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L'isola degli amori perduti
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L'isola degli amori perduti
E-book334 pagine5 ore

L'isola degli amori perduti

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Info su questo ebook

Dall'autrice del bestseller Il sentiero degli alberi di limone

Sull’isola di Cipro, nella piccola località balneare di Larnaca, tre amici di infanzia si riuniscono per il funerale di Katerina, la domestica di umili origini che ha avuto un ruolo fondamentale nelle loro vite. Eleni, Marianna e Adonis sono cresciuti insieme, come fratelli. E l’amore, la saggezza e i consigli di Katerina hanno contribuito a formare il carattere di ciascuno di loro. La sua scomparsa è un duro colpo da affrontare, ma il funerale della donna non sarà semplicemente un’occasione per ricordarla con nostalgia. La madre di Adonis, infatti, capisce che è arrivato il momento di confessare qualcosa che riguarda il passato della famiglia. Esiste una storia che non tutti conoscono, fatta di inganni, amori proibiti e amicizie indissolubili che potrebbe sconvolgere i tre amici, cambiando per sempre il corso delle loro vite. L’affetto che lega Eleni, Marianna e Adonis sarà in grado di reggere il peso dei tanti segreti che ignoravano?

Ci sono segreti che possono cambiare più di una vita

«Ci si immedesima al punto da sentire il sole sulla pelle e il canto delle cicale. Traboccante di emozioni, dolcezza e intrighi.»
Sunday Post

«Parole delicate e descrizioni suggestive.» 

«La prosa di Nadia Marks è così dettagliata che riesce a farci assaporare i colori, i profumi e le meraviglie dei luoghi che descrive.»

Nadia MarksÈ nata a Kitromilides, che in greco significa limoni amari, ma è cresciuta a Londra. È stata direttore creativo e editor per numerose riviste femminili inglesi, ma adesso la scrittura occupa la maggior parte del suo tempo. Vive con il marito Mike e i due figli a Londra. Con la Newton Compton ha pubblicato Il sentiero degli alberi di limone.
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2019
ISBN9788822730046
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    Anteprima del libro

    L'isola degli amori perduti - Nadia Marks

    Capitolo 1

    Larnaca, 2010

    Eleni osservò l’interno della bara aperta. Placida fu la prima parola che le venne in mente. Poi nient’altro, soltanto una travolgente tristezza. Posò un mazzolino di viole sul petto della donna, all’altezza del cuore, e si asciugò gli occhi umidi col dorso della mano. Quando era bambina l’idea che un giorno quella donna se ne sarebbe andata le era parsa semplicemente inconcepibile.

    «Non morire, ti prego, Tante mou», l’aveva supplicata in lacrime aggrappata alle sue gambe.

    «Non morirò. Te lo prometto. Non oggi, comunque», aveva riso la donna, e le aveva dato un bacio sulla testa. La morte aveva già ricoperto un ruolo da protagonista nella vita della giovanissima Eleni. Sua madre e suo padre erano venuti a mancare contemporaneamente prima che lei fosse cresciuta abbastanza da ricordarseli, e non riusciva a sopportare il pensiero di un’altra perdita. La risata della Tante, un profondo suono gutturale, aveva la capacità di scacciare tutte le sue preoccupazioni, che erano parecchie per una bambina così piccola.

    Quella mattina Eleni si era svegliata con l’acciottolio delle stoviglie. Un raggio di sole si era insinuato in una fessura delle persiane colpendo le sue gambe distese sul lenzuolo spiegazzato. La camera era già rovente. In quella casa non c’era l’aria condizionata; le due anziane signore che ci avevano vissuto non ne avevano mai sentito il bisogno, le avevano sempre detto. Era una villa, con degli spessi muri in pietra e soffitti altissimi progettati appositamente per contrastare l’afa, avevano ripetuto con ostinazione nel corso degli anni, ma Eleni non era mai stata molto d’accordo. Aprì le palpebre lentamente; le pulsava la testa. Com’è possibile avere l’emicrania mentre si dorme?, si chiese premendosi il palmo della mano sulla fronte nella speranza di ricavarne un po’ di sollievo. Chissà se è venuto il mal di testa anche a Adonis… e a Marianna…. La domanda svanì nel nulla e le si richiusero gli occhi. Rimase immobile qualche minuto, esortando l’emicrania a scomparire e cercando di non pensare agli avvenimenti della sera precedente. Alla fine riaprì le palpebre e si mise a fissare il soffitto lasciando la mente libera di vagare. C’erano tante di quelle cose da elaborare, da digerire. Si sentiva sopraffatta. Si tirò su a sedere lentamente e tastò il pavimento con i piedi. Prima devo affrontare il funerale, poi potrò ragionare sul resto.

    Rifiutò il passaggio che le aveva offerto suo cugino Adonis e percorse a piedi le anguste viuzze della città vecchia affrontando impavidamente il solleone di luglio. Non fu una mossa molto azzeccata, visto che era ormai metà mattina e faceva già un caldo insopportabile. Aveva la testa pesante a causa delle rivelazioni e dei tanti bicchieri di troppo della sera prima, ma sentiva il bisogno di stare da sola.

    La Larnaca del 2010 era assai diversa dalla Larnaca della sua gioventù, pensò, migliore, per certi versi. Finalmente si erano decisi a ristrutturare alcuni vecchi edifici che per tanti anni erano stati lasciati andare in rovina. Prima che lei se ne andasse, poi, l’isola aveva attraversato un periodo in cui qualsiasi palazzo con un pizzico di carattere o di valore storico era stato considerato rimpiazzabile con un’immensa mostruosità di cemento. Fu lieta di constatare che il campanile di San Lazzaro svettasse ancora fra i palazzi che circondavano la piazza.

    Fu la prima ad arrivare in chiesa; aveva bisogno di qualche minuto di solitudine. Il sobrio feretro si trovava accanto all’altare, la sua semplicità in netto contrasto con lo sfarzoso interno della cattedrale bizantina. San Lazzaro, così chiamata in onore del santo patrono di Larnaca, aveva le dimensioni di una chiesa qualsiasi, eppure una volta dentro, l’imponenza dell’iconostasi, dei lampadari e degli affreschi non lasciava adito a dubbi sulla sua importanza. A quanto pareva, dopo la resurrezione di Cristo, l’amico di Gesù era fuggito a Cipro, e san Paolo lo aveva ordinato primo vescovo dell’isola, dove aveva poi vissuto fino alla fine dei suoi giorni. Oggi, nelle profondità delle catacombe della chiesa, si trova un sarcofago che reca l’iscrizione L’amico di Gesù, all’interno del quale dovrebbero essere custodite le sacre reliquie del santo. Ogni anno in occasione del giorno del suo onomastico le reliquie vengono portate in chiesa all’interno di una pesante bara d’argento in modo che i fedeli possano porgervi i loro omaggi.

    Quella cattedrale era stata il luogo di culto prediletto della Tante, e spesso vi aveva condotto la giovane Eleni per la messa domenicale. Eleni se ne stava seduta composta accanto alla donna, attenta a non perderla di vista in mezzo alla gente. Qualche anno più tardi, quando Eleni era cresciuta ed era entrata nel suo periodo di ribellione, aveva rifiutato l’oppressione della religione criticandola ferocemente. «Nessuno può dirmi in cosa credere», dichiarava scura in volto; ciononostante, quando avvertiva la necessità di un po’ di solitudine, anche lei la ricercava all’interno delle mura di San Lazzaro piuttosto che fra quelle della chiesa cattolica dove andavano a pregare sua nonna e sua zia.

    Non udì gli altri due scivolare dentro la chiesa, ma ne percepì la presenza. Era sempre stato così fra loro tre. Intuivano d’istinto quando uno degli altri due si trovava nei paraggi. Adesso avevano bisogno di stare seduti insieme per qualche minuto prima che la gente cominciasse ad arrivare e il servizio avesse inizio.

    La notizia della morte di Katerina era stata un triste choc per Eleni, Adonis e Marianna. La Tante, come la chiamavano loro – che in tedesco significa zia – non era in realtà né una zia né una consanguinea di nessuno dei tre, eppure le avevano voluto bene come a una parente stretta. La rispettavano profondamente e le erano molto grati; se erano diventati le persone che erano oggi era stato anche grazie a lei e ai suoi insegnamenti. Dal canto suo, Katerina aveva adorato tutti e tre; erano stati i figli che non aveva mai avuto.

    Erano tornati a Larnaca in fretta e furia per il funerale: Eleni da Londra, Adonis da New York e Marianna da Nicosia. A differenza degli altri due, Marianna non aveva dovuto affrontare un viaggio particolarmente lungo, giusto tre quarti d’ora d’auto, un tragitto che negli ultimi tempi aveva affrontato almeno un paio di volte al mese per andare a trovare l’anziana donna.

    Per Eleni, Katerina era stata una specie di madre. Aveva poco più di un anno quando i suoi genitori, Sonia e Nicos, erano morti in un incidente stradale ed era stata Katerina a prendersi cura di lei come di una figlia. Non era stato difficile: Eleni era una bambina adorabile traumatizzata dalla perdita di entrambi i genitori. Tra l’altro, diversi anni prima, quando in Europa infuriava la seconda guerra mondiale, Katerina aveva contribuito ad allevare anche la mamma e la zia della bimba. Le due sorelline, di sei e otto anni, erano poco più piccole di lei quando Katerina, allora tredicenne, si era trasferita a casa loro come domestica, ma il suo innato istinto materno era venuto subito a galla.

    Siccome la Chiesa greco-ortodossa seppellisce subito i suoi defunti, Eleni non aveva perso tempo e si era messa in viaggio da Londra seduta stante. La preoccupazione più grande, che si era poi rivelata piuttosto semplice da risolvere, era stata quella di trovare qualcuno disposto a sostituirla nelle lezioni che doveva tenere all’università dove insegnava. A casa non c’erano stati problemi: suo marito Simon era più che in grado di occuparsi di sé e del cane. I ragazzi, Christopher e Anthony, studiavano lontano da casa, finalmente fuori dai piedi, come si dice, anche se in realtà a Eleni piaceva averli fra i piedi, i suoi ometti.

    A ogni modo, fu molto più semplice pensare a una persona sola invece che a tre. Per la verità, a Simon non dovette pensare un granché: era un uomo eccezionalmente indipendente e un cuoco persino migliore di lei, quindi non avrebbe avuto problemi durante la sua assenza. Anche Simon e i ragazzi adoravano Katerina e avrebbero voluto presenziare al funerale, ma non era stato possibile organizzare il viaggio per tutti quanti all’ultimo momento.

    Eleni sapeva che la Tante era malata già da qualche tempo, ma l’ultima volta che era corsa da lei per una visita lampo, appena qualche mese prima, l’aveva trovata bene.

    «Non preoccuparti, tesoro mio, mi riprenderò», le aveva detto. «Mi conosci… Sono una vecchia capocciona, non è così facile rompere questa testa dura», aveva scherzato, e la sua risata aveva riempito la stanza come al solito, perciò Eleni si era convinta che si sarebbe sistemato tutto.

    Adesso rimpiangeva amaramente di non essersi trattenuta più a lungo. Tuttavia Katerina non era mai stata incline ai drammi, ed Eleni era tornata a casa tranquilla.

    Stavolta Simon le consigliò di prendersi tutto il tempo che le occorreva.

    «Fermati quanto ti pare», le aveva detto quando avevano saputo cos’era successo. «Non tornare subito a casa, probabilmente tua zia avrà bisogno di te. E tu hai bisogno di passare un po’ di tempo laggiù… E poi dovresti approfittarne per stare qualche giorno insieme a Adonis, che verrà appositamente da New York».

    «Sì, hai ragione», concordò Eleni, consapevole che quel viaggio avrebbe toccato delle corde molto sensibili del suo essere. «Non vedo Adonis da due anni… Non mi ricordo nemmeno più quand’è stata l’ultima volta che io, lui e Marianna abbiamo trascorso qualche giorno insieme. Certo, ci sentiamo via Skype, ma incontrarsi di persona è tutta un’altra cosa».

    «L’ultima volta che hai visto Adonis è stata quando è venuto a trovarci a Londra, no?», disse Simon porgendole una tazza di caffè.

    «Non so proprio perché aspettiamo sempre così tanto. La vita scivola via e noi non ce ne rendiamo nemmeno conto». Afferrò la tazza. «Dovremmo sforzarci di più tutti quanti. Quand’è stata l’ultima volta che hai visto il tuo amico Mark di Sydney? Davvero, Simon, la vita è troppo breve…».

    Avevano posticipato il funerale di un giorno per concedere il tempo a Adonis di arrivare da New York. Eleni andò a prenderlo all’aeroporto con l’auto sportiva della nonna. Parcheggiò, si infilò nel terminal e attese, riflettendo su quanto lei e suo cugino fossero affezionati a quella macchina la cui tappezzeria era intrisa di ricordi della loro infanzia. Negli ultimi tempi Adonis le era mancato moltissimo. Avevano all’incirca la stessa età e più che cugini si consideravano come fratello e sorella. Erano cresciuti insieme nella casa della nonna sotto la supervisione di Katerina ed erano molto uniti.

    L’aereo impiegò quella che a Eleni parve un’eternità per atterrare e lasciar sbarcare tutti i passeggeri, e quando finalmente Adonis spuntò in mezzo alla folla aveva gli occhi gonfi e l’aria stremata. Si gettarono uno nelle braccia dell’altra e scoppiarono a piangere.

    «Non farci caso», disse lui scacciando le lacrime con una risatina imbarazzata. «Sono solo stanco ed emotivamente provato, qui gli uomini adulti non piangono in pubblico, non sta bene». Girò lo sguardo intorno con circospezione.

    «Non dire sciocchezze… Chi se ne frega della gente?», lo rimbrottò Eleni stringendolo forte. «Scommetto quello che vuoi che anche questi machi ciprioti piangerebbero come delle ragazzine se succedesse qualcosa alla loro mamma o alla loro zia preferita!». Detto ciò afferrò il borsone che Adonis aveva posato a terra e si avviò all’uscita.

    «Andiamo da tua mamma, è a casa che ti aspetta. E anche Marianna non vede l’ora di vederti».

    «Come sta mia madre?», le domandò Adonis mentre attraversavano la città alla volta della loro vecchia casa.

    «A pezzi, direi», rispose Eleni. «Credo che non sappia come andare avanti senza Katerina».

    «Eravamo tutti convinti che la Tante sarebbe vissuta in eterno… Come faremo senza di lei?»

    «Non lo so…», replicò Eleni. «Mi bastava pensarla qui per sentirmi protetta…».

    «Era così per tutti», disse lui con un sospiro.

    «A Robert ha creato dei problemi la tua partenza improvvisa?», chiese Eleni. Robert, il compagno afroamericano con cui Adonis aveva celebrato un’unione civile tre anni prima, era uno psichiatra, e stando a quanto Adonis aveva riferito a sua cugina quando le aveva annunciato il fidanzamento, «è il partner migliore che si possa desiderare, solidale e presente… ed è anche spiritoso».

    «Certo che no, ovviamente!», le rispose lui. «È stato comprensivo come al solito, e sai quanto adorasse la Tante… Sarebbe venuto anche lui se avesse potuto. Ma è successo tutto talmente in fretta».

    «Lo so… Anche Simon e i ragazzi avrebbero voluto esserci. Comunque sia, se per te va bene, scarichiamo i tuoi bagagli, salutiamo un attimo tua madre e poi andiamo a prendere un caffè con Marianna. Le ho chiesto di incontrarci prima di andare alla casa. Ha una gran voglia di vederti».

    «Sono nelle tue mani, facciamo tutto quello che vuoi», rispose Adonis chiudendo gli occhi e riaffondando nel sedile.

    «Immagino tu sia stanco e abbia voglia di sdraiarti un po’, ma ho passato le ultime ventiquattro ore chiusa in casa a consolare tua madre, mi serve una boccata d’ossigeno».

    «Va bene, Eleni mou», rise Adonis. «Ho bisogno di caffeina… Dormirò più tardi, e poi anch’io ho una gran voglia di vedere Marianna; non so nemmeno più quand’è stata l’ultima volta che abbiamo passato del tempo insieme».

    Incontrarono la vecchia amica in un bar sulla passeggiata Finikoudes, letteralmente piccole palme, così chiamata in onore della lunghissima fila di palme piantata sul lungomare alcune centinaia di anni prima. Oggi era un luogo di ritrovo molto gettonato e le zazzere delle piccole palme si ergevano alte quanto i palazzi che costeggiavano la strada.

    Stavano per sedersi quando Marianna corse loro incontro sbracciandosi a più non posso. Era passato un sacco di tempo dall’ultima volta che si erano dati appuntamento lì.

    La Finikoudes di quand’erano ragazzini era piuttosto diversa da quella di oggi. All’epoca era un luogo tranquillo, una passeggiata fronte mare per famiglie ancora fiancheggiata dai vecchi edifici e punteggiata da due o tre ristorantini per coppie con figli. Nel corso degli anni Novanta, però, con l’arrivo della globalizzazione la zona si era rapidamente modernizzata riempiendosi di bar, ristoranti e localini che l’avevano resa del tutto simile a qualsiasi altra località di villeggiatura italiana, spagnola o francese.

    «Se non altro adesso si trova un caffè decente anche qui», disse Adonis piazzandosi accanto a un enorme ventilatore dopo aver finalmente sciolto Marianna dall’abbraccio spaccaossa.

    «Infatti!», esclamò Eleni. «Per chi di noi non ami il Nescafé o non sia sempre in vena di un caffè turco».

    «Intendi un caffè greco!», la corresse Marianna.

    «No, ti prego, non metterti a fare la politically correct adesso!», protestò Adonis. «Il caffè è turco tanto quanto greco o arabo! È assurdo incaponirsi a chiamarlo caffè greco».

    Eleni constatò divertita che i suoi due amici avevano già ricominciato a punzecchiarsi come facevano da piccoli.

    «Vivi in America da troppo tempo, ecco qual è il tuo problema», ribatté Marianna.

    «E basta, voi due! Smettetela di bisticciare per niente», intervenne Eleni. «Lo sapete che cosa vi direbbe Katerina… Stamatate! Basta! E poi abbiamo cose ben più importanti di cui discutere». Allungò la mano verso il suo caffè americano senza latte. «Stasera la zia Anita ci vuole a cena tutti e tre. A quanto pare deve parlarci di qualcosa, prima del funerale!».

    «A cena? Mia madre? Per parlare?». Adonis lanciò alle altre due delle occhiate sbalordite. «Non è mai stata una gran parlatrice… e tanto meno una gran cuoca!». Scoppiò a ridere. «Forse la Tante ha lasciato dei pasti precotti nel freezer!».

    «Non credere che non ci abbia pensato anch’io», commentò Eleni. «È un bel mistero».

    Katerina aveva davvero riempito il freezer con le sue ottime pietanze fatte in casa. Inoltre, prima di spegnersi, aveva assicurato ad Anita che l’avrebbe lasciata con le provviste per sopravvivere più di un mese oltreché con il libro di cucina ereditato da Olga.

    «Non dovrai preoccuparti del cibo per un pezzo», aveva detto un giorno mentre impastava uno dei suoi manicaretti, «e poi», Katerina aveva guardato Anita sogghignando, «ti consiglio di metterti a studiare la bibbia di tua madre… intendo la sua bibbia gastronomica».

    «Non dire sciocchezze, tu sei sana come un pesce», aveva ribattuto Anita colta dal panico, incapace di accettare l’inevitabilità del destino di Katerina. «Sei molto più in forma di me».

    Ovviamente Anita sapeva benissimo che il cancro si era diffuso e la sua amica aveva i giorni contati. Aveva cominciato ad accompagnarla alle visite e l’ultima volta il medico di famiglia era stato piuttosto esplicito sulle condizioni di Katerina. Anita tuttavia si rifiutava di abbandonare la speranza, convinta che la sua vecchia amica potesse ancora farcela. «I miracoli esistono, Katerina», ripeteva con insistenza. «Io credo nel potere dell’Onnipotente e tu sei una delle persone più forti che conosca».

    Cionondimeno, dopo l’ultima visita del dottor Demakis, Anita aveva cominciato a recarsi alla chiesa cattolica tutte le mattine per accendere un lumino per la Vergine Maria e pregare per la guarigione dell’amica.

    «Sei libera di credere in quello che vuoi, Anita mou, ma ti consiglio di leggerti qualche ricetta, per sicurezza», l’aveva schernita Katerina.

    Quel giorno, con una fitta al cuore, per la prima volta Anita aveva preso in mano il libro di cucina di sua mamma. Sapeva tutto della bibbia di Olga, ma per quanto quelle ricette le piacessero, non le aveva mai lette in prima persona. Si portò il volume sul divano accanto alla finestra e si mise a sfogliarlo. Aveva un sacco da imparare e sapeva che appena Katerina fosse venuta a mancare sarebbe stata obbligata a cucinare e arrangiarsi in tutto e per tutto. Comunque, se se la fosse vista brutta, pensò fra sé e sé, nella sua zona c’era una sfilza di fornai che effettuavano anche consegne a domicilio. Si sarebbe dovuta rassegnare e adattarsi al cambiamento.

    Adesso, senza Katerina, Anita si sentiva persa. Era l’ultima superstite del vecchio clan, e il pensiero di vivere in quella grande casa tutta sola la terrorizzava. Non aveva mai vissuto per conto proprio e non sapeva se ne sarebbe stata capace. Negli ultimi dieci anni, dopo la morte di sua madre Olga, era stata Katerina a occuparsi di lei, come d’altra parte aveva fatto per tutta la vita.

    Anita aveva cercato di rendersi presentabile in vista dell’arrivo di suo figlio. L’ultima volta che era venuto a trovarla lei non si sentiva bene e non si era praticamente mai tirata su dal letto. Aveva percepito la sua delusione, ma d’altronde Anita aveva sempre la sensazione di deluderlo. Non era mai stata un granché come madre; costantemente sciancata da questo o quel malanno o semplicemente dai propri nervi. A essere onesti, a Adonis aveva fatto più da madre Katerina di lei, e Anita era piena di sensi di colpa.

    Per la cena della sera prima del funerale, Anita scongelò un’enorme teglia di pastitsio – una sorta di lasagna formata da strati di pasta al forno e ragù di carne speziato –, uno dei piatti preferiti dei bambini. Non riusciva a smettere di chiamare così suo figlio, sua nipote e la loro amica Marianna. «So che siete adulti ormai, ma per me rimarrete sempre dei bambini», si difendeva quando uno o l’altra si lamentavano di quella infantilizzazione.

    Mentre aspettava che i bambini arrivassero, ne approfittò per apparecchiare la tavola con la tovaglia e il servizio di piatti migliori che possedesse. In questo era brava. Forse non era particolarmente dotata in cucina, ma quando si trattava di far risplendere un tavolo imbandito era un vero asso. Era una vita che non si impegnava così tanto per una cena, pensò fra sé e sé, forse da quel Natale in cui erano ancora una vera famiglia e sua sorella era ancora viva. Negli ultimi anni, lei e Katerina avevano cominciato a mangiare in cucina, un ambiente decisamente più caldo, raccolto e facile da rassettare. Le mancavano i vecchi tempi, il servizio di porcellana disposto ordinatamente, l’argenteria e i cristalli, il vino che sgorgava nei calici e le stimolanti conversazioni di sua madre. Ma quel tempo era lontano, ormai. Erano rimaste solo lei e Katerina, e cosa potevano mai dirsi due vecchiette come loro? E adesso se n’era andata anche Katerina. Quanto mancava, seguitò a pensare, prima che arrivasse anche la sua ora?

    Come doveva cominciare, come sarebbe riuscita a parlare davanti a tutti da sola, senza l’aiuto della sua compagna?

    Per mesi Anita aveva tentato di convincere l’amica morente a convocare i tre bambini per affrontare l’argomento insieme.

    «Ti prego, Katerina», l’aveva implorata, nella speranza di convincerla.

    «Sarebbe molto più semplice se lo facessimo insieme», insisteva. «È ora». Katerina, però, era stata irremovibile.

    «Ho giurato di non dire niente», le rispondeva, «e poi, che senso avrebbe? È successo così tanto tempo fa. Lascia perdere, Anita. Non rivangare il passato».

    Tuttavia Anita era inquieta. Aveva un peso dentro e sentiva il bisogno di raccontare tutto.

    Chiese a Adonis di aprire la bottiglia di whisky single malt acquistata appositamente per l’occasione e, dopo aver allungato a ciascuno dei ragazzi uno dei bicchieri di cristallo che aveva ereditato da suo nonno, incominciò.

    «Bambini miei, brindiamo alla nostra amata Katerina. Ci mancherà moltissimo, ma continuerà a vivere con noi attraverso i tanti ricordi che abbiamo di lei». Confusi e incuriositi, Eleni, Adonis e Marianna tennero i calici alzati sotto il brillante lampadario di cristallo del saloni, l’ampio salone destinato alle feste e all’intrattenimento degli ospiti.

    Gli alti soffitti e le ariose stanze piene di luce di questa casa racchiudevano un’infinità di ricordi infantili. Ciascuno di loro conosceva a menadito ognuna delle stampe floreali, dei quadri e dei ritratti dei nonni che sorridevano dalle pareti. I lussuosi divani di velluto rosso, le pesanti tende della Tessili Linser che schermavano le ampie finestre, le credenze di mogano scuro e le vetrinette con l’argenteria e i calici di cristallo erano quanto di più familiare esistesse al mondo, eppure quella sera avevano un che di estraneo. I ragazzi attesero con il fiato sospeso che Anita incominciasse a parlare.

    «Ho un bel po’ di cose da dirvi», proseguì la donna, «ma prima mangiamo… Katerina ci ha preparato un vero e proprio banchetto».

    Anita prese posto a capotavola e gli altri le si accomodarono intorno. Estrasse la bottiglia dal secchiello del ghiaccio d’argento, versò del vino bianco fresco in tutti i bicchieri e si allungò sulla tavola per servire il cibo.

    Cenarono in un silenzio quasi assoluto, ognuno di loro perso nei propri pensieri ed elucubrazioni. Dopo che ebbero finito di mangiare e sparecchiare, Anita andò a prendere una cesta di frutta e la posò al centro della tavola.

    «Adesso, prima di raccontarvi ciò che ho in mente di dirvi», guardò i tre ragazzi uno a uno, «mi piacerebbe che stasera, prima dell’ultimo saluto di domani, ciascuno di voi onorasse la nostra amata Katerina condividendo con gli altri un ricordo della vostra Tante. Un episodio che portate nel cuore, che dimostri quanto significasse per voi. So bene quanto abbia influito sulle vostre vite e quanto l’abbiate amata. Dopodiché, quando avrete finito i vostri racconti, toccherà a me».

    Eleni, Adonis e Marianna si scambiarono delle occhiate incredule. Conoscevano Anita da tutta la vita, ma questa era la prima volta che la vedevano così padrona di sé ed eloquente. Anita era una donna schiva, che si era sempre nascosta dietro una salute cagionevole e dei nervi deboli. Prima era stata sua madre, la dinamica Olga, a regnare incontrastata sulla casa e poi era subentrata Katerina, che aveva preso le redini delle incombenze domestiche occupandosi di tutto, Anita compresa.

    «Eleni mou», disse Anita con calma, rivolgendosi a sua nipote, «cominciamo da te… Dopotutto, per te Katerina è stata come una madre».

    Capitolo 2

    Eleni

    «Per me non è stata come una madre», affermò Eleni a bassa voce, «è stata l’unica madre che abbia mai avuto. Mi faceva sentire amata e protetta…».

    In uno dei suoi ricordi più vecchi, Eleni era seduta nella calda e accogliente cucina, una pentola che sobbolliva sui fornelli, e osservava Katerina infornare la baklava. Ogni tanto si univa a loro anche Adonis, ma il più delle volte Eleni era da sola con la Tante. Più avanti, quando Eleni fu un pochino cresciuta, Katerina cominciò a esortarla a darle una mano, impaziente di iniziare la bimba alle sublimi tradizioni della cucina cipriota.

    «Prima di tutto bisogna preparare la pasta fillo», le spiegava Katerina, «poi la si stende sulla teglia, uno strato per volta, in questo modo, e solo dopo si passa al ripieno». La giovane Eleni, con un cucchiaio di legno stretto nel pugno, attendeva il passaggio successivo con trepidazione, immobile davanti all’ampia terrina ricolma di un miscuglio dolce, appiccicoso e croccante. Il passaggio successivo era il suo preferito, Eleni lo ricordava bene. Le noci, i pistacchi e le mandorle triturati, lo zucchero e il miele aromatizzato alla cannella e chiodi di garofano: una paradisiaca, deliziosa miscela per una bambina di quell’età. Doveva trattenersi dall’affondare il cucchiaio di legno nella boule e mangiarsi l’impasto così com’era. Eleni era sicura che la sua passione per la cannella fosse nata proprio nel corso di quelle prime esperienze culinarie con la Tante.

    «Dopo la baklava, possiamo fare i koulourakia di mamma Sonia?», domandava Eleni nella speranza di prolungare l’atmosfera beata che si creava in quella cucina profumata di dolci. I famosi koulourakia di Sonia erano dei fantastici biscottini alle mandorle spruzzati di acqua di rose e ricoperti di una spolverata di zucchero a velo simile a un sottile strato di neve; non che la giovane Eleni sapesse un granché della neve, a parte quello che aveva scoperto durante le sporadiche gite invernali in montagna e osservando le cartoline natalizie.

    Katerina le parlava sempre di sua mamma mentre cucinavano, ed Eleni avrebbe tanto voluto ricordarsi

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