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Il ladro di anime
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E-book380 pagine5 ore

Il ladro di anime

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Info su questo ebook

Alessandro è un ventiquattrenne come tanti, perso forse più di troppi nel suo personale mondo di aspirazioni al limite dell’impossibile, di malinconici sogni al chiaro di luna, di ansia d’amare e soffrire al tempo stesso. È insieme un ballerino che imparerà a volare nel senso letterale del termine, e un sensitivo in contatto con ignote intelligenze cosmiche: proprio queste lo costringeranno a vomitare tenebra (vera tenebra, fumosa, inconsistente, densa come nebbia) sul mondo. I suoi poteri non sono quelli di un eroe da fumetti, ma più sogni ad occhi aperti, che con lo scorrere dei capitoli il lettore imparerà a riconoscere come reali, e significativamente destabilizzanti l’equilibrio sociale di una cittadina nel cuore del Mezzogiorno. Nel dubbio amletico che il protagonista vivrà al risveglio della sua vera identità, l’ago della bilancia penderà ineluttabilmente verso il piatto del Non Essere. Ecco che, manipolata dalle sue membra d’artista, la materia si sgretola fino a scomparire sotto gli occhi del lettore strabiliato: con un ultimo, inaspettato gioco di prestigio, l’incomparabile bellezza di una notte eterna, senza stelle, senza mondi, prepara il suo avvento sulla Terra.

Laureato in lingue e culture internazionali, Raffaele Isolato applica le sue ricerche in campo etico ed epistemico a novelle e romanzi che spaziano dal fantasy al noir, al filone avventuristico, alcuni dei quali già pubblicati in rete e cartaceo. In attesa di pubblicazione sono altre raccolte di saggi e i più significativi esperimenti poetici. Tra i titoli pubblicati su Amazon: Attacco al potere (La Saga dei Perfetti e degli Imperfetti vol.I), Chi vuole andare in TV?, Viaggio a Nord, Dall’altra parte del nulla, Lineamenti di religione universale, Inferno XXI (poema didascalico-allegorico in trenta canti), Il nulla imperfetto, Nati alla luna nuova, Viaggio a Lost City, L’angelo dalle ali di carta, La pietra e lo scandalo (raccolta di novelle d’argomento erotico), Il Presidente (tragedia in cinque atti in versi sciolti).
 
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita18 feb 2019
ISBN9788893455800
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    Anteprima del libro

    Il ladro di anime - Raffaele Isolato

    L.B.

    I.

    Non era mai stato un bambino come gli altri. A partire dagli otto anni, la sua vita aveva subìto un cambiamento radicale, e tutto a causa di un sogno.

    Sedici anni dopo, tutto quello che era riuscito a seppellire nel suo passato ricominciava a riemergere, lentamente e inesorabilmente, fino a innescare una reazione di catastrofici avvenimenti che avrebbe condotto la sua famiglia, la sua città, il suo mondo alla vigilia di una nuova era.

    ***

    Campovecchio, 15 giugno 20**

    Gentile professoressa Flores,

    ancora una volta, temo di non poter aderire alla sua filosofia. Il fatto che io presuma di sapere ciò che la realtà sia davvero, non mi rende in alcun modo partecipe della cosiddetta assenza di pensiero di Siddharta. Certo, ho veduto quello che mai un essere umano ha mai neppure sospettato prima di adesso… ma non sono disposto a ricondurlo al pensiero di qualche altro grande della storia.

    In effetti, al mio posto, qualsiasi altro a quest’ora sarebbe impazzito; forse se ne starebbe a predicare la sua Verità per le vie del mondo. Verità non cristiana, non ebraica, non buddhista, e neppure animista. La mia è una verità talmente pura da rasentare il nulla, e forse proprio per questo è troppo sottile per essere udita da orecchie umane. Forse troppo pura anche perché io, umile prescelto, possa divulgarla con le parole! Come si può descrivere il puro Nulla con dei poveri suoni convenzionali? Come riuscirei io, signora, a descriverle quello che provai quando cielo e terra sembrarono dissolversi sopra e sotto di me? E lei mi dice che è stato solo un sogno! Qualcosa che la mente dovrebbe aver già cancellato dalle mie memorie di fanciullo. Io so che non è stato solo questo. Me lo dice il sangue, ogni centimetro della mia pelle, e il sudore della fronte. Sta per succedere qualcosa. Vedrò ancora la sfera. Vedrò ancora una volta, più chiaramente, il destino che mi aspetta.

    Non so cosa essa voglia da me, né cosa io potrei darle, anche ammettendo che ciascuno di noi abbia una missione da portare a termine in un ragionevole numero d'anni. Sono io, sono qui, e ci vedo più buio di prima. Lei vuole che ammetta che i più grandi maestri della storia del mondo, si chiamino essi Cristo o Buddha, abbiano sempre una risposta utile e immortale per ciascuna delle aspirazioni dell'uomo. Ogni domanda apparentemente irrisolvibile e contorta avrebbe in una fonte estranea al libero arbitrio la risposta adeguata, l'ingrediente ad hoc per risolvere qualsiasi inconfessabile aspirazione al Tutto.

    Ma io ho visto, cara professoressa, io ho sentito che la risposta non è del mondo. È oltre i cieli, e oltre i più azzardati sogni degli uomini. Come chiamerebbe, lei, l'impulso all'autodistruzione che avverto in ogni minuscola particella di materia, in ognuna delle cellule che ci formano come Io, eppure periodicamente si distruggono, e sono sostituite da migliaia, milioni di altre? Forme di forme, aggregati di altri aggregati, e noi qui a crederci esseri potenzialmente immortali, esseri emarginati dall'eternità di delizie e giovinezza che ci aspetterebbe al varco. Illusioni, professoressa cara. Illusione anche il suo Nirvana, illusione anche la dukkha. Come potrei accettare la teoria di eterna felicità buddhista dopo la liberazione, se non paragonandola a un altro semplice, vile e limitato stato mentale? Nirvana non è purezza, non felicità e neppure stupefatta serenità della Natura in se stessa. Nirvana non è. E la dukkha stessa, questa miserrima catena di tormenti che accompagnerebbe il nostro tragitto terreno, non è solo una mera convinzione di esseri infelici? La vita non è una prova, non è un arduo sentiero e neppure un'aula di dispute e filosofie. La vita è ciò che pensiamo che sia, cioè nulla dietro l'illusione. È un telo incostante che aspetta solo di essere strappato via. Il prima possibile.

    Ricorda quando fu lei a dirmi mie dissertazioni erano puri giochi della mente, tranelli di un pensiero sovreccitato, trappole di un novello sillogismo di stampo medievale? Mancava qualche giorno alla discussione della mia tesi di laurea, e rischiavo di arrivare impreparato alla seduta perché avevo ricordato ancora quel sogno, assai più vividamente del solito. Era stata una vera e propria allucinazione, qualcosa che lei cercò di minimizzare, e che io invece ero pronto a marchiare come segno, nuovo inizio. Voglio andare fino infondo, voglio aspettare, studiare, cercare di capire quello che l'Altro vuole da me. Non oso dare un nome a questo stato di coscienza. Non lo chiamo Dio né dolore... mi piacerebbe definirlo principio, se ciò non presupponesse una fine o una risoluzione che non vedo. Io non aspiro a esplorare la mente umana e a farmene una mera teoria esistenziale; vorrei soprattutto sollevarla dal suo ingrato compito, e insegnare al mondo a vedere al di là. Forse è proprio questo ciò che si voleva a me il giorno in cui fui visitato dalla misteriosa assenza che mi infettò la vita. Sono passati più di quindici anni, eppure la memoria è più viva che mai. Qualcosa mi chiama ancora, e più forte di prima...

    Alessandro Metelli interruppe l'email settimanale alla sua professoressa di storia della filosofia, proprio quando stava per rivelarle ciò che sempre le aveva taciuto, sin dalla prima volta che avevano iniziato con le loro informali dispute filosofiche, durante le ore di ricevimento. La signora Flores vedeva in lui un talento ancora in nuce, un critico dell'anima da aiutare a venir fuori; quanto al suo allievo, a lui importava soltanto avere qualcuno che lo ascoltasse, e gli permettesse di rileggere il suo pensiero, le sue conclusioni, e di proseguire per la sua strada senza che nessuno lo accusasse di parlarsi da solo come un idiota. Ad Alessandro non importava il pensiero altrui: lui voleva soltanto capire cos'aveva dentro, ciò che covava, appena dormiente, sin da quando cominciavano le sue memorie di bambino.

    Guardò lo schermo del computer, aspettò di capirci qualcosa, poi rilesse ancora una volta e mutilò l'email di un buon terzo. La spedì evitando qualsiasi accenno alla sfera, o alle viscere che gli parlavano della sua missione. Gli ribolliva il sangue, ma questo era meglio non dirlo; aveva già osato troppo con quella donna, e l'unica cosa che ne aveva ricevuto in cambio era stata una compassione appena velata, un invito pietoso a tirarsi indietro e a rigettare quello stato nocivo d'esaltazione mentale. Abbandonati. Inspira, espira, e lascia andare tutto il dolore del mondo. Svuota la mente, concentrati sul respiro e fai spazio nella mente. Inspira, espira. Aria pura., le aveva detto lei durante una delle loro passeggiate al Parco Virgiliano. Lui allora aveva provato a lasciarsi andare, ma invece del nulla aveva sentito i suoi polmoni molli e umidi che si gonfiavano, e si sgonfiavano, e gli ricordavano che dopotutto lui non era che una poltiglia d'organi al carbonio. No, non era quella la strada giusta. Non era solo lui a dover lasciar andare. Era tutta la realtà intorno a lui. Tutto il mondo e l'universo intero dietro di lui; erano tutti gli uomini. Insieme, per sempre.

    Dopo aver inviato l'email, il ragazzo chiuse il portatile e restò qualche tempo seduto alla scrivania. A metà giugno, le condizioni meteorologiche si erano assestate su miscuglio letale di umidità e calura. Era dottore da appena una settimana, e gli sembrava già un'eternità; che avrebbe fatto, d'ora in poi? Suo padre aveva già suggerito le prime opzioni. Avrebbe potuto iscriversi alla scuola d'abilitazione all'insegnamento, oppure preparare qualche colloquio con una scuola privata... Al limite poteva tentare con qualche master o una seconda laurea. La vita era piena di orizzonti e strade diverse; aveva ancora una cinquantina d'anni davanti a sé. Anche con una modesta laurea in lettere classiche, c'era abbastanza materiale per sognare, e iniziare a oliare gli ingranaggi per farli combaciare a quelli del mondo adulto intorno a lui. Spinse indietro la sedia bilanciandosi contro la scrivania, e per qualche secondo lo spostamento continuò nella penombra della stanza. Le tende ondeggiavano alla lieve brezza che proveniva dalle imposte socchiuse. Che avrebbe fatto? Qual era la decisione giusta?

    Era in uno stato di cronica eccitazione da un paio di giorni. Decine d'anni gli gravavano sulle spalle, e lui avrebbe potuto fondarvi sopra un impero. Sogni di ricchezza, di potere illimitato, di celebrità incondizionata agli occhi dei contemporanei. Alessandro Metelli il visionario, Alessandro Metelli il fondatore della nuova religione del millennio. A soli ventiquattro anni, era già stato investito dal fuoco divino; gli sembrava che lo stesso Cristo avesse cominciato a predicare soltanto passati i trenta. Si lasciò trasportare in alto, pur sapendo che di lì a poco si sarebbe sentito un inutile escremento della storia; si rinchiuse nella sua torre d'avorio, e salì a chilometri d'altezza. Chiuse gli occhi: ecco, così andava meglio. Non era più nipote di contadini, figlio di operai, futuro impiegato statale e orgoglio della feccia da cui era nato. Non era più un ragazzo sostanzialmente solo e incompreso, che si nutriva di inganni della mente per dare un senso a un'esistenza che altrimenti gli sarebbe apparsa come il più crudele dei tradimenti. Ora era sparita anche la penombra, la scrivania, il letto disfatto da cui si era alzato due ore prima, il pavimento coi segni delle scarpe nuove. Erano spariti i libri, il computer, le memorie degli ultimi anni universitari. Era sparito anche Alessandro Metelli.

    Amava stare così per almeno mezz'ora, ogni giorno. Non era quella che Barbara Flores chiamava meditazione: più una sorta d'autoipnosi, una regressione al punto zero della sua vita. La visione. Allora non si sarebbe mai immaginato che quel sogno avrebbe condizionato la sua vita futura. Era stato più un incubo, e allora ne aveva avuti tanti. Erano iniziati quando avevano cambiato casa, e si erano trasferiti a Campovecchio, dove il papà aveva trovato un nuovo lavoro alla scuola del paese come bidello. Quando da piccolo gli chiedevano quale fosse a professione del signor Metelli, lui rispondeva sempre lavora alla scuola media, così magari gli altri bambini avrebbero pensato che era un insegnante, e l'avrebbero trattato con rispetto. Questo aveva funzionato alle elementari; sfortunatamente le medie inferiori le aveva frequentate proprio a Campovecchio, dove il padre puliva i bagni che i suoi compagni si divertivano a insozzare.

    Anche per questo, la cittadina dove era venuto a stare intorno ai cinque anni non arrivò mai a piacergli come la casa della nonna paterna. Nonna Bice era di Pompei, e viveva in una grande casa in campagna, dove da ragazza aveva allevato buoi e maiali. All’inizio aveva acconsentito a che i figli l’aiutassero a coltivare la terra, ma poi aveva confessato di aspirare a qualcosa di più per il suo figlio maschio. L'aveva mandato a scuola per ben otto anni, aspettandosi forse che maturasse un talento da grande uomo di scienza. Il padre di Alessandro però non aveva più voluto saperne di studiare dopo i quindici anni, e così aveva cominciato a cercarsi un lavoro (non più come bracciante, per carità) nei paesi vicini. A Campovecchio aveva fatto il meccanico, l'aiuto idraulico, l'imbianchino, il postino, e infine il bidello. Nonna Bice avrebbe voluto che sposasse una ragazza di paese, qualcuna con una bella casa di proprietà in centro, ed era andata su tutte le furie quando il suo secondogenito le aveva confessato di amare una bassa, ignorante e rozza ragazza di campagna (la futura madre di Alessandro), e di volerla sposare al più presto a Campovecchio.

    Nonna Bice non aveva mai osato insultare pubblicamente la nuora, perché sapeva di rischiare una frattura insanabile col figlio, così si era morsicata la lingua e aveva cercato di consolarsi col fatto che i novelli sposi si fossero trasferiti in un modesto appartamento delle palazzine popolari, recentemente restaurate nella parte vecchia del paese. Quando i Metelli avevano lasciato la casa in campagna, la sorella di Alessandro aveva già dieci anni, e dei loro giochi all'aria aperta, delle passeggiate al sole e delle corse a piedi nudi sull'erba aveva tratto assai più giovamento del suo gracile fratellino. Alessandro era rimasto scioccato a dir poco dal quartiere sovrappopolato in cui era capitato, dalla casa minuscola in cui si erano stabiliti, e a causa di tutti i giocattoli che si era dovuto lasciare dietro per far spazio nella sua nuova cameretta.

    A Monia, sua sorella, era andata meglio. Lei si era sposata a diciotto anni e ormai viveva a Milano con suo marito. Era stato facile, per lei, sistemarsi: nel Sud della penisola vigeva ancora la consuetudine della sottomissione femminile. Per certi versi era orribile che una ragazza affidasse la propria libertà, le aspirazioni e tutti i sogni di fanciulla nelle mani del primo bellimbusto che la chiedesse in sposa. Per altri, spesso Alessandro si trovava ad invidiare sua sorella. C'era qualcuno che la proteggeva, che era corso in suo aiuto per liberarla dall'atmosfera soffocante di Campovecchio, del quartiere, della loro famiglia di contadini inciviliti, ancora vittime dei pregiudizi e delle fobie della loro vita da novelli pseudo-borghesi. Monia era stata fortunata; era l'unica persona che lui avesse mai amato, l'unica che gli avesse reso possibile il tormento del trasloco. Certo, non è che il piccolo Alessandro avesse mai amato nonna Bice; lei era tutt'altro che una nonnina mite e amorevole, e con sua madre aveva sviluppato un legame di odio a oltranza. Passavano le giornate a ingiuriarsi e a farsi piccoli dispetti, mentre i due bambini si divertivano a vivere all'aperto, a esplorare i nidi delle formiche, a tastare la paglia nel pollaio in cerca di uova, a far volare gli aquiloni nelle mattinate ventose.

    A quei tempi c'era ancora spazio per sognare, spazio per immaginare una vita bella e serena in cui credere davvero. Nella palazzina in cui si erano trasferiti, al terzo piano di un condominio abitato da famiglie operaie o presunte tali, erano fortunati soltanto coloro che dalle finestre riuscivano ad avere almeno qualche ora di sole intorno a mezzogiorno. Gli appartamenti affacciavano su un cortile semibuio senza un solo filo d'erba verde, uno spazio in comune ormai occupato soltanto da carcasse di biciclette e da una barca a remi sposata lì in mezzo chissà da chi, chissà quando. Il ragazzo aveva rinunciato a tenere aperte le imposte già da alcuni anni, visto che la sua finestra dava proprio sulla camera da letto della sua vicina, una pettegola che si ostinava a battere tappeti e far prendere aria alle lenzuola ad ogni ora del giorno e della sera. Alessandro poteva fingere di stare da solo coi suoi pensieri soltanto ad occhi chiusi, seduto al centro della sua piccola stanza. A volte metteva anche i tappi di cera per mantenere la concentrazione. Si focalizzava sull'immagine di sua sorella, e tentava di chiamarla con la forza della mente, perché venisse a salvarlo, e a portalo via da lì. Monia aveva promesso che l'avrebbe portato con sé non appena avesse preso la laurea, e lei e suo marito avessero trovato un appartamento un po' più grande. Ma Matteo, suo cognato, non gli aveva mai confermato la promessa; ormai avevano un bambino, e un altro era in arrivo. Per Alessandro non ci sarebbe stato posto nella loro vita: avrebbe dovuto arrangiarsi, trovarsi un lavoro, accettare i compromessi del mondo e cominciare a guadagnarsi il pane.

    I Metelli erano passati, nell’arco di più generazioni, da contadini, a operai, a impiegati... magari suo figlio sarebbe stato un avvocato o un professore universitario. Aveva assistito a un piccolo esempio di evoluzione della specie all'interno della sua stessa famiglia. Era così che girava il mondo; perché lui avrebbe dovuto essere diverso? Perché era ossessionato da una visione onirica, invece di cominciare a scriversi un curriculum e a organizzare colloqui? Le iscrizioni alla TFA erano già iniziate; presto sarebbe stato troppo tardi per inserirsi nelle graduatorie. Alessandro aprì gli occhi, smise di respirare a fondo e di pensare al disastro della sua vita presente. Certo, quella era tutt'altro che meditazione, consapevolezza o corretta espressione dell'ottuplice sentiero buddhista; era stato lì a tormentarsi con pensieri superbi e riflessioni terrene sporche di fango, di rimorsi, d'ansie che non sarebbero state mai risolte. Non era riuscito a distrarsi; sentiva quasi l'aria che gli bruciava nei polmoni, e la testa che gli fumava. Come se non bastasse, era certo che entro pochi minuti sarebbe iniziata l'emicrania, e sarebbe stato costretto ad assumere i soliti analgesici. Detestava quei momenti. Si credeva chissà chi, e non era in realtà che un povero malato di mente, un illuso che giustificava la propria vigliaccheria con una presunta chiamata da altre dimensioni ultraterrene. Odiava se stesso, la sua mente, il suo corpo. Ma sapeva cosa fare.

    Aprì piano la porta della sua camera, controllò se giungessero rumori dalla cucina. Per fortuna suo padre non era in casa; sua madre era in cucina a preparare il pranzo. Il volume della tv era alto abbastanza a coprire i suoi passi lungo il corridoio; la camera di sua sorella era in fondo, accanto al bagno. Dopo che Monia si era trasferita, era stata usata come parcheggio temporaneo della macchina da cucire di famiglia, e come ripostiglio per la collezione di riviste di suo papà. Il letto, l'armadio e la scarsa mobilia erano rimasti al loro posto. Di fronte al grande specchio che ricopriva l'anta del guardaroba, era rimasto spazio a sufficienza per un vecchio tappeto a strisce. Lì sostava Alessandro, quando era sicuro di non essere disturbato. Di rado c'era bisogno di chiudere la porta a chiave. Anche in un'abitazione minuscola come quella dei Metelli, si erano creati angoli disabitati di cui alla lunga quasi nessuno si ricordava. Quello era il piccolo sacrario del secondogenito i famiglia, un luogo fisico del suo rimosso, in cui dar sostanza alle fantasie inconfessate della sua infanzia mutilata. Gli mancava quello che lui avrebbe potuto essere, e quello che non sarebbe mai potuto diventare. Gli mancava sua sorella, e la parte che sua sorella aveva in lui. Avrebbe voluto essere Monia. Avrebbe volentieri lasciato il fardello psichico di Alessandro Metelli ad un altro coetaneo, per poter essere uno dei tanti signor Nessuno che popolavano la Terra. Un nessuno come suo padre, un mediocre come la sua consorte... una donnina modesta e fortunata come Monia.

    Come ogni altra volta in cui aveva sostato di fronte all'armadio, Alessandro sentì l'improvvisa urgenza di denudarsi. Poco a poco, un indumento dopo l'altro. Quando il mucchietto fu appallottolato ai suoi piedi, restò a fissare il suo corpo snello e ben modellato, col membro chiuso in mezzo alle cosce, le spalle larghe e la schiena eretta, così come immaginava si fosse presentata sua sorella di fronte al suo sposo la prima notte di nozze. Si sforzò di modificarsi i tratti allo specchio, di cancellare le ultime tracce del figlio Metelli dall'immagine che lo rappresentava in quel momento. Scelse di non truccarsi, ma di indossare semplicemente alcuni dei vestiti della sorella. Aprì i cassetti in cui aveva frugato centinaia di altre volte, e cominciò dalla biancheria che Monia si era lasciata dietro al momento del viaggio di nozze. Infilò le mutandine, il reggiseno cadente sul petto piatto, le calze e una minigonna che lei aveva comprato da ragazza e mai indossato. Per il busto optò per una felpa autunnale, leggera e per nulla adeguata al suo fisico asciutto. Avrebbe voluto anche una maschera... almeno una parrucca. L'illusione, tuttavia, non tardò a dare i suoi frutti. Poco a poco Alessandro Metelli si dissolse. Rimase soltanto un ibrido incompiuto, una mezza coscienza leggera, intonsa, senza peso e senza passato, qualcosa a metà tra il cielo e la terra, inconsistente e affatto problematica. Si era trasformato in un essere senza missione e senza perché: l'essere informato, senza peccato.

    Chi sei tu?

    Nessuno, nessuno, nessuno.

    Erano bastati appena dieci minuti. Riprese a spogliarsi, rimase di nuovo nudo, androgino. A ventiquattro anni riusciva ancora a incontrare gente disposta a dargliene appena diciotto; per lui non aveva mai significato molto. In un caso o nell'altro, ci sarebbe stato sempre qualcuno che si sarebbe aspettato qualcosa da lui. Dopo l'università, un lavoro suo, una famiglia sua, e una sua vita. Ma lui voleva qualcosa in più. Quello, o niente.

    Quella mattina, visto che tutto doveva andare per il verso sbagliato, il suo sguardo fu catturato da una serie di fotografie esposte in bell'ordine sulla cassettiera accanto alla finestra. Erano state scattate alla vecchia casa di Pompei, quella in cui ancora abitava la nonna. Nella più grande, lui e sua sorella stavano distesi in un campo di papaveri, e il bambino soffiava una manciata di petali vermigli che proprio allora tornavano a posarglisi sulle labbra. Sua sorella cercava di imitarlo, ma non aveva raccolto abbastanza fiori. In un'altra Alessandro era più grandicello, e andava in altalena sotto un albero di gelso; di sicuro era stato in occasione di una delle loro gite domenicali a Pompei. In quel periodo vivevano già in paese, ed era raro per loro trovare un po' di spazio per rincorrersi e sudare durante la settimana. Il ragazzino dall'aria malandrina che si appendeva alle corde dell'altalena doveva avere poco più di otto anni. Quella era stata l'età del suo sogno tremendo, il periodo in cui si era insediato nel suo cervello qualcosa di talmente meraviglioso e crudele al tempo stesso, che le due qualità si erano annullate a vicenda, dando origine a una sorta di vuoto sospeso, una bolla oscura che di tanto in tanto gli si parava davanti e minacciava di risucchiarlo al suo interno.

    Era andato a letto come ogni sera, piuttosto tardi, dopo aver portato a termini i compiti trascurati durante il giorno, e aver recitato in fretta le preghiere del catechismo che sua madre gli aveva insegnato come ad ogni buon cristiano. A un certo punto gli era sembrato che qualcosa lo chiamasse fuori dalla portafinestra del soggiorno, sul piccolo balcone da cui si vedeva il solito cortile. Era giorno fatto, e il piccolo Alessandro non riusciva a spiegarsi perché nessuno l'avesse svegliato per la scuola. Non si era preoccupato di cercare sua madre o sua sorella; era andato subito fuori, dove a pochi passi dal suo naso si era manifestata una piccola sfera dorata, del diametro di pochi centimetri, che lo aveva abbagliato al punto da costringerlo a schermarsi gli occhi con una mano. Poi si era dilatata, a mezz'aria, e aveva continuato a brillare come una sorta di piccolo sole sospeso. Gli aveva parlato, o meglio, gli aveva infuso la verità senza parole. Era stata una trasmissione talmente diretta, cruda, da superare il mero canale verbale. E lui aveva creduto di aver visto Dio; a quei tempi si era convinto di aver avuto la sua vocazione e che il Signore fosse sceso dal cielo per comunicargli il suo invito al sacerdozio. Era corso in casa, dove aveva trovato sua madre a stirare come se niente fosse, e le aveva gridato: Ma', l'ho visto! L'ho visto, finalmente! Mi è apparso!. Non aveva specificato chi, e stranamente si era espresso come se stesse aspettando quella visione da tempo.

    Poi si era svegliato, e aveva cominciato a gridare nel buio. Non era raro che avesse gli incubi, da bambino, ma erano anni che non aveva urlato a quel modo per svegliare i suoi genitori. Aveva smesso di piangere soltanto quando sua madre era entrata nella sua stanza, si era inginocchiata accanto al letto e aveva cominciato a carezzargli la fronte per scostargli le ciocche nere appiccicate dal sudore:

    - Non è niente, Ale. Sta' tranquillo. Non era vero niente. Era un brutto sogno. Ora è finito, Ale.

    Sua madre non aveva mai pronunciato la parola incubo. Lei preferiva i brutti sogni, una sorta di illusioni notturne finite nel modo sbagliato; qualcosa da correggere da svegli o di cui, semplicemente, dimenticarsi. Il piccolo disperato si calmò soltanto quando lei gli promise di guardarlo riaddormentarsi, con la luce accesa. Il giorno dopo, l'incubo era già lontano. Era rimasto solo il messaggio, sotterrato da qualche parte dentro di lui.

    Recentemente era tornato, vivido e spaventoso come il primo giorno, veicolato da nuovi sogni, pensieri molesti nati appena dopo il primo assopimento, e che lo proiettavano nella casa di sua nonna, all'epoca in cui, bambino inconsapevole e spensierato, le sue uniche preoccupazioni erano quelle di rientrare in casa prima di tarda sera, e non avvicinarsi troppo ai grossi massi per paura delle vipere. Da un anno a quella parte, Alessandro aveva sognato di guardare dalla veranda della nonna, quella che dava sul giardino fiorito di qualche nuova specie di pianta ornamentale in ogni stagione dell'anno. Nei sogni era notte, e sempre qualcosa lo osservava dalla finestra. Non era una sfera, non brillava, non gli comunicava nulla almeno a parole. Poteva ben dire che era lì per lui, ma stavolta era troppo spaventato per avvicinarsi, e uscire a vedere in giardino. La sagoma era indefinita, ma lo guardava da una sorta di frattura nello spazio, a mezz'aria, in cui era apparsa. Dal nulla.

    Quando si era svegliato dopo l'ultimo sogno, un paio di settimane prima Alessandro aveva riprovato un'ombra del terrore che l'aveva colto da piccolo. E aveva ricordato, e col ricordo era giunta la certezza che c'era un motivo sconosciuto e importantissimo che legava quei sogni tra loro. Aveva cominciato a guardarsi intorno, a sentire qualcosa dentro, un punto vuoto al centro del cervello dov'era custodito il messaggio della sfera solare sul balcone. Una volta, mentre si recava all'università per uno degli ultimi colloqui con la Flores, si era fermato in mezzo alla strada perché all'improvviso aveva creduto di scorgere un punto nero proprio al centro del suo orizzonte visivo. Qualcosa che riguardava l'occhio, e non il traffico congestionato del capoluogo campano. Lui però aveva allungato il braccio per afferrare l'oggetto oscuro; era riuscito a smuoversi soltanto quando una cacofonia di clacson l'aveva riportato alla realtà. Lentamente, l'indefinibile forma sospesa si era rimpicciolita fino a sparire. Lui si era sentito sempre peggio; aveva salito gli scalini della Federico II quasi a occhi chiusi, terrorizzato dall'incubo che all'improvviso aveva investito anche il suo universo cosciente. Le ombre avevano cominciato a calare anche sul giorno.

    Il suono del campanello alla porta lo fece trasalire. Doveva essere suo padre che era ritornato dalla scuola. Alessandro riposò la cornice impolverata sulla cassettiera di sua sorella, e si rivestì in tutta fretta. Ripiegò la biancheria gualcita di Monia, superò in fretta l'eccitazione che risvegliò in lui il tocco degli indumenti leggeri, lisci, proibiti al suo sesso. Il pensiero che suo padre potesse trovarlo vestito da donna gli diede un attacco di nausea. Da bambino provava per lui un rispetto reverenziale, misto a timore e all'ossessione di deluderlo in qualsiasi cosa. Era stato un padre severo e autoritario, un uomo legato all'abusata, subdola convinzione che bastasse supportare economicamente la propria famiglia per guadagnarsi il rispetto e l'obbedienza incondizionata di tutti i suoi sottoposti. Sua moglie acconsentiva a venerarlo e viziarlo di buon grado, Monia era stata ragazzina giudiziosa ed obbediente durante i pochi anni che era rimasta a vivere con loro. Quando aveva cominciato a capire che razza d'uomo fosse il suo genitore, Alessandro era passato dal silenzio rancoroso all'odio radicato. Il suo timore più grande era quello di esplodere in una furia esplicita che non gli avrebbe più permesso di convivere sotto lo stesso tetto con i suoi. E allora sarebbe stata la fine; non aveva dove altro andare, eccetto forse casa di nonna Bice. E lui aveva imparato ad odiare anche sua nonna, per il fatto che era troppo simile a suo padre. A volte le aveva visto negli occhi piccoli e socchiusi la stessa immotivata perfidia che a volte covava in quelli di lui: un'ansia di sfogare qualche piccolo cruccio personale a scapito del primo sfortunato. Per entrambi il mondo era composto da possibili sfruttatori e vittime potenziali: dai primi era bene tenersi il più alla larga possibile; delle seconde era bene approfittare ad ogni occasione propizia.

    Alessandro era stanco di recitare la parte della vittima, solo perché aveva bisogno di soldi per i libri, per i vestiti, per le piccole uscite che si concedeva coi pochi amici che gli erano rimasti. Di trovarsi un lavoretto negli ultimi anni non se ne era neppure parlato: era troppo impegnato a laurearsi prima del venticinquesimo anno, e poi i suoi genitori erano troppo orgogliosi di avere un dottore in famiglia. Per quanto ne sapeva, suo padre avrebbe fatto i salti mortali pure di trovargli i soldi per qualche master che innalzasse ancor più l'incerta posizione sociale di suo figlio. Tutto per poter vantarsi coi colleghi di lavoro del piccolo genio che viveva con lui e sua moglie; qualcosa che, piacesse loro o no, era stato proprio frutto dei suoi lombi. E così la saga dei Metelli sarebbe continuata... un altro gradino più su nell'infinita scala delle ambizioni umane.

    Entrò in cucina accolto da uno dei rutti pantagruelici di suo padre. Sedeva a capotavola, così come aveva sempre fatto da quando si erano trasferiti. Prima quello era il posto della nonna. Sua madre gli stava servendo un piatto di spaghetti alle cozze, i suoi preferiti, e lui aveva acceso la tv senza degnarla di uno sguardo. Non si era preso il disturbo di farsi una doccia dopo il lavoro, e le maniche della camicia puzzavano ancora dei disinfettanti che aveva usato per lavare il pavimento delle aule e dei bagni di scuola. Sua madre indossava come sempre il suo vestito delle faccende, una sorta di vestaglia con stampa a ghirigori fittissimi che lei usava soltanto in casa. Qualche anno prima aveva rinunciato ai capelli lunghi per risparmiare, a suo dire, sulle spese di tintura e messa in piega dal parrucchiere. Era stato poco prima di cominciare a ingrassare, dando l'addio per sempre al figurino snello che aveva avuto da giovane. Anche se piuttosto in ritardo, aveva adottato la filosofia delle donne meridionali dopo gli anta: trovato l'uomo e incastratolo per bene con qualche marmocchio, ci si poteva anche permettere di abbruttirsi e lasciarsi andare. La parte più impegnativa della vita era trascorsa: ora non restava che invecchiare e sperare che il tempo scivolasse via il più serenamente possibile. Alessandro gettò un'occhiata fugace al padre prima di sedersi. Era un uomo di mezz'età ancora piuttosto piacente, ma dal fisico trascurato e leggermente sovrappeso. I capelli avevano cominciato a farsi brizzolati ai lati, e la stempiatura era sottolineata dal fatto che lui amava impomatarseli tutti

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