L'oro del passato
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Anteprima del libro
L'oro del passato - Diego Zappaterra
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L'oro del passato
1
L'orgoglio e le proprie convinzioni sono armi molto potenti quando si è amici e si è in guerra.
Ho imparato questa lezione a quasi ottant'anni e in un freddo mattino di dicembre, quando credevo ormai di non aver più nulla da imparare.
Parigi era in balia di un vento gelido e di una sottile pioggerella che, nel grigiore dell'inverno, davano alla Ville Lumiere quel suo tipico aspetto malinconico e affascinante allo stesso tempo. Alcuni passanti camminavano sotto i tetti lungo i bordi delle strade, altri cingendosi i fianchi al riparo di piccoli ombrelli, ciascuno col proprio croissant in mano o il giornale nella tasca dell'impermeabile. Percorrevo una lunga via del Marais, a nord dell'Ile Saint-Louis, in direzione della Senna. A un angolo, poco dopo una boulangerie e un piccolo bistrot, un gruppetto di adulti e bambini chiacchieravano allegri in attesa di entrare al Musée de l'Or du Passé, un museo sulla storia di Parigi e di tutta Francia, da fine ottocento ai giorni nostri. Fu creato da monsieur Antoin Moresco, un misterioso appassionato della Belle Epoque e di tutto ciò che quell'epoca ha scaturito negli anni a venire. Di lui, la gente sapeva solo che aveva girato molti angoli del mondo pur di trovare ciò che andava cercando per la sua collezione. Venuto a mancare, lasciò alla moglie l'apertura del museo, una notizia che incuriosì anche i parigini più diffidenti. E anch'io, non meno di loro, avevo un buon motivo per visitare quel luogo.
Con un cigolio ci venne aperto il grosso portone di legno scuro, tarlato e ricco di decorazioni in rilievo, volti che osservavano e piante che s'arricciavano. I bimbi corsero all'interno, seguiti dai genitori. Incuriosito, mi sbottonai il cappotto ed entrai con loro.
All'inizio fu l'odore a colpirmi, un insieme di polveri e muffe che mi stuzzicarono le narici, come l'ingresso di una vecchia stanza rimasta chiusa secoli. Poi ci fu la vista di quell'incredibile serie di oggetti che parevano usciti da un'altra epoca, un tesoro di mobili antichi, dipinti, stampe e attrazioni carnevalesche. L'interno era buio, se non fosse che i soffitti molto alti terminavano con piccole finestre in vetro colorato, la cui luce non potendo arrivare così in basso era aiutata dalle tante lampadine colorate sparse lungo le pareti ricoperte di legno. Quell'insieme di colori, naturali e non, le davano un'atmosfera incantata, come una grande cattedrale custode di ricordi antichi e preziosi. Moresco, pensai, non aveva dedicato la sua vita soltanto a collezionare ricordi ma anche a sincerarsi che la vetrina per i suoi oggetti fosse il più vicina possibile a quanto di vero lui ricordasse.
Quando arrivò il mio turno di pagare il biglietto d'ingresso, mi avvicinai al bancone e lasciai cadere distratto un paio di banconote su di un piattino argentato.
«Il suo nome monsieur?»
Mi voltai.
«Ha prenotato vero?» mi sentii chiedere.
Al di là del bancone una dolce signora di circa ottant'anni teneva gli occhi bassi su di un grosso quaderno. Aveva lunghi capelli biondi, increspati dal tempo e chiari al punto da esser quasi bianchi. Le cadevano sulle spalle coperte da un foulard color avorio e portava un maglione bianco chiuso sul petto da una spilla a forma di libellula, un cimelio di famiglia, o forse solo la scelta fra tante in un vecchio mercatino. Segnava i nomi dei presenti aiutandosi con un paio di occhiali legati al collo con una cordicella, che le scivolavano continuamente sulla punta del naso. Al suo fianco un grosso gatto nero dormiva rannicchiato sul cuscino di velluto rosso che la donna aveva forse tolto dalla propria sedia e messo sull'angolo più lontano del bancone. Un curioso ornamento vivente.
Dubitavo riuscisse a riconoscermi, dietro le rughe e sotto i capelli bianchi; difficile immaginare che questo corpo gracile nel quale vivo fosse un tempo asciutto e muscoloso. Il tempo passa e si porta via la bellezza, tranne che nella nostra testa, così fino alla fine sei destinato a ricordare quant'eri bello da giovane e quanto ti sei raggrinzito dopo.
Resasi conto che non otteneva risposta la donna alzò lo sguardo, tolse gli occhiali e mi osservò di sottecchi. Io ero ancora immobile come una delle statue in cartapesta di quel luogo.
«Mi scusi monsieur ma se non ha prenotato non posso farla entrare.»
«Pablo. Monsieur Pablo Gauthier» dissi in un filo di voce.
La vidi cambiare espressione in un lampo.
Deglutì e con la mano che tremava si chinò veloce a scrivere. Richiuse il quaderno e lasciò un biglietto d'ingresso. Con la scusa di afferrarlo cercai di sfiorarle una mano; lei, più veloce, tirò la tendina e sparì. Riapparve da una porta e raggiunse il gruppo di bambini con i loro genitori.
«Bonjour a tutti voi miei cari ospiti!»
M'infilai il biglietto in tasca e avvicinandomi al gruppo per ascoltarla parlare pensai che se aveva intenzione di evitarmi, per il momento ci stava riuscendo benissimo.
2
Erano gli anni delle follie e dei grandi cambiamenti. La guerra aveva lasciato un segno profondo e si cercava di cancellarlo con ogni mezzo possibile, fosse utile o meno. Parigi, in questo, ne fu regina. Le sale da ballo, i locali e i ristoranti, le ville degli individui più influenti di Francia; non c'era angolo di Parigi che non offrisse divertimento e voglia di dimenticare. Il vino era una delle grandi fortune della Ville Lumiere, se ne importava di continuo e altrettanto se ne consumava. Per questo il quartiere Bercy, nonostante non offrisse alcun tipo di divertimento o distrazione, era divenuto così importante per tutta Parigi.
Quando molti anni prima Teresa mise piede per la prima volta nel XII Arrondissement non avrebbe mai pensato di trovarvi un amico, tanto meno di trovarvi qualcosa che fosse un minimo interessante per una giovane ragazzina per bene come lei in mezzo a tanta confusione. Quella sponda della Senna era in balia di un chiassoso mercato a cielo aperto, di casse e bottiglie in ogni angolo, delle grida degli acquirenti e di quelle ancor più forti dei venditori di vino. L'odore del fiume si mischiava a quello della gente, del fango e della sporcizia sotto i piedi, dando a quel posto un'immagine ben più sudicia della Parigi che conosceva.
Il padre di Teresa si muoveva sicuro fra un commerciante e l'altro, la figlia ben salda per mano nella sua. Quando fu il momento di acquistare e il padre ebbe modo di distrarsi con la compravendita, Teresa poté finalmente fermarsi per osservare meglio quel luogo tanto nuovo per lei. Il suo sguardo, perso nei volti che riempivano il mercato, si fermò in particolare su quello di un giovane ragazzino che nascosto fra la folla sembrava sul punto di fare qualcosa. Aveva i capelli castani e il viso pallido, portava una camicia bianca sporca, un paio di calzoncini grigi corti e delle scarpe bucate. In ginocchio dietro una grossa cassa con una mano reggeva una bottiglia vuota. Lo vide uscire dal suo angolino con uno scatto, correre e raccogliere in mezzo alla folla un'altra bottiglia. Chi l'aveva gettata doveva essere parecchio brillo e s'interessò poco di quel ragazzino che veniva urtato e calpestato dai mercanti. Colpito a una gamba, il ragazzino si accasciò dolorante e fu allora che Teresa lo raggiunse e lo trascinò per le spalle in un angolo.
«Sei pazzo a buttarti così fra i piedi della gente?» chiese Teresa impaurita.
Pablo, che non si aspettava quella domanda né che qualcuno gli rivolgesse parola, restò in silenzio, stupito da quell'interferenza. Guardò le mani della ragazzina che ancora lo tenevano per le spalle. Lei, dovendo intuire l'imbarazzo creatosi, gliele lasciò con uno scatto e si rialzò rassettandosi il vestito. Portava un lungo cappotto grigio scuro che la copriva fino al ginocchio. Le maniche e il colletto erano orlate con un tessuto a rombi bianchi e rossi. La frangetta sbucava da un cappello bianco