Le cento e una ballata
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Ciò è ancor più vero qualora il piacere di far versi sia il frutto di un’esperienza letteraria che, come quella dell’autore, spazia in quasi tutti i campi della prosa e della versificazione occidentale. Gli argomenti trattati sono fra i più vasti e attuali: dalla vanagloria dell’uomo occidentale all’ipocrisia della classe alto-borghese, dall’eterno dissidio tra bene e male, bello e brutto, genio e folle, alle private, personalissime tragedie dell’intimità maschile e femminile.
Tutto può essere reso in versi, quando l’esigenza di trasmettere il proprio punto di vista sul mondo scaturisce da un cuore “poetico” per sua intima e particolarissima natura.
“Le cento e una ballata” è una raccolta di cento ballate che ricalcano quella cavalcantiana (XIII secolo), con quattro stanze di dieci versi ciascuna. Le rime di endecasillabi e settenari hanno schema ABABBccddx, mentre la ripresa di sei versi corrisponde alla sirma di ogni stanza, con schema Abbccx (l'ultimo verso di ogni stanza presenta sempre la stessa rima x).
Opera unica nella sua sfida ai modelli più attuali e conformisti, la collezione utilizza un linguaggio comprensibile anche per lettori di cultura ed esperienza letteraria meno elevate. Abbellimenti e virtuosismi stilistici sono limitati a quelli necessari a un più piacevole scorrimento ritmico.
Laureato in lingue e culture internazionali, Raffaele Isolato applica le sue ricerche in campo etico ed epistemico a novelle e romanzi che spaziano dal fantasy al noir, al filone avventuristico, alcuni dei quali già pubblicati in rete e cartaceo. In attesa di pubblicazione sono altre raccolte di saggi e i più significativi esperimenti poetici. Tra i titoli pubblicati su Amazon: Attacco al potere (La Saga dei Perfetti e degli Imperfetti vol.I), Chi vuole andare in TV?, Viaggio a Nord, Dall’altra parte del nulla, Lineamenti di religione universale, Inferno XXI (poema didascalico-allegorico in trenta canti), Il nulla imperfetto, Nati alla luna nuova, Viaggio a Lost City, L’angelo dalle ali di carta, La pietra e lo scandalo (raccolta di novelle d’argomento erotico), Il Presidente (tragedia in cinque atti in versi sciolti).
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Anteprima del libro
Le cento e una ballata - Raffaele Isolato
parola
Premessa dell'autore
All’inizio dei tempi Dio creò il cielo e la terra. Belli e giusti li creò, e per il solo fatto che Egli lo volle, cieli e terre furono, sono e saranno.
Dal potere evocativo di una parola, essa stessa forma espressa e razionale del pensiero, luce e tenebre si separarono, nacque la materia e con essa i suoi figli: gli uomini e tutti gli altri esseri viventi.
Siamo solo parole, quindi? E che cos’è, dopotutto, una parola?
La raccolta che segue è una celebrazione di quella che sin troppo di sovente è intesa come semplice, ambiguo mezzo di comunicazione: un mezzo, appunto.
E se non lo fosse? Se fosse il motto stesso la comunicazione, e quel che esprime, e quel che intende suscitare in lettori e ascoltatori? Rifacciamoci al mito iniziale: Dio crea perché vuole, perché dice, perché è il Verbo. La parola è l’antica formula dei maghi, gli affascinanti manipolatori del reale, essi stessi dotati di rare (ma non paranormali) capacità affabulatorie: il poeta è proprio questo, un evocatore di nuova realtà, un dio per se stesso e per chi lo ama.
Dov’è oggi la parola? Si nasconde nel testo di una canzone, tra le pieghe dei nostri universi virtuali, si fa copia di copie nei discorsi quotidiani. Nessuno che le dia un peso, un senso, anche se è da lì che nasce tutto. La singola parola, denoti essa un oggetto concreto o immateriale, lo crea per il solo fatto di portarlo all’attenzione razionale del destinatario: che poi questo lo tocchi effettivamente o lo percepisca con sensi e sensazioni, dipende da un tipo d’attenzione accessoria e secondaria che si nutre per di più di moda, convenzioni, particolarità caratteriali e circostanziali.
La parola è una, è pura, è eterna. Essa nacque in poesia, e fu poesia di Dio.
Credeva forse il lettore che la versificazione fosse un abbellimento della parola servile, del discorso inosservato e banale che muove il mondo civile? Proprio il contrario: è la parola che insegniamo ai nostri figli (e che questi utilizzano spesso e volentieri a sproposito) ad essere discesa dai canti immortali dei primi poeti dell’umanità. I vagiti del neonato che sperimenta e assapora i primi suoni della sua razionalità espressa, sono versi: se questi col passar degli anni mutano di forma e si fanno ripetuti, leggeri, prosaici, ciò accade perché è la vita stessa a perdere l’incanto della novità e si fa più spenta, più (se vogliamo) rassegnata.
Il ruolo della poesia, quella primigenia e ancora capace di mutare il mondo e riplasmarlo in altre sembianze, resta peraltro immutato: se ne appropriano il vate e il cantastorie, e tutti quelli che con loro riportano su terre e cieli antichi i brividi di quella prima, antichissima e stupenda creazione.
È la poesia vera, quella che l’autore de Le cento e una ballata
vuol imitare all’inizio di un percorso che (si spera) lo porterà alle soglie dell’eletta meta del Parnaso. A chiunque ne senta in sé l’immortal disio
, deve esser data la possibilità di cercare la magia riposta in ogni parola: lavorandola, distorcendola, ricreandola di modo da provocare nel lettore il brivido di quelle antiche, dimenticate formule magiche che un tempo riuscivano a far apparire fantasmi, a far levitare oggetti, a farli scomparire. Tutto il potere è qui, nella sua semplice espressione verbale.
A chi anteporrà il primato della musica (più immediata, più primitiva e in un certo senso più pura) su quello della parola, ribatto che la musica è la parola delle cose, affascinante perché appartiene al mondo anti-razionale e diluito
della pietra inerte. Tutto ciò ci affascina perché sgombra le nostre intelligenze oppresse dal fardello della conoscenza: ma è soltanto la parola la musica dell’uomo. Essa è il canto del dio che lo crea, e anche di quello che, consapevolmente, lo danna per l’eternità.
Le cento e una ballata segue queste vie antichissime e in molti casi dimenticate (disconosciute) per riproporre la nostra quotidianità sotto una nuova luce: dissacrante o al contrario santificante. La placida magniloquenza dell’endecasillabo, alternata al martellante incisività del settenario, adotta la veste ad hoc
della ballata per riportare nel nostro mondo prosaico il fascino della poesia così come essa dovette apparire ai versificatori di secoli fa.
Proponendola (a proprio rischio e pericolo) ai suoi lettori, l’autore non può far altro che augurarsi un suo revival nei cultori e appassionati di ogni età e formazione.
Raffaele Isolato
Nota di grazie
A chi di voi credette al canto mio
miserrimo, meschino;
a chi al mio supino
atteggiar la man composta
porse, a rialzar disposta.
Nessun vi fu, nessuno.
Bei motti e vil menzogna d’uno all’altro
ripetono i cantori: dite il metro
allor per cui un più s’ingegna scaltro,
e nega quel che apposta insinua addietro.
Ecco, a scansar sfortuna io stesso impetro:
parlate, e me a capire
il vostro acerbo ardire
aitate: se lo sbaglio
mio fu, o vostro abbaglio.
Nessun vi fu, nessuno.
"Riponi in te fiducia, la ricetta
de’ fausti tuoi successi in te s’asconde":
tale a me rivolta fu l’abbietta
favola italiana. M’a che sponde
lice naufragar? Far di verdi fronde
serto mio esclusivo,
o aspettar tetro e schivo
ch’uom giunga al mio riparo?
Sol resta un pianto amaro:
nessun vi fu, nessuno.
Grazie dunque a’ pavidi parenti,
agli ipocriti complici d’antiche
illusioni, ch’a spicciole intenti
lodi e carezze, poi sdegnan fatiche
che amistà provan. Ahi Parche nemiche,
qui sol giaccio inviso
dall’ultimo irriso
e d’alcun compatito.
A chi mai punto il dito?
Nessun vi fu, nessuno.
Ballata alza il capo, vola alto
e brilla a chi un dì derise il poeta.
Non speri chi inizi, di un salto
‘nfamia ottenere o gloria alla meta,
trionfando: i degni sol morte decreta.
Ma all’opra matrigna
non val che si indigna
chi volle i suoi fasti
e neppur ebbe gli asti.
Nessuno v’è, nessuno.
Un medico scrupoloso
" Sperar lice ancora, s’ancor vita
nei tuoi occhi si specchia,
amico mio. La vecchia
abbandona speranza,
tua flebile devianza
che or mostra ‘l tormento."
Giacque immoto il malato, fosco il guardo
e pallido ‘l sembiante: tentò estremo
di mortal sicumera il baluardo
scotere, atterrare, ma il pio remo
del camice in giù svìal dall’eremo.
"Rifugio pur cercasti
al regno de’ nefasti,
de’ perduti affanni
e demoni tiranni!
Perché tu scuoti il mento?"
E l’altro di rimando, stretti al letto
gli intubati polsi, de’ suoi denti
màcina e stridore fe’ l’oggetto:
"Viver tu mi imponi, e non senti
che ‘l lavor tuo m’appresta altri tormenti."
E il medico solerte,
sicur del suo l’avverte:
"Geme il mio paziente
e intanto già di niente
si fa di lui la cura:
dimetti ogni premura,
che vivo è ‘l sentimento!"
"Vivo, vivo! Eppur ancor l’avverso
il vostro amor dell’arte, e del discorso
ch’umìle parte e poi di sangue il verso
prende in su la china. Io soccorso
chiedo a voi, e più non riconosco."
"A che dunque ostini
la sorte che i divini
protrassero consigli,
e ancor tuo fato imbrigli
in malsano amor di stento?"
"Stento vostro l’è! Vostra è la vergogna,
medici in ludibrio di ragione
e di stoltezza! Sì mettere alla gogna
chi morte chiede, e non vivo bastone
da man del vostro dio, è presunzione!"
Il medico riscosso,
tremando insino all’osso,
lo forza alla catena:
"Pazzia è ciò che aliena
costui dal suo contento."
L'imboscato
Laureando e gran promessa, a’ parenti
in gloria e agli invitati,
se n’ va ‘l dottor Salviati
in mezzo alla sua festa
e già d’allor fa cresta!
Che luminar… che dotto!
N’ha proposte e prieghi a mille fasci,
e ancor d’invidie altrui fa incetta.
Niun lo tocca e nulla par lo sfasci:
tal è il segreto d’ogni uom che accetta
intera sua grandezza: "Ah mia diletta
medicina!", sospira
e intanto grato ammira
il volto già atteggiato
nel calice d’ambrato.
Ch’il mal mi venga sotto!
Sì convinto