Vite Parallele
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Anteprima del libro
Vite Parallele - Raffaele Taddeo
Il gioco degli scacchi appassionava Antonio fin da quando era adolescente. A volte gli sembrava di perdere tempo. Ma poi aveva uno scatto di autostima dicendosi che le partite a scacchi allenavano il cervello e lo rendevano più giovane, allontanando da lui una precoce vecchiaia.
Stanco e deluso perché, contro il computer, non aveva vinto nemmeno una partita, quella sera si sedette sulla poltrona del suo studio-soggiorno. Era scomoda. Lo schienale era corto così che neppure la testa riusciva a sistemare adeguatamente. Aveva sempre rifiutato di avere una poltrona accogliente. Gli andava bene quella, più simile a una sedia larga che non a una poltrona. Prese in mano il libro che stava leggendo da qualche giorno.
La mente, però, andò subito a ripercorrere le attività svolte nelle ultime ore. Sedersi su una poltrona poco recettiva era un po’ come mettersi nella disposizione di fare meditazione, così come gli avveniva da ragazzo. Si sedeva in Chiesa su una panca di legno. Si accingeva alla meditazione, cioè al non pensare a nulla, a sgomberare la mente da tutto. Arrivava inevitabilmente sonnolenza. A volte sceglieva di essere guidato da qualche testo atto allo scopo, come le pubblicazioni di Thomas Merton, oppure il classico Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis. Meditare, allora, voleva dire continuare a ripetere come un mantra la frase scelta, di cui capiva poco l’importanza o anche il senso profondo. Era un invito ancora maggiore verso il sonno. Quando se ne accorgeva, quasi pentito, si inginocchiava così da poter rimanere sveglio. Ma non sempre era così tempestivo nel cambiare posizione, per cui, a volte, il sonno aveva la meglio, col rischio di cadere e sbattere la testa sul legno della panchina posta davanti.
Ora, sprofondato in quella poltrona, cercava di riposare, svuotando la mente. Dopo un po’ qualche immagine ipnagogica gli si presentò davanti. Era un cozzare fra veglia e sonno. Non voleva dormire, perché aveva altro da fare, ma la stanchezza stava prendendo il sopravvento…
Una folla di persone, di ogni età, di ogni ceto. Sembra adirata. Chi ha in mano bastoni, chi mazze di legno che agita nell’aria. Qualcuno ha anche un’arma da fuoco. È tanta la gente, ma quello che pare più strano è la foggia con cui le persone sono vestite. I pantaloni non sono di tessuto buono, ma di fustagno. Sono larghi e allacciati in vita con corde. Si sta imboccando una via partendo da una piazza. Un uomo sulla trentina è spinto da una parte e dall’altra. Scompare tutto e appare nitida, in una sorta di nebbia attorno, la targa stradale: corso Monforte.
Antonio si svegliò angosciato, aveva chiaro in mente la scena del sogno. Che epoca era? Che luogo era? Non riuscì a capirlo subito. Corso Monforte era a Milano. Mentre pensava alla stranezza del sogno, ricordò che solo qualche giorno prima aveva letto testi sulle cinque giornate di Milano e forse aveva introiettato potentemente le letture storiche. Quei fatti gli si erano presentati mentre dormiva. Poteva, quindi, essere una scena di quei giorni di rivolta a Milano nel marzo 1848. Ma c’erano le targhe delle strade in quell’epoca? Andò al computer e trovò un sito: Divina Milano.it
che gli confermava l’esistenza di targhe all’angolo delle strade fin dal 1786. Ne era stato incaricato il marchese Ferdinando Cusani. Esisteva, quindi una targa con il nome corso Monforte
. Sentiva ancora stanchezza. Cercò di rilassarsi per recuperare un po’ di energie. Di nuovo piombò nel sogno.
Ancora folla che sempre più si avvicina a un grande palazzo. È maestoso. Tre piani ad altezze diverse. L’accesso è dato da un aggettato di quattro colonne che sostengono un lungo balcone. Tante persone intorno. Una grande confusione. All’improvviso dalla folla si alza un urlo che…
Antonio si svegliò ancora una volta. Riconosceva il palazzo. Le immagini, che gli apparivano, erano nitide, lo riportavano al palazzo del governatore di Milano della metà del 1800, attuale sede della Prefettura. Anche se molto frastornato, ricacciò indietro quanto sognato e riprese a leggere il libro che aveva fra le mani. Mancava ancora qualche ora prima di dover andare a letto e quindi poteva dedicarsi ai suoi impegni. Dapprima terminò la lettura del libro. Un romanzo di Oran Pamuk, che non lo stava per nulla entusiasmando. Successivamente si dedicò alla duration form e poi decise di andare a sdraiarsi sul letto. Questa volta gli si chiusero subito le palpebre per un sonno profondo.
Ettore, sei anche tu qui? – una voce chiama un giovane che è nella folla-.
Egli si guarda in giro per rintracciare la persona che l’ha chiamato. Riconosce, in quella fiumana che si accalca vicino alla porta di quel grande palazzo, il suo amico Carlo.
-Sì, ieri sera Cesare¹ ci ha invitati ad essere puntuali, qualunque fosse stato il tempo. Le autorità austriache sono in difficoltà, se hanno dovuto concedere la libertà di stampa. Ho sentito poco fa che hanno promesso di organizzare una conferenza fra le varie nazionalità. È stata indetta per il 3 luglio. Tutti hanno capito che è solo una scusa per prendere tempo.
Antonio guardò l’orologio. Aveva dormito forse neppure mezz’ora. Realizzò che nel sogno si era in mezzo alla folla delle cinque giornate di Milano. Chi era questo Ettore? Da dove veniva fuori questo nome? Non aveva amici che si chiamassero così. L’unico Ettore che conosceva era il figlio di Priamo di iliadica memoria. Sarà poi stato un nome usato nel 1800? Che tipo era? Che attività faceva? Era un contadino o un artigiano? Oppure anche uno studioso. Quale era il suo temperamento?
Ma chi era anche Carlo? Ricordava che aveva letto qualcosa di un certo Carrones Carlo. Sarà stato lui?
Ettore si era appena presentato alla mente di Antonio, anzi al suo inconscio e subito lo stava amando. Voleva conoscerlo di più. Ettore, nome di un guerriero che non ebbe paura di affrontare Achille, molto più forte e bravo di lui. Ma Ettore non poteva sfuggire alla sua sorte, alla fama della sua eroicità.
Antonio desiderava riaddormentarsi e risognare Ettore. Ma ormai si era svegliato. Riprese a leggere. Poi andò sul PC e si mise a rivedere un racconto che aveva scritto. Passò parecchio tempo a rileggerlo. Cosa insolita per il suo carattere portato a creare e poi lasciare le cose così come erano fatte. Il rivederle gli aveva sempre dato fastidio. Per questo non sarebbe mai stato uno scrittore di successo o di valore, pensava spesso. Ormai quella fatica l’aveva finita e gli stava frullando in mente qualcosa di più complicato, più grandioso. Un romanzo. Gliene avevano già pubblicato due. Ma chi li aveva conosciuti? Poche persone. Qualcuno aveva detto che uno dei due aveva un senso.
Il secondo, invece, dicevano, era raffazzonato.
Doveva telefonare a Francesca. Era da qualche tempo che non la vedeva. In verità era solo da due giorni, ma l’amore che le portava era così grande che due giorni gli sembravano un’eternità.
Amava Francesca. Si era innamorato, anche se non era più un giovincello. Ma neppure Francesca era una ragazzina.
Quella sera non poteva più incontrarla. Era tardi. Le avrebbe dato appuntamento per l’indomani. Aveva da svolgere un po’ di lavoro ma sperava veramente di finire entro il giorno dopo che era sabato.
Ma a quell’ora Francesca probabilmente dormiva. Sarebbe stato meglio telefonarle il giorno dopo. L’ultima volta che l’aveva vista c’era stato un piccolo dissapore. Se non le avesse telefonato, lei avrebbe potuto prendersela.
E se stesse dormendo, si chiese, allora avrebbe potuto infastidirla maggiormente. Era sempre un indeciso. Ma poi era indecisione o era altro? Debolezza, vigliaccheria? Voleva fare una cosa, poi un’altra contraria lo faceva desistere. Non sapeva mai quale fosse la giusta decisione da prendere. Ma forse non voleva scegliere e non voleva esporsi, pur sapendo bene quale fosse la cosa giusta da farsi. Questa continua indecisione lo tormentava.
- Pronto, Francesca. Ti disturbo? Volevo chiederti se domani ci vediamo.
- Antonio, intanto anche se tardi non mi dai fastidio, anzi sono felice di sentire la tua voce. Ma domani sera non sarai stanco per il lavoro che devi finire?
- È vero, ma penso che ci si possa trovare ugualmente per fare una cena assieme.
- Vuoi che ti prepari qualcosa oppure andiamo al ristorante?
- Non voglio impegnarti più del dovuto. Andiamo in quel ristorante vicino a casa tua, dove si possono gustare piatti pugliesi.
– Non sarà troppo caro?
- Ma no, qualche risparmio ce l’ho. Non preoccuparti.
- A proposito, volevo chiederti se hai risolto quel problema di proprietà di quella casa che hai al lago.
- Sono sempre molto indeciso sul da farsi. Dal catasto, dai documenti di acquisto quei 10 mq. dovrebbero appartenermi. Da tempo, però, sono occupati, perché il vicino di casa ci ha costruito una legnaia. Temo che una qualsiasi causa possa essere persa.
- Antonio, direi che è meglio parlarne domani a cena. Lo sai che la penso diversamente. Adesso è quasi mezzanotte. A rivederci a domani.
- Ciao Buona notte.
Il cielo è molto nuvoloso. Incomincia a piovere. C’è un assembramento molto intenso di uomini. Tutti indossano dei pastrani. Qualcuno è rigonfio. Forse si favorisce la possibilità di nascondere delle armi. Andiamo a casa di De Luigi², si sente dire. Poi la folla si muove. Poco dopo è a corso Monforte, là dove c’è il governo austriaco. La gente diventa sempre più numerosa. Pochi hanno le armi ma molti hanno oggetti per offendere. Dalle finestre qua e là brevi accenni di sparute apparizioni di bandiere bianche, rosse e verdi. Di bocca in bocca tutti si passano le notizie delle dimostrazioni a Vienna. I milanesi non vogliono essere da meno. Il vicegovernatore O’Donnel, dice la gente, ha annunciato la libertà di stampa. La folla continua la sua marcia verso il governatorato.
Ecco il Broletto. Il Potestà Ettore Casati esce insieme ad altri componenti della municipalità e si mette alla testa del corteo che continua a gridare viva Pio IX, viva l’Italia. Qualcuno grida anche fuori gli austriaci
.
La folla è esaltata, vuole raggiungere i propri obiettivi. Quando si arriva vicino al palazzo, improvvisamente un giovane si avventa contro una guardia di controllo dell’ingresso e con un fendentelo fredda³. Intanto una delegazione entra nell’edificio. La folla è agitata e impaurita. Ce la faranno pagare. In effetti arriva la cavalleria che dai bastioni si dirige verso Monforte per disperdere l’assembramento.
Facciamo una barricata – dice Ettore a coloro che sono intorno.
Lui e Carlo, ritornando indietro per sottrarsi ai soldati austriaci, arrivano in una piazza; vedono la carrozza di un nobile e aiutati da altri la rovesciano. Subito sono portate altre masserizie. Passa anche un carro con botti vuote; viene rivoltato e le botti utilizzate per la barricata. Si adopera tutto quello che si trova e che sia utile a formare una prima barriera contro la cavalleria. Carlo sa come procedere nell’edificazione delle barricate, dà gli ordini che vengono eseguiti, perché le persone intorno capiscono che se ne intende e che bisogna fidarsi.Gli austriaci a cavallo, a questo punto devono fermarsi. Colpi di fucileincominciano a sentirsi ma dalle finestre piove sui soldati acqua bollente. I cavalli non sono più sicuri. La cavalleria deve ritirarsi per non subire perdite. Qualche soldato rimane per terra ferito. Viene preso prigioniero dopo che gli sono state sottratte le armi.
C’è necessità di creare una nuova barricata lì vicino, oltre la porta d’ingresso del palazzo del governatore, per permettere a Casati e agli altri di uscire.
Carlo ed Ettore sono trascinati a costruire una seconda barricata. Anche questa è fatta con carrozze tavoli, sedie, mobili, materassi che vengono gettati dalle finestre. È un donare della gente per opporsi agli austriaci.
Arrivano ancora i soldati che cercano di sfondare la barricata. I milanesi si difendono e respingono l’attacco. Sono in pochi ad avere dei fucili. Ettore ne ha uno. Riparandosi dietro un carro comincia a prendere la mira e sparare. Sa come fare. Gli austriaci rimangono costernati, non si aspettano una reazione di questo genere.
Ettore e Carlo entrano nel palazzo del governatore e si dirigono verso il gruppo che è col Casati. Si minaccia il vicegovernatore O’Donnel⁴ perché firmi l’ordinanza di passaggio della polizia alle dirette dipendenze della municipalità. Molto spaventato il vicegovernatore firma l’atto.
-Andiamo al Broletto – dice Casati. Il suo gruppo vi si dirige. Si porta dietro l’impaurito O’Donnel. Gli uomini vicini gli mettono una coccarda tricolore sul petto e passano da un’uscita secondaria diretti alla sede della municipalità.
In via Montenapoleone⁵, un drappello di soldati austriaci attacca il gruppo che scorta Casati uccidendone qualcuno. Vistosi assaliti, Casati e gli altri si rifugiano in una casa.
-È quella di Vidiserti - dice Ettore.
Lui e Carlo si trovano fuori dal gruppo.
- Che facciamo Carlo?
- Andiamo a casa mia e vediamo di organizzare anche lì vicino una barricata. Poi andiamo da Cecilia. La sua finestra dà sulla strada ed è possibile, coperti, colpire gli austriaci. Io, però, non ho un’arma da fuoco. Quando siamo a casa la prenderò.
- Chi è Cecilia?
- È una carissima ragazza che ho conosciuto la settimana scorsa. Non te ne ho ancora parlato perché non ne ho avuto l’occasione. Vive col fratello. I suoi genitori sono morti e ho intenzione di prenderla in sposa.
-I tuoi sono d’accordo?
- Con la famiglia così numerosa che mi trovo, uno che vada fuori casa è sempre un sollievo. Ho intenzione di andare ad abitare da solo con Cecilia. Voglio essere indipendente. Passiamo da casa mia, prendiamo armi e munizioni in abbondanza e poi ci rechiamo da lei.
- Hai ancora fucili?
- Sì, li ho distribuiti, così come ci era stato detto da Cesare l’altro giorno, ma una decina li ho tenuti con me.
- Hai fatto bene. Così oggi la nostra azione può essere più efficace.
Sono in corso Francesco e passano davanti ad una chiesa. I due, vicino al sito della confraternita delle quattro Marie, girano a destra.
A casa sua Carlo insieme ai suoi, ad Ettore ed amici costruisce una barricata⁶. Poi si allontana con Ettore, dopo aver preso dei fucili e delle armi. Arraffa anche una pistola per muoversi velocemente se necessario.
Cecilia abita in un palazzo vicino al Broletto al terzo piano, dice Carlo. I due passano vicino al Duomo. Soldati austriaci appostati sulla grande chiesa sparano su chiunque vedono. I due amici procedono a zig zac e raggiungono, l’edificio dove abita l’amica di Carlo. Ad un angolo Ettore può vedere la targa che indica calle Orefici. I due amici salgono. Bussano.
- Chi siete?
- Cecilia, amore mio, apri che cerchiamo di dare fastidio agli austriaci dalla tua finestra. Se ci appostiamo possiamo ucciderne parecchi.
Carlo ed Ettore entrano
- Tuo fratello dov’è? - chiede Carlo
- È giù a costruire la barricata e difenderla.
In quel momento si sente un colpo di cannone. Ettore subito si affaccia alla finestra e vede che parte della barricata che era in quella strada è stata distrutta. Si vedono soldati austriaci che da lontano cercano di avvicinarsi per liberare quella via importante, perché permette i collegamenti fra le truppe austriache. Da quella finestra è possibile vedere il Broletto. Ettore vede avanzare dei soldati che stanno sparando ad un ragazzo di forse tredici-quattordici anni; dalla finestra mira e ferma chi comanda quel drappello. Gli altri rimangono sorpresi. Alzano i loro fucili, già carichi e sparano all’unisono. Ettore e Carlo fanno appena in tempo a rientrare. I due ricaricano, si affacciano e sparano ancora sul gruppo dei soldati.
Intanto dalle finestre vicine viene versata acqua bollente. Presi alla sprovvista gli austriaci si ritirano.
Non cessano, però, i colpi di cannone.
Ettore, cautamente, si sporge. I soldati si sono ritirati. Guarda giù e vede che ci sono dei feriti.
- Andiamo giù - dice a Carlo - c’è bisogno di noi.
- In strada c’è mio fratello. Gli sarà accaduto qualcosa?
Si affaccia, si sporge incautamente e mentre una scarica di fucile viene diretta alla finestra, lei vede il fratello che giace ferito.
Si