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La collina d'oro
La collina d'oro
La collina d'oro
E-book304 pagine4 ore

La collina d'oro

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Info su questo ebook

Dai primi anni del ‘900 fino all’alba del nuovo millennio si snoda l’epopea di una famiglia di contadini calabresi, che cercano di scrollarsi di dosso secoli di atavica miseria. Le prime lotte sindacali, l’avvento del fascismo, due guerre mondiali, il boom economico e la crisi, la rassegnazione e la speranza degli emigranti, l’amore per la terra e la speculazione edilizia… Il tutto visto attraverso gli occhi, tristi ma pieni di poesia, di uomini e donne pronti a lottare ogni giorno per un futuro migliore, che quanto più si avvicina, tanto più pare allontanarsi: proprio come il mito della “collina d’oro”.

Maggiori informazioni https://aporema-edizioni.webnode.it/products/la-collina-doro-di-marco-ciconte/
LinguaItaliano
Data di uscita8 dic 2018
ISBN9788832144185
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    Anteprima del libro

    La collina d'oro - Marco Ciconte

    Lama

    I

    La terra argillosa di Chiteria sa essere acerrima nemica del contadino: le piogge la rendono fango che ingoia e seppellisce, ma il sole torrido la trasforma in pietra che spezza la schiena.

    Questa terra sa però anche essere amante appassionata: ravviva gli autunni grigi con il verde dei suoi prati ed esalta la primavera con il profumo dei suoi frutti.

    Tutto questo Mastro ‘Ntoni Belcastro lo sapeva bene.

    Era cresciuto tra la polvere di quelle campagne, imparando sin da bambino che la parte più importante di quel suo corpo ancora esile erano le braccia.

    Con le braccia, non ancora tredicenne, già guidava l’aratro e affondava il vomere; con le braccia frantumava le zolle a colpi di zappa; con le braccia seminava tra i solchi; con le braccia mieteva il grano e legava le fascine.

    Mastro ‘Ntoni non era chiamato così per caso. Quel nome, quasi il grado di un ufficiale, se l’era conquistato sul campo.

    Il lavoro duro lo aveva forgiato nel corpo e nello spirito. Le spalle erano larghe e forti e anche il volto, bruciato dal sole e solcato dalla fatica, sembrava arato da mani esperte. Gli occhi erano piccoli e veloci come saette, con i movimenti tipici dei furbi. Il naso prominente denotava il fiuto degli intelligenti.

    Ma il pezzo forte rimanevano le braccia: possenti, sproporzionate rispetto alle gambe, che ‘Ntoni adoperava come armi formidabili, per piegare la natura alla propria volontà.

    Una volta, ormai adulto, l’avevano visto impavido immobilizzare per le corna un bue impazzito, e la notizia, ingigantita da rapidi e incontrollabili passaggi di bocca in bocca, si era diffusa a tal punto, che i ragazzi del paese avevano preso a chiamarlo Zù Tàguru , attribuendogli di fatto la forza di un toro.

    «Ha preso il bue per le corna e lo ha messo a gambe all’aria!» raccontava qualcuno. «Che dici? Gli ha preso la testa con un braccio e gliel’ha girata come a una gallina!» giuravano altri.

    Anche questi episodi avevano contribuito a farne crescere il carisma tra gli altri braccianti, che già avevano preso a considerarlo una sorta di guida, perché, oltre che dotato di forza sovrumana, era il più capace fra tutti nell’organizzare il lavoro delle squadre nei latifondi. Quando c’era da distribuire la fatica tra le braccia disponibili ‘Ntoni aveva il senso dell’equilibrio, che accontentava quasi tutti.

    Aveva organizzato bene anche la fuga d’amore con Rosa Arruzza, figlia di un sarto gelosissimo, che aveva deciso di assegnare quella sua terza femmina a uno scialbo ragioniere del consorzio agrario.

    Rosa non aveva provato alcun imbarazzo quando ‘Ntoni l’aveva posta di fronte alla scelta tra un giovane, rude e ignorante ma buono, e un pallido e silenzioso omino da scrivania. E due notti dopo, al segnale prestabilito, si era calata dalla finestra della sua camera, era salita in groppa a un asino premendo il seno sulla schiena di ‘Ntoni e si era rifugiata con il suo amante in un fienile.

    Aveva sedici anni, Rosa, ma era donna già fatta. E su quella donna, che adesso era la sua donna, ‘Ntoni sfogò tutto il suo ardore di ventenne nel pieno delle forze. Mai, prima di quella notte, ‘Ntoni aveva immaginato che la vita sapesse riservare momenti di tale dolcezza.

    Abituato a misurarsi con l’aspra giornata nei campi, quell’esile ragazza gli sembrava un tenero filo d’erba spuntato tra i rovi, che chiunque, in qualsiasi momento, avrebbe potuto schiacciare sotto i piedi. E proteggere la sua donna da quel mondo così duro diventò da quella notte l’unica ragione per cui valesse la pena di vivere: lo giurò a se stesso, ‘Ntoni, lo giurò alle stelle di quella notte del maggio del 1915, mentre Rosa, ormai stremata, dormiva sul suo petto, illuminata dalla luna.

    Pochi mesi dopo, proprio quando il ragazzo credeva di avere tutta la vita tra le mani, la Patria si accorse per la prima volta della sua esistenza: quelle braccia così forti adesso servivano per impugnare il fucile contro un nemico sconosciuto, nascosto al di là di un fiume lontanissimo, ben oltre i confini di quello che a ‘Ntoni appariva l’unico mondo possibile.

    Fatta eccezione per qualche zuffa infantile, ‘Ntoni non aveva mai litigato con nessuno. Non aveva mai sparato, prima di allora. Non sapeva neppure cosa fosse, un nemico. Fosse dipeso da lui, sarebbe tornato volentieri a battersi con le bizze di stagione che minacciavano il raccolto. Ma sul Carso non aveva scelta: doveva salvarsi, per mantenere fede al suo impegno; doveva uccidere, se voleva proteggere Rosa.

    Mentre era al fronte gli erano successe tre cose: la sua corteccia, raffilata dalla paura della morte e dalla disciplina militare, si era ulteriormente indurita e ispessita; era diventato padre di un bambino chiamato Luigi, come la buonanima del nonno; aveva conosciuto il socialismo e, una volta tornato a casa, era diventato un fiero combattente anche quando si trattava di reclamare, per sé e per gli altri braccianti, una paga più giusta e condizioni di lavoro più umane. E in nome di quegli ideali aveva anche cominciato a litigare.

    Rosa assecondava con orgoglio il suo uomo, ma non nascondeva lo sconforto, quando gli scioperi costavano botte e ancora più miseria. ‘Ntoni sapeva trovare quasi sempre le parole adatte per convincerla che la giustizia e il socialismo avrebbero trionfato, prima o poi. E la notte continuavano ad amarsi, come se fossero ancora in quel fienile.

    Rosa partoriva al ritmo di un bimbo vivo ogni sedici mesi, settimana più, settimana meno. Dopo Luigi erano arrivati nell’ordine Salvatore, Maria Concetta e Domenico. E quando, al sesto mese della nuova gravidanza, Rosa cadde dalle scale rischiando di perdere il bambino, ‘Ntoni entrò per la prima volta in chiesa da quando si era sposato e pregò per ore e ore senza fermarsi, promettendo al suo Dio che, se gli avesse fatto la grazia, avrebbe chiamato il bambino come il santo di quel giorno.

    Quando ormai era sera, il parroco gli disse che poteva bastare e gli chiese di tornare a casa per riposare.

    «Chi si festeggia, oggi?» chiese ‘Ntoni.

    «Oggi è San Giuseppe, ‘Ntoni. Sei padre, dovresti saperlo.»

    «Allora lo chiamerò Giuseppe.»

    Ecco perché il quinto figlio di ‘Ntoni Belcastro si chiamò Peppe.

    II

    Peppe Belcastro aveva la lingua lunga. Lo disse anche la levatrice, dall’alto della sua ventennale esperienza, quando lo sentì piangere come un forsennato, mentre lo ripuliva per bene prima di consegnarlo alla madre. Rosa aveva già accolto tra le braccia quattro neonati, ma la vampata di emozioni rimaneva sempre uguale. Quella minuscola creatura, a cui bastava l’odore della mamma per essere in pace col mondo, spiegava e giustificava tutto: le ansie, i sacrifici, le sofferenze.

    Persino la ruvida corteccia di ‘Ntoni si ammorbidiva in quei frangenti. Era l’unico momento in cui lo si vedeva piangere senza ritegno davanti a tutti. Magari un’ora dopo indossava nuovamente la maschera di burbero illuminato; ma chi lo conosceva sapeva che avrebbe potuto approfittare di quei momenti per chiedergli qualunque cosa.

    Qualunque cosa, tranne di venir meno alla sacra promessa che aveva fatto il giorno di San Giuseppe. Rosa avrebbe voluto chiamare il bambino Saverio, in memoria di un fratellino morto di polmonite molti anni prima. Ma ‘Ntoni non sentì ragioni: si era impegnato solennemente a nominare il santo del giorno in cui aveva chiesto la grazia e così avrebbe fatto il giorno dopo, dichiarando in Comune l’arrivo del quinto figlio.

    Il piccolo Peppe aveva scelto un periodo complicatissimo per venire alla luce: la mietitura era alla sua fase cruciale e ‘Ntoni doveva partire in piena notte per cominciare il lavoro alle prime luci dell’alba, quando ancora il sole non picchiava così forte. Quelle erano le giornate più lunghe e più dure dell’anno, ma anche quelle in cui il lavoro era sicuro, con le campagne piene di grano maturo per essere raccolto. Quello però era un giorno speciale e ‘Ntoni aveva già deciso di rinunciare a mezza giornata di paga, pur di andare al Comune col compare Vito, che sapeva leggere e scrivere e avrebbe fatto da testimone alla denuncia di nascita.

    Don Alfonso era ufficiale dello Stato Civile da più di trent’anni. Ogni pagina dei registri dell’ufficio era vergata dalla sua calligrafia, finemente arricchita da elaboratissimi ghirigori. Anche l’atto di nascita di ‘Ntoni era stato compilato da Don Alfonso. Era un uomo probo, rispettoso verso tutti e rispettatissimo da tutti. Mentre scriveva le annotazioni sui registri con la cura di un pittore alle prese con la tela, i suoi imponenti baffi imperiali sembravano danzare nell’aria e tutti seguivano le evoluzioni del pennino in religioso silenzio, come a non voler disturbare la creazione artistica del documento. Finita l’opera, si alzava in piedi, si complimentava con il padre dandogli la mano e, quando i genitori erano giovani, cioè quasi sempre, salutava con un benaugurante «Alla prossima!», tanto sapeva che non era finita lì.

    Quel giorno, invece, Don Alfonso congedò il testimone e trattenne ‘Ntoni più del previsto.

    «Avete saputo che è successo ieri a Roma?» gli disse con un filo di voce.

    «No, Don Alfo’, sono tornato ora dalla campagna.»

    «L’onorevole Matteotti è scomparso. Lo aspettavano in Parlamento per un discorso importante, ma nessuno ha più notizie di lui da ieri pomeriggio.»

    «Sono stati i fascisti!» si lasciò scappare ‘Ntoni.

    «Abbassate la voce!» lo redarguì Don Alfonso, che non era socialista, ma le camice nere proprio non le digeriva. «Qualunque cosa facciate, fatela fuori di qui. E non dite a nessuno che la notizia ve l’ho data io, vi prego.»

    ‘ Ntoni uscì dal Comune, scosso da un brivido che neppure la calura di giugno riusciva a fermare. Sentiva la frenesia di avvisare i compagni, ma, forse per la prima volta, avvertiva anche un senso di paura, percepiva il rischio di diventare egli stesso un bersaglio. Mentre camminava per strada si sentiva osservato e si guardava intorno, per controllare se qualcuno lo stesse seguendo.

    Non era da lui.

    Forse era un primo segno della maturità, forse era quel bimbo appena arrivato: fatto sta che arrivò a casa sudato, trafelato e impaurito, come se fosse scampato a un agguato per un colpo della più cieca fortuna.

    A Rosa non poteva certo sfuggire quella stranezza. Come aveva fatto altre volte, finse di accettare le rassicurazioni del marito e aggiunse solo che il piccolo Peppe piagnucolava perché aveva bisogno anche dell’odore del padre.

    Se ‘Ntoni era forte come un toro, Rosa era astuta come una volpe.

    Quando parlava così, Rosa assumeva un tono languido e misterioso, sapendo che il marito si sarebbe sforzato di capire; poi lo fissava con un sorriso a mezza bocca, per accertarsi che il messaggio fosse giunto a destinazione. E quando Rosa parlava in quel modo ‘Ntoni si scioglieva: la moglie gli sembrava ancora più attraente di quando l’aveva stretta a sé per la prima volta in quel fienile e in men che non si dica, se aveva nascosto qualcosa, vuotava il sacco.

    Ma ‘Ntoni era pur sempre un socialista e, di fronte a un evento come la scomparsa di uno degli esponenti più in vista del partito, non si poteva restare impassibili. Occorreva reagire. A sera inoltrata i compagni presero la decisione: per l’indomani i lavoratori avrebbero scioperato, partecipando a una marcia di protesta, che si sarebbe conclusa con un comizio antifascista nella piazza centrale del paese.

    III

    Durante la notte ‘Ntoni ebbe un incubo. Non gli capitava spesso. Sognare, per uno come lui, era roba da femminucce, un segno di debolezza del corpo e dell’anima. E quando gli accadeva con troppa frequenza pensava di essere malato. Ma quella notte fu diverso: quegli insetti giganteschi, quei mostri spaventosi con le antenne dritte e i pungiglioni puntati sul suo petto, pronti a succhiargli il sangue, sembravano davvero sul suo letto; ne sentiva il ronzio insistito e fastidioso a un millimetro dall’orecchio.

    Così, anche in una delle rare notti in cui avrebbe potuto concedersi un paio d’ore di riposo in più, si ritrovò già sveglio prima dell’alba, come in un qualsiasi giorno di lavoro.

    Ma non era questo che lo contrariava. Per abitudine si svegliava prestissimo. Anche nei giorni di festa era sempre il primo a rimettersi in piedi e allora, per non disturbare la famiglia che dormiva, usciva di casa e passeggiava con le mani in tasca fra le strade ancora deserte e gli sembrava in quelle occasioni di vivere in un posto magnifico, dove la pace e l’armonia restavano regine incontrastate. Gli piaceva camminare a quell’ora, in quelle viuzze ancora semibuie, nel placido silenzio, rotto solo dal garrito delle rondini e dal guaito di qualche randagio appena sveglio.

    Quella mattina, invece, non aveva alcuna voglia di uscire. Sentiva ancora quegli insetti sulla pelle e continuava a grattarsi fino provocarsi escoriazioni che prendevano a bruciare e a prudere sempre di più.

    Per Mastro ‘Ntoni quello era un bruttissimo presagio: se un sogno innocente era già un sintomo di debolezza, quelle immagini che continuavano a circondarlo anche da sveglio erano il segnale di qualcosa di grave, di un malessere già in stato avanzato, e sarebbe stato meglio non uscire di casa. Ma cosa si sarebbe detto in giro? Cosa avrebbe detto ai compagni? Che non partecipava al grande sciopero per Matteotti perché tormentato da insetti immaginari? Il mito di Zù Tàguru sarebbe crollato di schianto e forse anche il partito avrebbe dubitato della sua fede.

    A quel punto ruppe gli indugi: uscì di casa ancora di buon mattino, raffreddò la testa immergendola nell’acqua della pila ¹ e si lavò più volte dove sentiva più prurito. All’ora stabilita era in piazza, tra le bandiere rosse, pronto a mettersi in marcia per lo sciopero socialista.

    Il percorso era quasi obbligato: dalla piazza i manifestanti avrebbero imboccato la centralissima Via Roma fino al Palazzo del Comune; poi il corteo si sarebbe infilato nella strettoia del vecchio ponte per sbucare sulla salita della Timpa, al termine della quale, procedendo lungo la Via del Risorgimento, si sarebbe diretto verso lo slargo del Corso Umberto I°, per sfociare nuovamente in piazza per il comizio finale.

    I carabinieri osservavano a distanza. La manifestazione non era stata autorizzata, ma era giunta voce che il maresciallo avesse dato ordine di lasciar fare e di intervenire solo in caso di necessità: «Anche le onde di indignazione vanno governate», pare avesse detto.

    Tutto procedeva per il meglio. Nonostante il pochissimo tempo a disposizione, la sezione locale aveva organizzato tutto a dovere e alla chiamata avevano risposto molti simpatizzanti, anche se non portavano in tasca la tessera del partito: in tutto poco più di duecento persone.

    Slogan, cartelli improvvisati e rivendicazioni. All’altezza del municipio ci fu una sosta e più alto giunse il grido degli scioperanti.

    Il maresciallo rassicurò i suoi militi allarmati, ordinando a due di loro di non seguire più il corteo e di rimanere di guardia al municipio, mentre lui, insieme agli altri uomini, sarebbe tornato indietro e avrebbe atteso gli scioperanti in piazza per svolgere il controllo durante il comizio.

    Sulla strettoia del ponte, in leggera discesa, il corteo si allungò, per ricongiungersi all’inizio della ripida salita della Timpa, dove la massa assunse l’aspetto di un assembramento disordinato, sparso tra le povere casette dei braccianti, costruite in pietra viva e affiancate l’una all’altra, in un rosario di miseria, per tutta la lunghezza della strada.

    E fu qui che accadde il fattaccio.

    Mentre i manifestanti arrancavano a metà della salita, dalla cima della Timpa sbucarono sei uomini a cavallo, tutti armati di fucile, che sparando colpi in aria spinsero i destrieri sulla folla.

    Tra gli scioperanti fu il panico: la testa del corteo, colta di sorpresa, cercò scampo indietreggiando e travolgendo chi la seguiva, badando solo a sopravvivere, schiacciando corpi, piegando braccia, spezzando colli.

    Per chi stava in mezzo al corteo, stretto tra chi correva a ritroso, e chi in coda, ancora ignaro di tutto, spingeva avanti, non ci fu possibilità di salvezza: l’onda terrorizzata lasciò sul selciato decine di corpi inermi e laceri, dal volto viola e dagli occhi vitrei, ancora increduli e atterriti.

    Tra questi, d’un tratto, si levò un lamento e un braccio possente si alzò a richiedere aiuto. Un uomo scese dal cavallo, si avvicinò al ferito, lo guardò, si lasciò andare a un sorriso cattivo, puntò il fucile sulla bocca implorante e sparò.

    I pallettoni portarono via mezzo volto, ma le braccia rimanevano inconfondibili.

    Era ‘Ntoni Belcastro.

    IV

    Rosa Arruzza si metteva al lavoro di buon mattino: non poteva essere altrimenti con un marito e cinque figli da accudire. Il primo pensiero di ogni giornata era dettato dalla fame, che ogni giorno mostrava denti sempre più affilati. Appena sveglia, mentre ancora si sciacquava la faccia con l’acqua insaponata della bacinella, Rosa si chiedeva se e cosa la famiglia avrebbe mangiato. Il più delle volte gli sforzi maggiori erano diretti a capire quale fosse il metodo più equilibrato per razionare le magrissime scorte di cibo.

    Quando sapeva che ‘Ntoni sarebbe rientrato per il pranzo, Rosa era combattuta da sentimenti contrastanti: era felice di non dover aspettare il tramonto per rivedere il suo uomo, e tuttavia, il rientro anticipato del marito poteva significare solo due cose: che ‘Ntoni avrebbe portato a casa solo la paga di mezza giornata o che, ancora peggio, non era riuscito a strappare neppure quella. Era infatti il fattore del latifondista a decidere, di giorno in giorno, quante e quali braccia asservire alla gleba, e capitava anche a uno come ‘Ntoni di tornare, di tanto in tanto, a mani vuote.

    Stavolta era diverso: ‘Ntoni aveva scelto di non lavorare, e l’aveva fatto dopo aver già rinunciato il giorno prima a mezza giornata di lavoro, per denunciare di persona la nascita di Peppino. Rosa ne aveva discusso la sera prima, con ‘Ntoni: a lei quel sacrificio in quel momento sembrava inopportuno.

    «Perché scioperi anche tu? Per protesta? E se protesti lo porti il pane a casa per i tuoi figli?»

    «Non lo porto il pane; ma se non protesto, di questo passo neanche Peppino riuscirà a portare il pane a casa sua, quando sarà un uomo!»

    «Se continua così, Peppino non ci arriverà a diventare uomo!» era stata l’amarissima replica.

    A letto, per mostrare il proprio disappunto, Rosa aveva rivolto le spalle al marito e non aveva voluto sentire ragioni né moine, come per punirlo per quella decisione testarda e dannosa per la famiglia. E la mattina non si era sorpresa quando, al risveglio, aveva appurato che ‘Ntoni era già uscito di casa. Immaginava che la sfuriata avrebbe tolto il sonno al marito e appunto per questo l’aveva fatta. Ma già si preparava a riaccoglierlo a casa a braccia aperte, perché era giusto che sapesse senza equivoci che lei, in fondo, capiva il senso di quella battaglia, che malgrado le difficoltà la approvava e che era fiera di quell’uomo che trascurava la sua povertà pur di curare la povertà altrui. ‘Ntoni diceva che solo prendendosi cura degli altri sarebbe arrivato il giorno in cui qualcuno si sarebbe preso cura di loro.

    Quella mattina era quindi iniziata come tutte le mattine: di corsa, per non far mancare niente a nessuno. Prima che gli altri figli si svegliassero, Rosa aveva già allattato Peppino, lo aveva risistemato nel cassettone ed era andata alla pila. Qui aveva riempito due fiasconi di acqua e aveva lavato i panni; carica come un mulo, era tornata a casa e li aveva stesi sulla corda. Poi era andata dalla comare Pina a prendere mezzo litro di latte di capra, aveva rammendato dei pantaloni di Salvatore, aveva sbucciato quattro patate e tre cipolle e infine aveva acceso il fuoco, per arrostire un paio di peperoni e scaldare l’acqua per la minestra.

    Solo a questo punto aveva buttato giù dal letto Luigi, che, per dovere di primogenitura, aveva l’incarico di svegliare tutti gli altri e di distribuire equamente il latte tra le quattro bocche, mentre la madre, quando l’aveva, spalmava una lacrima di burro sul pane, insaporendola con un pizzico di sale.

    Nonostante la ancor tenera età, Luigi era già un ometto. Gli stenti ne avevano forgiato il carattere, conosceva la sofferenza e già la sopportava con stoico distacco. Appena in piedi, Luigi eseguiva il compito mattutino senza fiatare, come investito dalla naturale responsabilità di sostituire il padre quando era assente. Faceva prima mangiare gli altri e solo quando tutti erano sazi si dedicava a se stesso. Rosa gli aveva sempre raccomandato di mettere da parte la sua porzione, ma lui faceva finta di dimenticarsene e si accontentava di quello che restava, ammesso che qualcosa rimanesse.

    Luigi stava aiutando il piccolo Domenico a vestirsi, quando Saro e Gino bussarono alla porta.

    Piagnucolavano qualcosa, quei due.

    Luigi vide la mamma impietrita, la bocca aperta, il volto sbiancato. Poi le vide cadere il mestolo dalle mani, la guardò crollare sulle ginocchia con gli occhi sbarrati e la sentì lanciare un urlo da belva colpita da un’arma micidiale che, senza ucciderla, ne strappa via ossa e brandelli di carne.

    In pochi istanti la casa si riempì di gente che gridava e piangeva con la testa tra le mani e commiserava la donna derelitta, bloccandola ogni volta che tentava di graffiarsi il viso o di strapparsi i capelli per la disperazione. Alla sua angoscia si aggiungeva quella di altre donne, che sembravano accomunate dallo stesso tragico destino.

    Nella confusione improvvisa, nel sovrapporsi impetuoso di voci e di grida, Luigi non capiva di preciso cosa fosse accaduto.

    I suoi parenti lo abbracciavano con gli occhi gonfi di lacrime, come se dovessero partire per un lungo viaggio.

    Salvatore, Maria Concetta e Domenico piangevano, impauriti dalle urla e dai rumori e

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