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La Saga di al-Andalus, Libro Primo: La Città Splendente
La Saga di al-Andalus, Libro Primo: La Città Splendente
La Saga di al-Andalus, Libro Primo: La Città Splendente
E-book476 pagine6 ore

La Saga di al-Andalus, Libro Primo: La Città Splendente

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Info su questo ebook

Esotico, romantico e ricco di dettagli storici, “La Città Splendente” è una storia senza tempo di passione, famiglia, e delle conseguenze inaspettate delle nostre azioni. Ambientato nella Spagna del X secolo, al tempo dell’occupazione araba, è soprattutto una storia sull’amore e l’onore.

Trasferitosi a Madinat al-Zahra, Qasim crede di essersi lasciato il suo passato turbolento alle spalle, ma quando il figlio minore, Omar, perde la testa per la concubina del Califfo, innesca una serie di inimmaginabili conseguenze che mettono tutta la sua famiglia in pericolo, Qasim incluso. Il suo segreto, infatti, sta per tornare a galla, rischiando di distruggere tutto ciò per cui ha lavorato sodo.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita12 giu 2021
ISBN9781386238881
La Saga di al-Andalus, Libro Primo: La Città Splendente
Autore

Joan Fallon

Dr. Joan Fallon, Founder and CEO of Curemark, is considered a visionary scientist who has dedicated her life’s work to championing the health and wellbeing of children worldwide. Curemark is a biopharmaceutical company focused on the development of novel therapies to treat serious diseases for which there are limited treatment options. The company’s pipeline includes a phase III clinical-stage research program for Autism, as well as programs focused on Parkinson’s Disease, schizophrenia, and addiction. Curemark will commence the filing of a Biological Drug Application for the first novel drug for Autism under the FDA Fast Track Program. Fast Track status is a designation given only to investigational new drugs that are intended to treat serious or life-threatening conditions and that have demonstrated the potential to address unmet medical needs. Joan holds over 300 patents worldwide, has written numerous scholarly articles, and lectured extensively across the globe on pediatric developmental problems. A former adjunct assistant professor at Yeshiva University in the Department of Natural Sciences and Mathematics. She holds appointments as a senior advisor to the Henry Crown Fellows at The Aspen Institute, as well as a Distinguished Fellow at the Athena Center for Leadership Studies at Barnard College. She is also a member of the Board of Trustees of Franklin & Marshall College and The Pratt Institute. She currently serves as a board member at the DREAM Charter School in Harlem, the PitCCh In Foundation started by CC and Amber Sabathia, Springboard Enterprises an internationally known venture catalyst that supports women–led growth companies and Vote Run Lead, a bipartisan not-for-profit that encourages women on both sides of the aisle to run for elected office. She served on the ADA Board of Advisors for the building of the new Yankee Stadium and has testified before Congress on the matters of business and patents and the lack of diverse patent holders. Joan is the recipient of numerous awards including being named one of the top 100 Most Intriguing Entrepreneurs of 2020 by Goldman Sachs, 2017 EY Entrepreneur of the Year NY in Healthcare and received the Creative Entrepreneurship Award from The New York Hall of Science in 2018.

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    Anteprima del libro

    La Saga di al-Andalus, Libro Primo - Joan Fallon

    INDICE

    RINGRAZIAMENTI

    NOTA DELL’AUTRICE

    MADINAT AL-ZAHRA

    PROLOGO

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    CAPITOLO 31

    CAPITOLO 32

    CAPITOLO 33

    CAPITOLO 34

    CAPITOLO 35

    CAPITOLO 36

    CAPITOLO 37

    CAPITOLO 38

    CAPITOLO 39

    CAPITOLO 40

    CAPITOLO 41

    CAPITOLO 42

    CAPITOLO 43

    CAPITOLO 44

    CAPITOLO 45

    CAPITOLO 46

    CAPITOLO 47

    CAPITOLO 48

    EPILOGO

    GLOSSARIO

    LISTA DEI PERSONAGGI

    RINGRAZIAMENTI

    I miei più sinceri ringraziamenti vanno alla mia editrice, nonché autrice della serie di libri per l’infanzia "Dread Pirate Fleur, Sara Starbuck, il cui parere e supporto sono stati per me inestimabili. Vorrei ringraziare anche Angela Hagenow, per aver sottratto tempo prezioso alla sua vita frenetica con la correzione del mio manoscritto, e J.G. Harlond, autrice di The Chosen Man", per la sua valutazione chiara e coincisa.

    NOTA DELL’AUTRICE

    Forse è necessario esporre qui una breve spiegazione sulla stratificazione sociale di al-Andalus nel X secolo d.C. Al tempo in cui Abd al-Rahman III divenne califfo, nell’anno 929, il suo impero includeva molti popoli diversi. Al vertice erano gli arabi, ai quali erano riservate tutte le più importanti cariche amministrative. I berberi, originari dell’Africa settentrionale, occupavano un gradino più basso della piramide sociale e, nonostante fossero anch’essi musulmani, di fatto non erano mai trattati come loro pari. Seguivano i Muwalladun, coloro che si erano recentemente convertiti all’Islam o che discendevano da cristiani convertiti. Infine c’erano i dhimmi, com’erano chiamati i cristiani e gli ebrei di al-Andalus. A tutti questi era consentito professare liberamente la propria fede e vivere in una tranquilla, produttiva normalità. Reietti dalla società, nonché all’infimo gradino della piramide, erano gli schiavi e tutti i miscredenti. Quando uno schiavo si convertiva all’Islam, acquisiva il diritto alla libertà, poiché la legge proibiva il possesso di schiavi musulmani.

    Anche se spiegherò come al-Mari sia stato mandato a lavorare in una cambusa come schiavo, bisogna precisare qui che, nella realtà, l’impiego di schiavi sulle navi non era uso comune. La marina di quel tempo, infatti, preferiva piuttosto assoldare uomini liberi. Mi scuso della licenza poetica.

    Un ultimo punto riguarda Isolde ed il suo villaggio in un remoto angolo della Sassonia. Anche se nel X secolo la maggior parte delle popolazioni germaniche si era convertita al cristianesimo, alcuni villaggi isolati, specialmente nel nord dell’Europa, continuavano a praticare i loro culti pagani.

    MADINAT AL-ZAHRA

    Nella Spagna meridionale, nella provincia dell’Andalusia, si trova il sito archeologico di Madinat al-Zahra, la città-palazzo di Abd al-Rahman III, che fu califfo di al-Andalus nel X secolo. Un tempo, molti secoli fa, fu la città più bella del mondo occidentale e la capitale dei dinasti più potenti e illuminati di quell’era. Oggi tutto ciò è stato quasi dimenticato.

    I lavori edilizi iniziarono nell’anno 940 ed entro il 946 d.C. il califfo Abd al-Rahman III si trasferì nella sua nuova residenza. Questa doveva essere un monumento alla sua grandezza, una città all’altezza del califfo Omayyade che aveva riunito i principati belligeranti della penisola iberica in un unico regno islamico. Era stata progettata appositamente per ricordare ai suoi nemici, così come anche ai propri sudditi, che adesso lui deteneva la sovranità suprema su tutti loro.

    Una delle tragedie della storia è che quella città munifica non durò più di settantacinque anni. Dopo la morte di Abd al-Rahman III, suo figlio Hakim proseguì i lavori di costruzione, ma con la sua morte, nel 976 d.C., la città fu abbandonata e la corte fece ritorno a Cordova. Il nuovo califfo, Hisham II, era un bambino di appena undici anni quando ereditò il titolo del padre e il gran visir, al-Manzor, lo esautorò, iniziando a governare in sua vece. Fu lui a trasferire ogni funzione, dalla zecca, alla corte, all’amministrazione e all’esercito, di nuovo a Cordova.

    Con il passare degli anni, i luoghi ameni di Madinat al-Zahra furono spogliati e smantellati, i loro pilastri e pavimenti di marmo furono rimossi, gli edifici furono rasi al suolo e reimpiegati per costruire i muri degli allevamenti di bestiame.

    Pezzo dopo pezzo, la città si deteriorò, svanendo in niente più che un cumulo di macerie, che la natura iniziò lentamente a ricoprire con un tappeto verde.

    Questa è la storia di quella città vista attraverso gli occhi di chi la abitò. Perché cos’altro è in fondo una città, se non le sue persone?

    PROLOGO

    Cordova

    987 d.C.

    Il vecchio se ne stava seduto all’ombra del muro della moschea. Era ancora presto, ma il calore iniziava già ad accumularsi con la solita ferocia estiva. Allentò un po’ la veste e prese a sventolarsi con il fazzoletto che aveva in mano. Omar non era un uomo ricco, ma non soffriva certo la povertà. La sua jubbah era fatta del cotone bianco più fine, con le lunghe maniche sottili, e su quella indossava la sua djellaba, un mantello col cappuccio dello stesso tessuto. Era leggera, fresca e confortevole. Apparteneva a quella generazione per cui l’apparenza era importante. Persino il suo cappello, ricamato con una fitta trama verde e bianca, aveva un ché di elegante nel modo in cui era appoggiato sui lunghi capelli canuti. La sua barba era tagliata con cura e ben pettinata. Un tempo sarebbe stata tinta con l’henné, ma ora era bianca come i capelli.

    «Ancora tè, vecchio?» chiese il cameriere dall’ingresso della piccola bottega.

    Omar gli fece un gesto con la mano, irritato perché non era venuto a riempirgli di nuovo la tazza di sua iniziativa. Era tipico, le buone maniere si stavano perdendo. Levò via il cappello e si grattò la testa.

    «Eccoti qui, zio. Ti abbiamo cercato dovunque».

    Era suo nipote Musa, il figlio più piccolo di suo fratello Ibrahim, insieme all’amico Ahmad. Omar li guardò e sorrise. Giovani smilzi, coi capelli tagliati corti, secondo i dettami della moda più attuale, si comportavano come se la vita non aspettasse altro che loro l’agguantassero. Se solo avessero saputo quali traversie li attendevano. Non che avrebbero dato ascolto ad alcun consiglio, s’intende. Lui di certo non l’aveva fatto, alla loro età. I ragazzi si sedettero accanto a lui. Quei due erano inseparabili, come se fossero uniti da un filo invisibile. Quando uno di loro andava da qualche parte, l’altro lo seguiva a ruota. Gli ricordavano la sua infanzia. Omar aveva avuto un caro amico di nome Yusuf. Proprio come quei giovani, anche loro due facevano ogni cosa insieme, ed erano così rassomiglianti, nell’aspetto e nei modi, che la gente li scambiava spesso per fratelli.

    «Prendi il tè, zio?» disse Musa.

    «Ne volete un po’?»

    I ragazzi fecero di sì con la testa e Omar alzò la mano verso il cameriere, che se ne stava ancora rilassato sulla soglia.

    «Un’altra teiera e due tazze, per favore» disse.

    Poi si rivolse a suo nipote e domandò «Allora, figliolo, hai detto che mi stavi cercando. Cosa volevi?»

    Sapeva già la risposta: niente, solo bere tè alla menta e stare ad ascoltare le storie del vecchio Omar.

    «Volevamo sapere se stavi bene».

    «E perché non dovrei?»

    I ragazzi si scambiarono un’occhiata d’intesa e ridacchiarono.

    «È vero che hai più di cent’anni?» chiese Ahmad.

    «No, non è vero, anche se ci sono giorni in cui mi sento come se li avessi. Cos’altro volete sapere?»

    «Sei mai stato nell’harem del califfo?» sparò Musa tutto d’un fiato.

    «L’harem del califfo?»

    «Sì, com’è?» chiesero i due in coro.

    «Beh...»

    Nel frattempo il cameriere li raggiunse e poggiò il tè alla menta appena fatto sul tavolo.

    «Qualcosa di dolce per i ragazzi?» gli chiese Omar, guardandolo.

    «Churros?»

    «Ottimo».

    Omar tornò al suo pubblico impaziente.

    «Allora, dov’eravamo rimasti?»

    «All’harem».

    «Ah, sì».

    Il vecchio sorrise. Per un attimo i suoi pensieri erano tornati a quand’era giovane. Sospirò e si rivolse di nuovo ai ragazzi.

    «Sì, be’, fatemi pensare. L’harem, dite?»

    «Sì, zio» rispose il nipote, riuscendo a contenere a stento l’impazienza della sua voce.

    «Sapete che a nessun uomo è permesso entrare nell’harem del califfo, a parte al califfo stesso. È un reato punibile con la pena di morte».

    I ragazzi annuirono seri.

    «Lo sappiamo, zio».

    «Molto bene. Se non racconterete questa storia ad anima viva, vi parlerò dell’harem più incantevole del mondo».

    Si fermò e fissò i due giovani. I loro occhi erano grandi come lune.

    «Dunque, vediamo... nell’anno 947, quando non ero molto più vecchio di voi, mio padre mi portò a lavorare con lui in una città nuova, Madinat al-Zahra».

    I ragazzi si guardarono l’un l’altro e sorrisero. Le storie di Omar iniziavano sempre così.

    «Il nostro sovrano, Abd al-Rahman III, voleva costruire una nuova città-palazzo degna del suo titolo di califfo, così mandò i migliori ingegneri e architetti alla ricerca del posto ideale, e, alla fine, loro lo trovarono. Scoprirono un luogo verde e fertile nelle colline della Sierra Moreno, con tutta l’acqua che potessero desiderare, riparato dai venti del nord ma, al tempo stesso, tanto sopraelevato da far sì che si vedesse chiunque si avvicinava. Da lassù, infatti, si poteva ammirare tutta la valle del Guadalquivir, fino a Cordova e oltre».

    «Il califfo gli diede il nome della sua concubina preferita, non è così?» chiese Ahmed con un sorrisetto, spronandolo ad arrivare subito ai dettagli più interessanti.

    «La sua concubina preferita si chiamava certamente al-Zahra, e lui le elargiva ogni tipo di lusso possibile. Ma sapete cos’altro significa questo nome? »

    Guardò i ragazzi, che agitarono le mani.

    «Significa splendente, scintillante, brillante. Forse la sua concubina luccicava e risplendeva della luce di tutti i gioielli e delle sete preziose che indossava, ma lo stesso si poteva dire della città. La chiamavano, infatti, la Città Splendente. Quando i visitatori entravano dal Grande Portico, passando sotto i suoi enormi archi rossi e bianchi; quando risalivano le sue strade ripide, lastricate con blocchi di pietra scura di montagna, passando attraverso le fila di guardie in uniforme, con le loro giacche scarlatte, e i funzionari pubblici riccamente agghindati, che fiancheggiavano il loro percorso; quando raggiungevano la residenza reale e scorgevano gli intarsi d’oro sui soffitti, i pilastri di marmo, i tappeti sontuosamente intessuti sparsi sui pavimenti e i lucenti arazzi di seta; quando poi vedevano la vasca di mercurio danzante nel grande padiglione di ricevimento, che catturava i raggi del sole e abbagliava tutti coloro che l’ammiravano, allora sapevano che erano davvero nella Città Splendente».

    Era un vero peccato che suo nipote non avesse visto Madinat al-Zahra, e che probabilmente non avrebbe mai potuto farlo. Presto quel posto si sarebbe ridotto come se la città non fosse mai esistita, coi suoi blocchi che tornavano alla pietra grezza da cui erano stati creati.

    «Ma si dice che lui amasse la sua concubina più di chiunque altro» disse Musa.

    «Forse. Nessuno può sapere cosa ci sia nel cuore di un uomo, tantomeno in quello di un califfo».

    «Dicono che fosse la donna più bella del suo harem».

    «Era certamente molto avvenente» rispose Omar, «ma non la più bella. C’era un’altra donna più bella di lei, più bella di tutte le sue mogli e concubine».

    «Chi era? Qual era il suo nome?» chiese Ahmed.

    «Jawhara» sussurrò lui.

    Poteva ancora sentire una fitta di dolore ogni volta che pronunciava il suo nome. I due ragazzi erano in attesa, con gli occhi già spalancati, ma Omar non disse altro.

    «L’hai mai visto? Hai mai visto il Khalifa

    «Sì, una volta».

    «Com’era? Era grande e forte?»

    «Era un po’ robusto, a dire il vero».

    Poteva leggere chiaramente la delusione nei loro occhi.

    «Ma era un uomo di bell’aspetto» aggiunse, «con la pelle bianca e gli occhi blu».

    «Pelle bianca? Non era arabo?»

    «Certo che lo era. Chi altri potrebbe diventare califfo, se non un arabo? Ma sua madre veniva dal nord. Era stata rapita da una delle famiglie al potere durante la guerra per diventare schiava e concubina di suo padre. Abd al-Rahman ereditò la pelle e i capelli chiari da lei».

    «Ho sentito dire che si tingeva la barba» disse Ahmed.

    «Sì, credo che lo facesse. Voleva assomigliare di più ai suoi sudditi».

    I due giovani annuirono giudiziosamente. Omar represse un sorriso.

    «Parlaci ancora dell’harem» insistette Musa.

    «Cosa posso dirti? C’erano centinaia di belle donne, abili in tutte le arti dell’amore e della musica. Conoscevano mille e uno modi per compiacere il loro signore e padrone».

    «Il califfo?»

    «Naturalmente. E chi altri, sennò? Ogni donna che entrava nell’harem del califfo apparteneva a lui e a nessun altro».

    Mentre pronunciava quelle parole, poteva sentire l’amarezza che si insinuava nella sua voce.

    «Erano schiave?»

    «In verità, lo erano. Se anche una di loro avesse voluto lasciare l’harem, non avrebbe mai potuto farlo. Il califfo non l’avrebbe permesso».

    Prima che i ragazzi potessero ricominciare a inondarlo di domande, disse loro «Ecco qui, mangiate i vostri churros. Poi credo che dovreste andare. Non c’è la scuola oggi?»

    Vide che Musa arrossì. Suo nipote era un bravo ragazzo, non sapeva dire neanche una bugia preparata.

    «Adesso ce ne andiamo, zio. Forza, Ahmed».

    I ragazzi presero i churros, li intinsero nel miele e se li cacciarono frettolosamente in bocca.

    «Maʿa as-salama, zio» disse Musa, con un rivolo di miele che colava sul mento.

    «Ci vediamo».

    «Arrivederci, Hajj» aggiunse Ahmed, divorando in fretta l’ultimo pezzo di churros e seguendo l’amico.

    Omar osservò i ragazzi mentre trottavano giù per la strada. Se si fossero affrettati, avrebbero fatto in tempo per la prima lezione della giornata. Avrebbe voluto chiedergli cosa gli stavano insegnando in quei giorni. Ai tempi in cui lui era stato a scuola, il programma era molto rigoroso: lettura, scrittura, geometria, aritmetica, il Corano e i detti degli hadith. Tutto in arabo, ovviamente, anche se non molti lo parlavano per le strade, a quei tempi. La gente manteneva vivo l’uso di parlare una varietà della lingua locale con gli amici e i familiari, ed era normale, allora. Fece segno al cameriere di avvicinarsi e gli pagò il tè coi churros. Era il momento di fare un po’ di esercizio. Il dottore gli aveva raccomandato di camminare ogni giorno, anche se il suo ginocchio lo faceva penare. Avrebbe passeggiato lungo il vecchio ponte romano e avrebbe controllato se quel giorno c’erano pesci nel fiume. Era il suo percorso preferito in quel periodo, perché poteva fermarsi a metà strada e voltarsi indietro ad ammirare la città di Cordova, con la splendida moschea che svettava all’orizzonte. Quell’antica città era di nuovo il centro del potere, dopo che la sua amata Madinat al-Zahra era stata abbandonata e dimenticata, da quando il piccolo Hisham II aveva ereditato il trono. Ora il califfo-bambino era stato emarginato a Madinat al-Zahra, in solitudine, a condurre una vita da recluso, con la sua città che gli si sgretolava intorno.

    Non appena si alzò, un dolore acuto lo colpì al ginocchio e su fino alla coscia. Afferrò il bastone di ebano che ultimamente portava sempre con sé, e lo usò per trascinarsi avanti. Un’ondata di nostalgia per la sua vecchia casa gli investì il petto. Erano passati anni da quando aveva visitato Madinat al-Zahra l’ultima volta, eppure non passava giorno senza che lui ne sognasse palazzi meravigliosi ed i giardini profumati. Quando chiudeva gli occhi, riusciva a udire lo zampillare delle fonti che alimentavano i laghi quieti, e poteva sentire ancora il profumo dei fiori d’arancio che crescevano appena fuori dalla sua casa. Ma sapeva che non avrebbe mai potuto farvi ritorno, il dolore sarebbe stato troppo grande. La città si trovava ad appena poche miglia arabe ad ovest di Cordova, ma, per quel che lo riguardava, avrebbe potuto trovarsi anche nella lontana Arabia.

    Sì, c’erano davvero tante storie che avrebbe potuto raccontare a Musa sui suoi giorni a Madinat al-Zahra.

    QUARANT’ANNI PRIMA

    947 d.C.

    CAPITOLO 1

    UN VILLAGGIO REMOTO NELL’EUROPA DEL NORD

    Le urla la svegliarono. Dapprima Isolde credette che si trattasse ancora di un sogno, ma poi udì distintamente le grida assordanti e lo schianto fragoroso della porta della loro capanna che veniva sfondata a calci. La sagoma mostruosa di un uomo colmò l’ingresso. L’ascia luccicava minacciosa nella sua mano, con la lama affilata che risplendeva della luce rossa della casa dei vicini in fiamme. Isolde si allungò d’istinto sui fratellini, che erano rannicchiati al suo fianco. Anche loro avevano sentito quel chiasso e avevano preso a mugolare sommessamente, ancora in dormiveglia. Hans, il maggiore dei due, si mise a sedere sul letto, strofinandosi gli occhi. L’uomo gridò ancora, intimandogli di andare via, ma Isolde non riusciva a muoversi. Era paralizzata dalla paura, quando sua madre saltò sul letto, del tutto vigile, urlando. Si gettò sull’uomo, battendo i pugni sul suo petto. Nessuno avrebbe fatto del male alla sua famiglia. Chissà che cosa pensava di poter fare per fermare quel mostro, chi può dirlo, ma era pronta a morire per difendere i suoi bambini. Ed è esattamente ciò che fece. Isolde guardò la scena, pietrificata, mentre l’intruso afferrava sua madre come se pesasse non più del sacco di paglia che usava come cuscino, e la scagliava con violenza contro il muro. Le suppliche della madre morirono nella sua gola, mentre scivolava piano sul terreno, con un flebile gemito.

    L’uomo entrò a grandi passi nella stanza, rovesciando la stufa e prendendo a calci gli animali che ostacolavano il suo passaggio. Di nuovo le ordinò di scappare. Isolde corse verso la madre, che ora giaceva inerme, col sangue che le scendeva copioso giù dal viso, fino a impregnare il pavimento della loro casa. Voleva aiutarla, ma non sapeva come. Provò a scrollarla con dolcezza.

    «Mamma» pianse. «Mamma, svegliati».

    Non ci fu alcuna risposta, non un piccolo movimento. Fissava sua figlia con occhi spenti.

    «Mamma».

    Isolde la scosse ancora, stavolta più forte. Nulla. Non si muoveva più.

    «Mamma» pianse ancora, e ancora, ma sua madre non poteva più sentirla.

    Intanto i suoi fratellini si erano svegliati e piangevano. Se ne stavano entrambi raggomitolati in un angolo, gli occhi terrorizzati puntati su di lei.

    «Isolde, che sta succedendo?» chiese il più piccolo. «Chi è quell’uomo? Cos’ha la mamma?»

    «Va tutto bene, va tutto bene. Sono qui» tentò di rassicurarli.

    «Fuori!» disse ancora l’uomo, stavolta più forte, avanzando verso di loro.

    Ora Isolde sapeva chi era costui. Era un vichingo, uno straniero che veniva da oltremare. Prese a tremare. Tutti loro avevano sentito parlare dei vichinghi, la loro infamia li precedeva. Erano crudeli, degli uomini duri che si prendevano tutto ciò che volevano, uccidendo chiunque si mettesse in mezzo. L’uomo sollevò l’ascia sopra la testa e ruggì ancora «Fuori!»

    Isolde tentò di muoversi, ma non riusciva a smettere di tremare. Ciò significava solo una cosa: come sua madre, anche loro stavano per morire. Con un ultimo sforzo, riuscì a riprendere il controllo delle sue gambe traballanti e si mise in piedi, cercando di afferrare i suoi fratelli.

    «Forza bambini, prendete la mia mano» disse.

    ––––––––

    Doveva rimanere lucida per metterli in salvo. Li condusse fuori, nel cortile, e si bloccò in preda al terrore di fronte alla scena che si trovò davanti. Era semplicemente un incubo, come se lo stesso dio della guerra si stesse scagliando su di loro. Le case di legno erano in fiamme, coi tetti di paglia che ardevano come falò, illuminando il cielo a giorno. I suoi amici e vicini di casa erano stati ammassati come pecore nella piazza del villaggio. Una donna se ne stava seduta a terra, cullando tra le braccia un bambino morto, al suono del suo lamento inconsolabile. Che razza di uomini erano quelli che uccidevano un bambino innocente? si chiese tra sé e sé.

    L’aria della notte, di solito abitata da nient’altro che il rumore di un barbagianni, o l’ululato occasionale di un lupo, era ora carica di grida di dolore ed angoscia, e dei gemiti delle donne in preda allo sconforto, tanto forti da soffocare persino gli strilli e i grugniti dei maiali che si spargevano ovunque, terrorizzati, cercando disperatamente una via di fuga. L’asino dei suoi vicini, quello a cui dava un boccone ogni mattina, prese a calci la porta della stalla, ragliando in preda all’orrore, mentre i polli correvano selvaggiamente intorno al cortile, cercando di schivare le asce dei vichinghi. Uomini e animali erano terrificati.

    Isolde inciampò, ansimando. Ora l’aria era densa di fumo nero. Cercò di aggrapparsi ai suoi fratelli, ma uno dei vichinghi glieli strappò via. Loro lottarono, nel tentativo disperato di liberarsi, lanciando calci nel vuoto e gridando, ma lui gli strinse una corda intorno alla vita e li legò insieme agli altri bambini.

    «Isolde, non lasciare che ci prenda!» la implorò il fratello più piccolo, in lacrime. «Non lasciarci! Non lasciarci!»

    «Che ne facciamo di questa qui?» chiese il vichingo, indicando Isolde.

    ––––––––

    Il capo della banda di invasori, un grosso bruto dalla lunga barba fulva, la attirò a sé e le puntò la torcia accesa in faccia, mentre la studiava. Indossava un mantello di pelliccia intorno alle spalle, e lei poteva sentire l’odore di putrido delle pelli. Voltò la testa dall’altra parte, disgustata, cercando di sottrarsi alla sua presa. Doveva essere un uomo di una certa importanza, perché il mantello era fermato da un’enorme doppia fibbia d’oro intrecciato, e l’elmo che portava sul capo era decorato da figure dorate. Era un uomo ricco e potente, ma anche crudele.

    Isolde poteva sentire le sue ginocchia che cedevano. Pensò che avrebbe perso i sensi per la paura. L’uomo continuò ad esaminarla per un momento, girando il suo viso da un lato e dall’altro.

    «Hmm, lei può andare. Mettetela insieme alle altre donne, per adesso. Penso che ci pagheranno bene per questa, quindi non alzate un solo dito su di lei. Non voglio vedere neanche una cicatrice su quel bel viso. E tenete gli altri uomini lontano, è un ordine! Non voglio che la deflorino. Le vergini hanno un prezzo più alto, e questa è destinata a un re».

    Uno dei vichinghi l’afferrò per un braccio e la spinse verso il gruppo di donne in lacrime. Lei cadde a terra, accanto a loro. Cosa significava che era destinata ad un re? Cosa ne sarebbe stato di lei? Cosa ne sarebbe stato di tutti loro? Si guardò intorno: era impossibile tentare la fuga. Non c’era alcun modo di sfuggire a quegli uomini. Loro non erano che qualche dozzina di donne e un paio di bambini, non avrebbero mai potuto farcela da soli. Ma allora chi avrebbe potuto salvarli dai vichinghi? Suo padre e gli altri uomini erano lontani, in mezzo alle foreste della Sassonia, a pescare nei laghi, e non avrebbero fatto ritorno prima di altri due giorni, mentre il villaggio più vicino era a non meno di un’ora di cammino. In realtà conosceva già la risposta: nessuno li avrebbe aiutati.

    I suoi pensieri andarono a suo padre e ai suoi zii. Avrebbero capito cos’era successo alle loro famiglie? Avrebbero compreso dov’erano finiti tutti i loro cari? Cosa avrebbero fatto? Sarebbero venuti a cercarli? Era certa che suo padre avrebbe tentato di trovarli, ma forse sarebbe stato troppo tardi, al suo ritorno al villaggio avrebbero potuto essere già tutti morti. Al ricordo di sua madre che giaceva a terra nella loro capanna, dei suoi occhi aperti a fissare il vuoto, Isolde iniziò a singhiozzare e, una volta che ebbe cominciato, non riuscì più a smettere. Le lacrime continuavano a scendere copiose lungo le guance, inzuppandole la veste.

    «Non riuscite a farle tacere?» disse uno degli uomini. «Fatele uscire da qui e portatele giù alle navi!»

    Mentre alcuni dei vichinghi saccheggiavano il villaggio, sgraffignando cibo e oggetti di valore, gli altri trascinarono gli schiavi verso il fiume. Due navi vichinghe erano ormeggiate lungo la riva, con le prue di legno di quercia che si stagliavano alte contro il cielo, tinto di rosso dalle fiamme del villaggio. Isolde non riusciva a credere che quelle navi enormi, lunghe e slanciate come gli alberi più alti della foresta, fossero riuscite a risalire il fiume fin lì. Gli invasori avevano remato controcorrente nel cuore della notte senza che un’anima li notasse, e persino i cani, che di solito li avvisavano dell’arrivo di qualsiasi estraneo, erano stati colti di sorpresa.

    I vichinghi separarono i loro prigionieri, facendo salire le donne a bordo di una nave e i bambini sull’altra.

    «State giù, in silenzio!» ruggì l’uomo con la barba rossa.

    Li guardò torvo. Nonostante la paura che l’attanagliava, Isolde sapeva di dover guardare il suo villaggio un’ultima volta. Si voltò indietro, nella direzione da cui era venuta, era facile da individuare. Oltre gli alberi, le fiamme avevano tramutato la notte in giorno. Il suo villaggio ardeva mandando al cielo una nuvola di fumo nero, acre, che aveva oscurato le stelle. Isolde iniziò a singhiozzare incontrollabilmente. Quella era stata la sua casa per tutta la vita e adesso non c’era più, ma, quel che era peggio, sua madre era lì, e il suo corpo stava bruciando insieme a tutto il resto. Perché gli dei avevano lasciato che quella disgrazia li colpisse? Era tutto troppo doloroso da accettare, e lei voleva solo svegliarsi per realizzare che era stato un brutto incubo. Voleva accoccolarsi accanto alla sua mamma e sentirsi dire da lei che ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto, che quando il sole sarebbe sorto avrebbe riso delle paure della notte. Ma quello non era un sogno.

    Guardò i fratelli, rannicchiati insieme sulla prua della nave accanto, le facce annerite dal fumo. Cosa gli sarebbe capitato? Li avrebbe mai più rivisti? E cosa sarebbe accaduto a lei? Quelle domande senza risposta continuavano ad agitarsi nella sua testa, facendole venire le vertigini per la paura.

    Anche il resto dei vichinghi fece ritorno alle navi, apparentemente soddisfatti del bottino che avevano racimolato. Ammassarono gli animali che erano riusciti a radunare sulla nave coi bambini, sghignazzando e scherzando tra loro. Uno stava rosicchiando un osso di prosciutto che aveva rubato; un altro mangiucchiava un tozzo di pane. Sembravano così rilassati e appagati. Li odiava, tutti loro. In silenzio, pregò gli dei di fulminarli. Ma gli dei non prestavano ascolto alla sua voce flebile, quella notte. Nessun fulmine si abbatté sulle loro navi vichinghe; nessuna onda gigante risalì il fiume per rovesciarle; nessuna piaga di insetti li rincorse fin dentro la foresta. Nulla accadde per salvare le donne e i bambini. Erano condannati ad andare ovunque il destino li avrebbe mandati. Col cuore colmo di disperazione, guardava mentre ogni uomo prendeva posizione sugli scalmi e le navi vichinghe salpavano, discendendo il fiume verso il mare.

    ***

    Non ricordava molto del viaggio, ad eccezione del fatto che era stato lungo, freddo e duro. Non c’era alcun riparo su quelle imbarcazioni. Erano navi da guerra, appositamente costruite per muoversi rapidamente, e non erano altro che conchiglie di legno con remi per tutta la loro lunghezza. I prigionieri non avevano alcun posto per potersi riparare dalle intemperie. Si era rannicchiata a prua, insieme alle altre donne, che conosceva da tutta una vita. Ora il loro chiacchiericcio si era placato, e sedevano in silenzio, con le teste basse, strette nelle loro spalle, come se potessero farsi più piccole e passare così inosservate. Nessuna aveva la forza di parlare. Prima le avevano chiesto di sua madre, ma non aveva potuto rispondere. Le lacrime avevano iniziato a sgorgare di nuovo, chiudendole la gola e riempiendole gli occhi. Sua madre era morta, ne era certa, non sarebbe mai potuta sopravvivere a quell’esplosione. E cosa sarebbe accaduto a suo padre e agli altri uomini? Avrebbero fatto ritorno, prima o poi. Qualcuno dei vichinghi era rimasto indietro? Avrebbero aspettato anche loro per tendergli una trappola? Espresse le sue paure a una donna più anziana, che faceva da levatrice quando nel villaggio arrivava un bambino.

    «No, i vichinghi saranno già lontani. Ci hanno attaccati solo perché i nostri uomini non erano intorno. Dei codardi, ecco cosa sono, interessati solo a donne e bambini».

    «Ma perché? Cosa se ne fanno di noi? Hanno preso i nostri soldi, il nostro cibo, persino i nostri animali. Perché vogliono anche noi?»

    «Come, non sai chi sono?» chiese la madre di un bambino che giocava sempre insieme ai fratelli di Isolde. Continuava a fissarla, attonita.

    «Quelli sono schiavisti. Invadono i villaggi e catturano i loro abitanti per venderli come schiavi. Valiamo più del cibo o del denaro, per loro. Ci porteranno al mercato di schiavi dell’Iberia per venderci al miglior offerente. La nostra vita è finita per sempre».

    «È come se fossimo già morte» aggiunse un’altra donna.

    Quindi stava per essere venduta come schiava, tutte loro stavano per essere vendute. Ecco che cosa aveva voluto dire il capo dei vichinghi, aveva analizzato il suo viso a aveva deciso che lei sarebbe valsa un prezzo più alto delle altre. Buon per lui, ma cosa significava per Isolde? Il suo cuore batteva all’impazzata nel petto al pensiero di cosa avrebbe potuto riservarle il futuro. Qualsiasi cosa fosse, non sarebbe stato nulla di buono, solo di questo era certa. La sua vita stava per cambiare per sempre, e solo il tempo sarebbe stato in grado di dire se avrebbe avuto la forza o la fortuna di sopravvivere. Tutto ciò che poteva fare era riporre la sua fiducia negli dei. Ma prima di tutto doveva attraversare il mare. Alzò gli occhi verso le testa di drago scolpita sulla prua della nave: guardava dritto davanti a sé, nelle fosche tenebre, verso pericoli ignoti, che lei sperava di non dover mai conoscere.

    ***

    Non aveva mai visto il mare prima di allora, e aveva così tanta paura da riuscire a respirare a stento. La foresta e le montagne del suo paese svanivano gradualmente nella foschia, e tutto ciò che restava erano il cielo e il mare. Ovunque guardasse c’era solo acqua, una distesa di acqua ghiacciata grigio olivastra, che si estendeva a perdita d’occhio.

    Quando si allontanarono dal riparo della costa, il mare prese a farsi più aspro, con le onde che torreggiavano sopra di loro, sferzando furiosamente le navi. Persino gli strilli dei gabbiani che turbinavano sopra di loro si affievolirono mentre gli uccelli tornavano indietro, verso acque più tranquille. La sua paura divenne un fattore secondario, ora stava troppo male per avere paura. Ogni volta che tentava un movimento, il suo stomaco si rivoltava, la testa girava, e lei aveva dei conati violenti.

    Si rannicchiò nella prua della nave, troppo terrorizzata per muoversi, così fredda e umida che si augurò di morire. Il vento che soffiava da nord non le lasciava un momento di tregua, tagliando le vesti sottili e trasformando le sue ossa in ghiaccio. La sua camicia da notte era fradicia e aderiva al corpo come una seconda pelle, mentre il viso e i capelli erano incrostati di sale. Nessuna delle donne piangeva più, troppo esauste per lacrimare. Cercò di alzarsi per vedere se riusciva a individuare l’altra nave vichinga, ma il vento la respinse indietro, togliendole il fiato dal petto. Non c’era alcun segno dell’altra, le due navi vichinghe avevano preso rotte diverse, e ora temeva per i suoi fratelli. Come avrebbero fatto a sopravvivere senza di lei? Erano così piccoli che le onde avrebbero potuto portarseli via con facilità. In quel momento un enorme cavallone sollevò la nave dall’acqua e per un istante Isolde poté intravedere la seconda nave, poi scomparve di nuovo, nascosta dall’infrangersi delle onde. Le lacrime rigarono le sue guance umide. Tutti loro sarebbero morti, era impossibile che le fragili imbarcazioni sostenessero quegli impatti ancora a lungo. Non c’era alcun modo di sopravvivere. Di nuovo, un’onda sollevò la nave sopra l’acqua, e stavolta era certa che si sarebbero ribaltati. Il suo stomaco ebbe altri conati, come se volesse uscire fuori dal corpo. Forse il dio del mare l’avrebbe accontentata, forse stava per annegarli tutti, alla fine. Mentre lo pregava in silenzio, si disse che la morte sarebbe stata un destino migliore di una vita di schiavitù. Ma la nave poi s’inclinò, riconquistando il suo equilibrio, e continuò a fendere le onde.

    I loro rapitori gli offrirono cibo e dell’acqua da bere, ma lei non era in vena. Provò a bere un sorso, ma non riuscì a mangiare, il solo pensiero del cibo le faceva venire voglia di vomitare. In ogni caso, si chiese perché avrebbe dovuto nutrirsi. Non voleva più vivere, anzi, sperava di morire in fretta. Le altre donne avevano dipinto un quadro sinistro della vita di una schiava. Donne e giovani non dovevano aspettarsi alcun tipo di clemenza dai loro padroni, dicevano, perché trattavano persino gli animali meglio dei i loro schiavi. Se la vita che l’aspettava era l’inferno in terra, meglio morire adesso, lì, su quella nave odiosa.

    Ma Isolde non morì, lei sopravvisse. Navigarono per cinque giorni e cinque notti. La nave continuò a fare rotta verso sud e presto il tempo divenne più calmo e mite. I gabbiani vennero fuori a salutarli, e si potevano vedere pesci enormi nuotare accanto a loro, finché non approdarono su una spiaggia rocciosa.

    CAPITOLO 2

    MADINAT AL-ZAHRA

    Qasim si svegliò ancor prima che il gallo cantasse,

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