Racconti oscuri
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Anteprima del libro
Racconti oscuri - Ernesto Ammerata
Le sedici bare di San Lucido
Aprigliano
Aprigliano, uno dei paesi più pittoreschi della provincia di Cosenza, fu patria di poeti dialettali non disprezzabili, fra i quali primeggiano Domenico Piro e Carlo Cosentini.
Aprigliano, e in particolare la frazione di Grupa, fu sempre di spirito ardente e rivoluzionario non in senso politico, ma soltanto in senso amministrativo, poiché tutti i movimenti popolari erano rivolti sempre contro il sindaco.
L’esempio dei grandi influì sul carattere di quelli che erano bambini.
E così avvenne che, in un pomeriggio, sul sagrato della chiesa di Grupa, io, Enrico, Arturo ed altri ragazzi giocavamo alla rivoluzione.
Confinati in un angolo, tre dei più semplici ragazzi, di cui uno doveva fare il sindaco e due gli assessori, Enrico incominciò ad arringarci con una voce forte che voleva essere stentorea, affinché assaltassimo il municipio per schiacciarne il sindaco e gli assessori.
In quel mentre, il vecchio sagrestano con le palpebre arrossate dalla congiuntivite, avanzò appoggiandosi al suo bastone. Sedette poco distante da Enrico, appoggiò il suo testone da bue sul bastone e ascoltò l’arringa.
Appena Enrico terminò, il sagrestano si alzò, puntò l’indice della mano destra su di lui e con voce rauca per la bronchite cronica, profetizzò: «Tu sarai un grande avvocato, ma verrà un giorno in cui la tua testa sarà tinta d’un triangolo di sangue e allora mangerai sulla tavola di ferro».
Nel dir ciò non solo le palpebre, ma anche gli occhi erano pieni di sangue. Egli era ritenuto uomo strano e misterioso, perché ai tempi in cui l’analfabetismo era comune, egli leggeva libri di scienze occulte e svariati lunari, fra i quali il Rutilio Benincasa, che, nella zona di Aprigliano, veniva considerato scrittore diabolico, e di conseguenza, diabolici erano i suoi lettori.
La profezia del vecchio sagrestano, dopo poche ore, giunse alle orecchie di tutto il paese suscitando in molti un senso di arcano spavento.
Io, Enrico e Arturo frequentammo gli studi insieme sino al secondo liceo, poi le strade divennero divergenti: Enrico ed Arturo proseguirono, io mi fermai.
A ventidue anni, col massimo dei voti, sia Enrico che Arturo ottennero la laurea in legge. La festa fu fatta in comune alla casa di Enrico. Era bello quel giorno vedere i loro genitori piangenti di gioia! Anch’io ero commosso e partecipavo con animo sincero alla comune felicità.
Dopo due mesi un grave dolore ci colpì. Arturo iniziò a dare segni di squilibrio mentale.
Enrico trascorse ad Aprigliano un periodo di riposo di alcuni mesi, poi cercò di essere assunto per la relativa pratica presso qualcheduno degli avvocati di valore che onorano il foro cosentino.
La sua speranza fu vana e l’attesa inutile, perché i grandi legali cercavano di avviare i propri figli e i propri nipoti.
Gli inizi della professione
Enrico si rese conto che bisognava affrontare l’aspro inizio della sua non facile professione non fidando su alcuno, ma soltanto sulle sue forza e sull’ aiuto di Dio.
Il signor Pietro, padre di Enrico, comprò un appartamento bellissimo a Cosenza; l’arredò sontuosamente e ne fece più che uno studio di avvocato, quasi un ministero.
Enrico fu alloggiato presso una signora ligure di nome Nella ch’era vedova di un impiegato statale. Essa aveva due figliole: Enza e Lisetta.
Enza ventenne, diplomata in ragioneria, era bruna, di normale statura e perfetta nelle linee del corpo. Il suo viso era di una bellezza più unica che rara. Ciò che la rendeva più graziosa e amabile erano i suoi occhi, piuttosto grandi, neri e con un’espressione indescrivibile.
Una piccola cicatrice, dovuta ad irrequietezza fanciullesca, le sovrastava il sopracciglio dell’occhio destro; ma, cosa sorprendente, invece di farle diminuire le doti della sua bellezza, la rendeva più simpatica e gradevole agli occhi di un uomo.
Il suo portamento era talmente nobile e dignitoso da farla sembrare quasi superba. La sua intelligenza non era comune. Lavorava presso una banca cittadina.
Lisetta, sedicenne, studiava per conseguire il diploma di maestra. La sua bellezza differiva di poco da quella della sorella; soltanto il suo carattere era più gioviale e più semplice.
Dopo un mese, Enrico veniva trattato dalla signora Nella come un figlio e da Lisetta come un fratello, mentre Enza lo trattava giorno per giorno con maggiore ostilità. Essa rispondeva con dieci scortesie ad ogni atto gentile e cortese di lui.
La signora Nella e Lisetta richiamarono spesso Enza affinché si comportasse distintamente ed educatamente verso Enrico, ma a nulla valsero i loro richiami.
Enrico osservava e taceva, fingendo di non accorgersi di nulla.
Filomena era la persona di servizio della signora Nella: vecchia zitellona, buona e semplice e fedele terziaria francescana.
Nello studio di Enrico vi erano una bionda stenodattilografa e il cinquantenne Pasquale; quest’ultimo si occupava della pulizia dei locali e doveva intrattenere i clienti in anticamera, per poi introdurli a tempo opportuno. Ma i clienti non arrivavano mai.
Intorno ad Enrico vi era il vuoto, perché tutti lo temevano come un futuro rivale. Il signor Pietro pagava e taceva, sicuro che un giorno il valore del figlio sarebbe stato riconosciuto. Unico e sincero amico era Arturo, che si era ormai domiciliato a Cosenza presso una vecchia zia.
Enrico l’adoperava, con somma delicatezza, per commissioni quasi puerili, in modo da poterlo ricompensare economicamente, riconoscendo come negli ultimi tempi la sua posizione economica fosse molto traballante.
Di tanto in tanto, rivolgendosi ad Enrico, diceva: «Lupacchiotto silano, quando addenterai con i tuoi aguzzi denti i rivali?»
«Stai tranquillo, Arturo, l’uomo propone e Dio dispone…».
Una circostanza imprevista fece sì che Enrico difendesse la prima causa.
L’arringa fu preparata con minuziosità e competenza. Enrico sapeva che se non avesse superato quella prova avrebbe dovuto chiudere lo studio, perché ormai i rivali l’avevano chiuso in un cerchio di ferro.
Il giorno della causa fu accompagnato in tribunale dal