discorso sulla critica al produttivismo e alla civiltà del lavoro che evidentemente riavvicina Merleau-Ponty al polo della Kultur. A me sembra che, in direzione di questa sintesi fra temi della Civilization e temi della Kultur, vada la riflessione di un autore come Ingold, che non a caso riprende esplicitamente la lezione di Merleau-Ponty: penso in particolare alla distinzione, da lui istituita, fra Skill e Technology; ma nella stessa direzione va anche la tematica dell’artigianato ripresa da Sennett. Sia Ingold sia Sennett²³ sviluppano l’idea del filosofo francese (il secondo, apparentemente, indipendentemente da lui) di una tecnica ecologica, che si ponga in un rapporto dialogico con l’ambiente, che conservi il nostro chiasma col mondo, che abbia nella relazione col nostro corpo il suo asse fondamentale.
Ideologia costruttivista contro ecologia del limite
Sento già sollevarsi un coro di obiezioni scandalizzate: ma allora, l’informatizzazione del mondo? E il post-industriale? E l’idea di un nuovo lavoro come azione meramente relazionale, interpersonale, ermeneutica? E il cyborg, la completa tecnicizzazione del nostro corpo? E la fine del valor d’uso? La mia risposta a tutte queste obiezioni è che esse costituiscono una vera e propria ideologia, tanto largamente condivisa quanto priva di fondamento: ideologia di una modernizzazione infinita, mito della potenza totale della tecnica, mito della definitiva scomparsa della natura, che sarebbe totalmente soggiogata. La natura, come eventi ripetuti anche recenti ci hanno tragicamente ricordato, non è affatto stata fagocitata; la produzione e il lavoro materiali non sono affatto scomparsi, ma, tutt’al più, provvisoriamente (si spera) spostati in alcuni dei paesi emergenti; la tecnica non comporta annullamento del lavoro e nemmeno sua assoluta smaterializzazione, ma sua trasformazione. E certo, non bisogna nemmeno dimenticare che la liberazione attraverso la macchina dalla schiavitù di determinati lavori manuali è un elemento assolutamente positivo: ma, appunto, questa trasformazione, che è condizione così importante della liberazione di tanta parte dell’umanità, non significa annullamento del suo rapporto con la materia e la terra. L’indebito passaggio al limite che fa del mutamento tecnico un qualcosa di assoluto, una culturalizzazione e storicizzazione integrale non è, in realtà, altro che l’espressione più compiuta di un vero e proprio mito della modernità: quello del prometeismo, del dominio assoluto, senza limite e senza resto²⁴.
Dobbiamo ricordare, del resto, che anche nel lavoro intellettuale e in quel mezzo di produzione che ne è diventato il simbolo, il personal computer o, da ultimo, il tablet, l’elemento materiale è comunque un limite invalicabile? Che il rapporto