Io ho denunciato. La drammatica vicenda di un testimone di giustizia italiano
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Anteprima del libro
Io ho denunciato. La drammatica vicenda di un testimone di giustizia italiano - Paolo De Chiara
1975
1
«Che cosa ho fatto… che cosa ho fatto…
«Maledizione… È la mia rovina…»
L’uomo è seduto per metà su una vecchia sedia di legno al centro di una stanza completamente vuota e semibuia. È disperato, piegato su sé stesso con le mani sul volto, la testa continua a muoversi avanti e indietro. Le sue parole rimbombano tra le quattro mura:
«Che cosa ho fatto… che cosa ho fatto…»
Lacrime amare solcano il suo viso stravolto dal dolore. L’urlo animalesco anticipa l’ennesimo attacco di panico, dalla sua fronte corrugata scendono grosse gocce di sudore, il cuore batte sempre più forte. I vestiti bagnati sono diventati un tutt’uno con la sua pelle. Si alza di scatto, colpisce con un violento calcio la sedia e inizia a spogliarsi: si toglie ferocemente la giacca, si sfila la cravatta, strappa con rabbia la camicia di colore azzurro con le sue iniziali, afferra le scarpe e le lancia furiosamente contro il muro.
«Figli di puttana!…» grida rabbiosamente.
Si sbottona la cintura e si abbassa i pantaloni, agganciando con le dita anche le mutande. È completamente nudo. Scaraventa con tutta la sua forza i suoi indumenti in un angolo della stanza. Nella sua mente l’immagine vivida lo riporta ai vecchi e drammatici ricordi.
Valerio sta passeggiando davanti a un bar, in una delle piazze principali di Catania, è completamente assorto nei suoi pensieri e fuma freneticamente. Un’auto di grossa cilindrata, di colore nero e con i vetri oscurati, fa una brusca frenata e si blocca a pochi centimetri dalle sue gambe. Le tante persone sedute ai tavolini, dislocati all’aperto della struttura, si accorgono dell’anomala e pericolosa situazione e si allontanano spaventate; due soggetti, con un fisico palestrato, uno in giacca e cravatta e l’altro con una camicia aperta sul petto, dove spicca una grossa catena d’oro, scendono velocemente dalla macchina e con fare minaccioso si dirigono risoluti e spietati verso l’uomo che, preoccupato, indietreggia.
I due malavitosi, con un viso che fa paura solo a guardarlo, iniziano a spingerlo contro il muro grigio e imbrattato da scritte anonime. Uno lo afferra per la giacca, l’altro gli mostra la pistola attaccata alla cintola. Valerio ha paura, il terrore prende il sopravvento, vuole gridare ma attorno a sé vede solo gente spaventata allontanarsi con facce incerte e impaurite… si sente solo, nelle mani dei balordi.
«Chi fa scumpari? Ti pari ca semu scemuniti? Unni sunu i soddi ca dari? Chi fai mi stacchi u telefunu?»
Valerio è terrorizzato e umiliato. Il suo sguardo è basso, non osa rispondere. Subisce passivamente l’azione criminale, senza profferir parola.
«Pi’ addumannari, u telefunu era sempri addumatu… i ora ta fa a larga?
«Manni a to cugnatu?
«Si nu pezzu di medda… fussi cosa di sparariti ‘nta testa… non vali nenti… suttaterra ti fazzu finiri, bastardu!!!»
Parte il primo schiaffo sulla faccia dell’uomo indifeso. Dopo qualche secondo ne arriva un altro e un altro ancora. La lezione impartita pubblicamente però risveglia qualcosa nell’uomo. Prende silenziosamente gli schiaffi ma dentro di sé comincia a maturare una chiara convinzione. Valerio ne è consapevole e decide di rimandare la sua personale vendetta.
«Avrete tutti i vostri soldi, con gli interessi» risponde freddamente, con una inaspettata sicurezza, quasi sfrontata.
«Bravo, bastardu» e continua a schiaffeggiare, ora quasi amichevolmente, la guancia della vittima.
«Mi serve qualche giorno per organizzare il tutto.»
Il mafioso lascia la presa, aggiusta teatralmente la giacca di Valerio e, insieme al compare, ritorna alla macchina lasciata con gli sportelli aperti in mezzo alla strada. Ripartono sgommando senza nemmeno degnare di uno sguardo il pover’uomo, che resta da solo davanti al bar. Si gira intorno e vede solo desolazione, abbandono, silenzio. Nessuno ha voluto vedere e sentire niente. Ha capito che la sua battaglia sarà solitaria.
2
Valerio si trova davanti al sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia di Catania. L’uomo è rimasto colpito dal primo impatto con il magistrato, una persona distinta, con un viso squadrato, asciutto e serioso. La sua folta chioma bianca fa uno strano effetto sull’elegante vestito chiaro indossato. Lo sguardo curioso e melanconico di Valerio si sofferma su ogni cosa, è sua abitudine osservare ogni dettaglio. L’ufficio occupato dall’uomo di legge è pieno di faldoni, che sembrano essere ovunque: sulle sedie, sulle poltrone, sui tavoli, sui mobili. Alle pareti della stanza sono appesi i vari calendari delle forze dell’ordine, gli innumerevoli crest militari e i diversi titoli e riconoscimenti. Anche la scrivania è occupata da fascicoli di colore diverso. Le finestre della stanza sono aperte, la luce che entra confonde ancor di più il testimone, fortemente provato per la situazione che sta vivendo.
Nell’ufficio del pubblico ministero è presente, seduto ad una piccola scrivania, anche un cancelliere. Un uomo mingherlino, con una faccia scavata e con degli occhi penetranti, impegnati a scrutare ogni movimento del denunciante. Il collaboratore del magistrato, con la tastiera del computer davanti, è in attesa dell’interrogatorio per verbalizzare la deposizione.
«Signor Monti,» esordisce il giudice «ha preso la giusta decisione. Ho studiato le sue denunce, però deve spiegarmi tutto dall’inizio… dobbiamo partire dall’inizio.»
Valerio accetta di buon grado, dallo sguardo dell’uomo che ha di fronte capisce che può fidarsi e comincia il suo tragico racconto.
«Dottore, non ce la faccio più! Il muro che di solito riuscivo a scavalcare è diventato, per me, troppo alto e scivoloso…» mostra le dita delle mani tremanti. «Non riesco più a sopportare lo strozzinaggio nel quale mi trovo immerso da anni! Un inferno che sta risucchiando la mia esistenza. Ho sempre pagato, per anni e anni… Ma ora basta!! Sono stato minacciato di morte, aggredito, vessato…»
L’uomo non riesce a camuffare la sua voce rotta dall’emozione. Un evidente tremolio si impadronisce della sua mascella.
«Signor Monti, stia calmo. Ora non può succederle più nulla.
«Mi dica, a quanto ammonta il debito complessivo che ha con questi soggetti?»
Valerio, con difficoltà, riprende il suo ragionamento.
«Inizialmente mi hanno prestato trentamila euro che ho restituito totalmente, con un interesse usuraio esorbitante… poi, a causa di un investimento sbagliato, mi sono ritrovato nuovamente a dovermi rivolgere a loro… un prestito complessivo di centocinquantamila euro si è trasformato in oltre seicentomila euro.»
Il magistrato continua a sfogliare il fascicolo.
«Perché ha atteso così tanto tempo?...
«Se avesse denunciato prima non si sarebbe trovato in questa situazione!»
Il testimone osserva le sue mani e si accorge che sono tutte sudate.
«Dottor Messina, la mia famiglia è grande… ho tre figli da due donne diverse. Mia mamma è vedova e anziana, ho avuto sempre la convinzione che ce l’avrei fatta da solo… ho avuto paura…
«Nel corso degli anni più volte, mi creda, ho cercato il coraggio di ribellarmi, di denunciare… Sono scappato vigliaccamente dalle mie responsabilità… Sì! Ha perfettamente ragione, l’avrei dovuto fare prima… ero impaurito, terrorizzato… come lo sono ora…»
«Vedo che proviene da una famiglia importante di Catania… suo padre è stato un imprenditore di successo…»
Valerio mostra tutto il suo orgoglio.
«Una persona perbene, dottor Messina. Ha dato lavoro a molte famiglie. Un uomo intelligente, sensibile… poi un maledetto ictus lo ha trascinato via, senza pietà, dalla sua azienda e, pochi anni dopo, anche dalla sua famiglia. Dopo questa tragedia mi sono ritrovato, forse ancora troppo presto, a dover mettere da parte le mie passioni per gestire un’azienda importante, con grandi responsabilità…
«Un calzaturificio.»
«Come sono iniziati i suoi guai?»
«Durante una festa patronale mi fu presentato un certo Bellezza… Carmelo Bellezza. La rovina della mia vita… Non ha mai fatto delle allusioni… non si è mai permesso di fare dei riferimenti. In qualche circostanza, però, mi disse che suo padre conosceva l’azienda di famiglia.»
«E le avvisaglie in ditta,» il pm continua a leggere dal fascicolo «a cosa sono riferite?»
«Il padre di Carmelo, Turi Bellezza… di solito veniva in azienda a prendere delle calzature: le prime volte ha pagato in contanti, poi, le volte successive, con assegni o, addirittura, pretendendo la merce senza pagarla…»
«Un mafioso che paga non sta bene!» sorride sarcastico il magistrato Messina.
«Non ho avuto lo stesso amore di mio padre per la sua azienda… quando iniziai ad accusare la crisi, legata anche ai tanti clienti che non pagavano, agli assegni insoluti e a qualche operaio che mi derubava, decisi di vendere…
«Sembrava una buona cessione, ma si rivelò un disastro…»
Valerio si blocca. Non respira, un altro attacco di panico prende il sopravvento. Nella sua mente continuano a riaffiorare costantemente vecchie situazioni, vecchie ferite mai rimarginate.
Vuole scacciare il ricordo, tenace come