Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Kim
Kim
Kim
E-book410 pagine6 ore

Kim

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Tra le strade dell'India, alla fine dell'Ottocento, si aggira un bambino tredicenne, Kimball O'Hara, figlio di un irlandese e di un'inglese. Rimasto orfano piccolissimo, Kim—così viene soprannominato—vive di espedienti e piccoli lavoretti. Kim non si sente né un indiano né un europeo ma piuttosto un cittadino dell'impero britannico. La vita del ragazzo cambia radicalmente quando incontra un monaco buddhista con cui parte alla ricerca del leggendario Fiume della Francia. Oltre a vivere un vero e proprio risveglio spirituale, Kim entra in contatto con il "Grande gioco", un sistema diplomatico-spionistico realmente creato tra Inghilterra, Russia e India. Grazia alla sua conoscenza della cultura sia europea che indiana, Kim entrerà a far parte di questa rete internazionale, e la sua esistenza non sarà più la stessa.A più di cento anni dalla sua pubblicazione, "Kim" è uno dei capolavori del del premio Nobel Kipling.-
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2022
ISBN9788726864786
Autore

Rudyard Kipling

Rudyard Kipling was born in India in 1865. After intermittently moving between India and England during his early life, he settled in the latter in 1889, published his novel The Light That Failed in 1891 and married Caroline (Carrie) Balestier the following year. They returned to her home in Brattleboro, Vermont, where Kipling wrote both The Jungle Book and its sequel, as well as Captains Courageous. He continued to write prolifically and was the first Englishman to receive the Nobel Prize for Literature in 1907 but his later years were darkened by the death of his son John at the Battle of Loos in 1915. He died in 1936.

Autori correlati

Correlato a Kim

Ebook correlati

Gialli per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Kim

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Kim - Rudyard Kipling

    Kim

    Translated by Kim

    Original title: Gian Dàuli

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1954, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788726864786

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Capitolo I.

    Oh voi che percorrete l’Augusto Sentiero

    Lungo i margini dell’inferno

    sino al giorno del Giudizio,

    Siate buoni con gl’infedeli che pregano

    Budda a Kamakura!

    Egli sedeva a dispetto de regolamenti municipali, a cavalcioni del cannone Zam-Zammah, piazzato, su una sua piattaforma di mattoni, di fronte al vecchio Ajaib-Gher, la Casa delle Meraviglie, come gli indigeni chiamano il Museo di Lahore. Chi tiene Zam-Zammah, il « dragone dall’alito di fuoco », tiene il Pungiab; perchè quel gran pezzo di bronzo verdastro è sempre il primo bottino del conquistatore.

    Kim aveva qualche attenuante — aveva cacciato a pedate dall’affusto il ragazzo di Lala Dinanath — poichè gl’inglesi occupavano il Pungiab e Kim era inglese. Ancorché fosse abbronzato quanto un indigeno, parlasse a preferenza il dialetto del paese e la sua lingua madre in una incerta cantilena, ancorché trattasse come sudi eguali i ragazzetti del bazar, Kim era un bianco, e dei più poveri fra i bianchi. La meticcia che lo curava (fumava l’oppio e pretendeva di vivere con una botteguccia di mobili usati nella piazza dove stazionavano le vetture da nolo a buon mercato) raccontava ai missionari che era una sorella della madre di Kim; ma la madre del ragazzo era stata una bambinaia della famiglia di un colonnello, ed aveva sposato Kimball O’ Hara, giovane sergente porta-bandiera dei Mavericks, un reggimento irlandese. In seguito il marito s’era impiegato sulla ferrovia Sind-Pungiab-Delhi, e il suo reggimento era tornato in patria senza di lui. La moglie era morta di colera a Ferozepore e il povero O’ Hara s’era dato a bere e a vagabondare su è giù per la linea ferroviaria con quel suo bimbetto di tre anni dagli occhi vivaci. Società di beneficenza e cappellani inquieti per la sorte del bimbo avevano cercato di prenderglielo, ma O’ Hara era riuscito a salvarsi e alla fine s’era incontrato con la donna che prendeva l’oppio ed aveva imparato da lei a gustarlo e poi era morto come muoiono in India i bianchi poveri. Alla sua morte tutto il suo avere consisteva in tre carte: sulla prima, che egli chiamava il suo «ne varietur », erano scritte queste parole, con sotto la sua firma; e la seconda era il suo « certificato di congedo »; la terza l’atto di nascita di Kim. Queste cose, soleva dire nelle sue estasi d’oppio, avrebbero fatto, alla fine, del piccolo Kimball un uomo. Per nessuna ragione Kim doveva separarsi da esse, perchè facevano parte di una grande magia — di quella specie di magia praticata laggiù dietro il Museo, nella grande Jadoo-Gher azzurra e bianca, la Casa Magica, come noi chiamiamo la Loggia Massonica. Tutto sarebbe andato bene un giorno, così egli diceva, e il corno di Kim, simbolo di forza e di gloria, sarebbe stato esaltato fra le colonne, colonne straordinarie di forza e di bellezza. Il colonnello stesso, cavalcando alla testa del più bel reggimento del mondo, sarebbe venuto a prendersi cura di Kim, il piccolo Kim che avrebbe dovuto avere una vita migliore di suo padre. Novecento diavoli di primo ordine, il cui Dio era un Toro Rosso in campo verde, si sarebbero presi cura di Kim se non avevano dimenticato O’ Hara, il povero O’ Hara che era stato capotreno sulla ferrovia di Ferozepore. Poi soleva piangere amaramente, sulla sua logora poltrona di vimini nella veranda. Così avvenne che dopo la morte di lui la meticcia cucì il « ne varietur », il congedo e l’atto di nascita in una piccola busta di pelle a forma di amuleto e l’appese al collo di Kim.

    — Un giorno — ella gli disse ricordando confusamente le profezie di O’ Hara — verrà a cercarti un gran Toro Rosso su un prato verde e il Colonnello sul suo alto cavallo, e — concluse in inglese — novecento diavoli.

    — Ah! — disse Kim. — Me ne ricorderò. Verranno un Toro Rosso e un Colonnello a cavallo; ma prima, mio padre diceva, dovranno venire due uomini a preparare il terreno per queste due cose. Si è sempre fatto così, diceva mio padre, e si fa sempre così nelle operazioni di magìa.

    Se la donna avesse mandato Kim con le sue carte alla Jadoo-Gher locale, egli sarebbe stato preso senza dubbio dalla Loggia Provinciale e mandato all’Orfanotrofio massonico sulle colline; ma essa diffidava di tutto quello che aveva sentito dire sulla magìa. Kim, poi, aveva anche lui le sue opinioni. Quando fu all’età dell’indiscrezione, imparò ad evitare i missionari e gli uomini bianchi dall’aspetto grave, che gli domandavano chi era e cosa faceva. Poi Kim riusciva a far nulla con pieno successo. Veramente, egli conosceva la magnifica città di Lahore, cinta di mura, dalla porta di Delhi alla Fossa del Forte fuori mano; trattava a tu per tu con uomini che vivevano una vita anche più strana di quelle sognate da Haroun al Raschid; ed egli stesso menava una vita selvaggia come quella delle Mille e una Notte; ma la cui bellezza non poteva essere confusa nè da missionari nè da segretari di associazioni filantropiche. Il suo soprannome era « Piccolo Amico di tutto il Mondo » e molto spesso, essendo agile e smilzo e sapendo scivolare inosservato fra la gente, portava messaggi sulle altane gremite per i giovanotti della città. Si trattava di intrighi, naturalmente, — questo lo sapeva, perchè aveva imparato ogni specie di male da quando aveva incominciato a parlare — ma ciò che egli amava era l’avventura in sè: il furtivo correre per viottoli e passaggi oscuri, l’arrampicarsi per le grondaie, il vedere e l’ascoltare il mondo delle donne sulle altane e la precipitosa fuga di tetto in tetto, nella tenebra calda. C’erano gli uomini santi, i fachiri impiastricciati di cenere, presso i loro tabernacoli di mattoni, sotto gli alberi sulla sponda del fiume, che tornavano dalla questua e se non c’era alcuno intorno, mangiava nel loro stesso piatto. La donna che lo custodiva insisteva con le lagrime agli occhi perchè Kim si vestisse all’europea; con camicia, calzoni e il cappello a larga tesa. Ma Kim trovava più comodo indossare panni indù o musulmani quando doveva sbrigare certi affari. Uno dei giovanotti mondani, quello che fu trovato morto in fondo a un pozzo la notte del terremoto. Gli aveva regalato una volta un completo costume indù, costume da monello di bassa condizione, e Kim l’aveva nascosto, sotto certe travi, a Nila Ram, al di là dell’alta Corte di Pungiab, dove i fragranti tronchi di deodara, il cedro dell’Imalaia, sono accatastati per stagionare, dopo essere scesi giù per le acque del Ravee. Quando c’erano affari da sbrigare o qualche festa, Kim indossava i suoi vestiti, e tornava all’alba alla veranda, tutto stanco per essere corso dietro a un corteo di nozze, o per aver gridato o schiamazzato in una festa di indù Qualche volta c’era da mangiare in casa; più spesso non ce n’era, e allora Kim andava a sfamarsi con i suoi amici indigeni.

    Mentr’egli tamburellava coi calcagni sui fianchi di Zam-Zammah, interrompeva ogni tanto il suo giuoco di Re del Castello col piccolo Chota Lal e Abdullah, il figlio del venditore di dolciumi, per rivolgere qualche insolente osservazione al poliziotto indigeno di guardia ad una lunga fila di scarpe alla porta del Museo. Il grosso pungiabi sorrideva indulgente; egli conosceva Kim da molto tempo. Lo stesso faceva il portatore d’acqua, facendo sgocciare acqua sulla strada arida, dal suo otre di pelle di capra. Lo stesso faceva Jawahir Singh, il falegname del Museo, curvo sulle sue nuove casse d’imballaggio. Così facevano tutti lì intorno, tranne i paesani che s’affrettavano alla Casa delle Meraviglie per vedere le cose che si fabbricavano nella loro provincia o altrove. Il Museo era dedicato alle arti e alle industrie indiane, e chiunque desiderasse imparare poteva chiedere spiegazioni al sovraintendente.

    — Via! Via! Lasciami salire! — gridò Abdullah, arrampicandosi sulla ruota di Zam-Zammah.

    — Tuo padre era un pasticciere; tua madre rubava il ghi, il burro di latte di bufala — cantò Kim. — Già da molto tempo tutti i musulmani sono caduti giù da Zam-Zammah.

    — Lascia salire me! — gridava il piccolo Chota Lal, col suo bel turbante in testa ricamato d’oro. Suo padre possedeva forse mezzo milione di sterline; ma l’India è l’unico paese democratico del mondo.

    — Anche gli Indù sono caduti giù da Zam-Zammah. I musulmani li cacciarono via. Tuo padre era un pasticciere…

    S’interruppe, perchè era sbucato fuori da un angolo dell’affollato Bazar Motee un uomo, quale Kim, che pur credeva di conoscere tutte le caste, non aveva mai veduto. Era alto quasi sei piedi, vestito di una logora stoffa, a pezzi su pezzi, simile a quella delle coperte dei cavalli, ma Kim non riusciva a capire dalla foggia di quell’abbigliamento a quale commercio o professione potesse appartenere quell’uomo. Dalla cintura gli pendevano un astuccio di ferro contenente il necessario per scrivere e un rosario di legno di quelli che usano portare gli uomini santi. Sulla testa aveva uno strano cappello gigantesco La sua faccia era gialla e rugosa come quella di Fook Shing, il calzolaio cinese del bazar I suoi occhi avevano gli angoli volti in su e splendevano come pezzettini di onice.

    — Chi è quello là? — domandò Kim ai suoi compagni.

    — Forse è un uomo — rispose Abdullah, col dito in bocca guardando incantato.

    — Senza dubbio — rispose Kim — ma non è un uomo dell’India che io abbia mai visto.

    — Forse è un prete — disse Chota Lal, guardando il rosario. — Vedi? Entra nella Casa delle Meraviglie.

    — No, no! — disse il poliziotto scotendo la testa — io non capisco il vostro linguaggio. — La guardia parlava pungiabi, il dialetto del luogo. — O tu, Piccolo amico di Tutto il Mondo, che cosa dice quest’uomo?

    — Mandalo qui — rispose Kim, saltando giù dal Zam-Zammah. — Egli è uno straniero e tu sei un bufalo.

    L’uomo si voltò smarrito e si diresse verso i ragazzi. Era vecchio, e la sua palandrana di lana esalava il cattivo odore dell’artemisia dei valichi delle montagne.

    — Oh! ragazzi, che cos’è questo gran palazzo? — domandò egli in buon urdù, la lingua dei musulmani istruiti.

    — L’Ajaib-Gher, la Casa delle Meraviglie, — rispose Kim senza dargli alcun titolo, come Lala o Mian. Non riusciva a indovinare la religione di quell’uomo — Ah! la Casa delle Meraviglie! Si può entrare?

    — C’è scritto sulla porta… Tutti possono entrare.

    — Senza pagare?

    — Io entro ed esco. Io non sono un banchiere — disse Kim, ridendo.

    — Ahimè! Io sono vecchio. Non so queste cose! — Prese il rosario tra le dita e si volse verso il Museo.

    — Che casta è la vostra? Dov’è la vostra casa? Venite di lontano? — domandò Kim.

    — Vengo da Kulu, molto al di là del Kailas… Ma che cosa ne sapete voi? Dalle montagne — ed egli sospirò — dove l’aria e l’acqua sono fresche.

    — Oh, è un Khitai (cinese)! — disse Abdullah, orgoglioso — Fook Shing, una volta, gli era corso dietro dalla bottega perchè aveva sputato in faccia al suo idolo che sta sugli stivali.

    — È un pahari (uomo delle montagne) — disse il piccolo Chota Lal.

    — Oh, sì, fanciullo! un uomo delle montagne, di montagne che tu non vedrai mai! Avete mai inteso parlare del Bhotiyal? (Tibet). Io non sono un Khitai, ma un Ghotiya (tibetano), poichè volete saperlo… un lama… e un guru, nella vostra lingua.

    — Un guru del Tibet — disse Kim. — Non ho mai visto un simile uomo. Vi sono dunque indù nel Tibet?

    — Noi siamo seguaci della Via Mediana, viviamo in pace nelle nostre lamasserie, ed io vado a visitare prima di morire i Quattro Luoghi Santi. Ora voi, che siete ragazzi, ne sapete, quanto ne so io che sono vecchio. — Sorrise con benignità ai ragazzi.

    — Hai mangiato?

    Si frugò in seno e tirò fuori una scodella di legno, di quelle che usano i mendicanti per chiedere l’elemosina. I ragazzi fecero un cenno d’intelligenza. Tutti i preti di loro conoscenza mendicavano.

    — Non ho ancora voglia di mangiare. — Girò la testa come una vecchia tartaruga al sole. — È vero che ci sono molte immagini nella Casa delle Meraviglie di Lahore? — Egli fece quest’ultima domanda come uno che vuole conferma di cosa che già sa.

    — È vero — disse Abdullah. — È piena di immagini pagane. Tu pure sei idolatra.

    Non badate a lui, disse Kim. — Quella casa è del governo, e non c’è idolatria, ma c’è invece un sahib con la barba bianca. Vieni con me e ti farò vedere.

    — I preti forestieri mangiano i ragazzi — bisbigliò Chota Lal. — Ed egli è forestiero e idolatra — disse Abdullah, il maomettano.

    Kim si mise a ridere. — È un uomo mai visto. Correte a salvarvi in grembo alle vostre madri. Venite!

    Kim fece girare la ruota di controllo ch’era all’ingresso del Museo; il vecchio lo seguì, poi si fermò pieno di stupore. Nell’atrio c’erano grandi statue greco-buddiste scolpite, i dotti sanno quanto tempo fa, da obliati artisti le cui mani tentarono, non senza maestria, il tocco greco misteriosamente a loro tramandato. C’erano centinaia di pezzi, frammenti di bassorilievi e di statue, e pietre con disegni di figure, che prima erano incrostate nei muri di mattone delle stupas e delle viharas, santuari buddisti della terra del Nord, ed ora, disposti in bell’ordine e catalogati, formavano la gloria del Museo. A bocca spalancata per la meraviglia, il lama si volgeva di qua e di là, e alla fine si fermò in estasi dinanzi a un bel bassorilievo rappresentante l’incoronazione o l’apoteosi di Budda. Il Maestro era rappresentato a sedere su un loto, i cui petali erano tagliati così in basso da sembrar quasi staccati. Intorno a lui c’era in adorazione una gerarchia di re, di anziani e di antichi Budda. Sotto c’erano acque con fiori di loto, pesci e uccelli acquatici. Due dewas, divinità vediche, con ali di farfalla tenevano una corona sospesa sulla sua testa; sopra di esse altre due sorreggevano un’ombrella sormontata dall’ingemmato diadema del Bodhisat.

    — Il Signore! il Signore! è proprio Sakya Muni! — disse quasi singhiozzando il lama, e cominciò a cantare la meravigliosa invocazione buddista:

    A Lui la via… la legge… Tutto

    A Lui che Maia tenne sotto il cuore

    Signore d’Ananda… Bodhisat.

    — E lui è qui. L’Eccelentissima Legge è qui pure. Il mio pellegrinaggio è cominciato bene. E che lavoro! Che lavoro!

    — Laggiù c’è il Sahib — disse Kim e passò agile tra le vetrine della sezione delle industrie. Un inglese dalla barba biaca stava guardando il lama, il quale si voltò con gravità, lo salutò, e dopo aver cercato un po’ nelle sue tasche, tirò fuori un libriccino di note e un pezzetto di carta — Sì, questo è il mio nome — disse l’inglese sorridendo nel vedere quella scrittura incerta, quasi da bambino.

    — Uno di noi, che ha fatto un pellegrinaggio ai Luoghi Santi, ora è abate del monastero di Lung-Cho — balbettò il lama, — me lo ha dato… — Egli parlava di queste cose. La sua mano tremante accennò intorno a sè.

    — Oh, sii il benvenuto, lama del Tibet. Queste sono le immagini sacre, e io son qui per acquistare sapere. Ma vieni un momento nel mio ufficio. — Il vecchio tremava di gioia.

    L’ufficio era una stanza di legno, in una delle pareti della galleria delle sculture. Kim, rimasto fuori, si sdraiò davanti alla porticina di cedro, mise l’orecchio ad una fessura aperta dal caldo e, seguendo il suo istinto, si pose ad ascoltare e spiare.

    Il, più del discorso era tutto superiore al suo intendimento. Il lama, dapprima esitante, parlò al Conservatore della sua lamasseria, il Such-zen, di là dalle Rocce Dipinte, lontana quattro mesi di cammino. Il Conservatore tirò fuori un grosso album di fotografie, e gli mostrò il luogo preciso situato in alto delle rocce e dominante la vallata e strati multicolori.

    — Ecco, ecco! — Il lama s’aggiustò sul naso gli occhiali di corno, di fabbrica cinese. — Qui c’è la porticina per la quale portiamo su la legna prima dell’inverno. E tu… gl’inglesi sanno queste cose? L’abate Lung-Cho me lo diceva, ma io stentavo a crederlo. Il Signore… l’Eccelso… è onorato anche da queste parti? La Sua vita è conosciuta?

    — È tutta scolpita sulle pietre. Vieni, se ti sei già riposato e vedrai.

    Il lama uscì fuori nel vasto salone, e, accompagnato dal Conservatore, visitò tutta la collezione, con la fede riverente di un intenditore.

    Egli identificò episodio per episodio tutta la bella storia sulla pietra logorata dal tempo, incerto talvolta per il convenzionalismo greco a lui poco familiare, e godeva come un fanciullo di ogni’ nuova scoperta. Dove mancava il seguito, come nell’Annunziazione, il Conservatore suppliva con notizie dai molti suoi libri francesi e tedeschi con fotografie e riproduzioni.

    C’era il devoto Asita — corrisponde nella leggenda cristiana a San Simeone — nell’atto di tenere sulle ginocchia il Santo Fanciullo, mentre parla col padre e con la madre; e c’erano gli episodi della leggenda del cugino Devadatta. C’era, tutta confusa, la cattiva donna che accusò il Maestro d’impurità; la predicazione nel Parco dei Cervi; il miracolo che sconcertò gli adoratori del Fuoco; il Bodhisat in attitudine di principe; la nascita miracolosa; la morte a Kusinagara, dove svenne il debole discepolo; innumerevoli ripetizioni della meditazione sotto l’albero della Bodhi; e da per tutto l’adorazione della scodella del mendicante. In pochi minuti il Conservatore si rese conto che il suo ospite non era un semplice mendicante sgrana rosai, ma un vero erudito. E rifecero tutto il giro della suprema conoscenza; mentre il lama tabaccava e ogni tanto puliva gli occhiali e parlava con la velocità di un treno in uno sbalorditivo dialetto misto di urdù e tibetano. Egli aveva inteso parlare dei viaggi dei pellegrini cinesi, Fo-Hian e Hwen-Thiang, ed era ansioso di sapere se c’era qualche traduzione delle loro memorie. E tratteneva il respiro, mentre voltava senza speranza le pagine di Beal e Stanislao Julien.

    — È tutto qui. Un tesoro chiuso a chiave.

    Poi si compose a riverenza per ascoltare alcuni frammenti, tradotti in fretta in urdù. Per la prima volta egli sentiva parlare dei lavori di dotti europei che, con l’aiuto di questi e di cento altri documenti, avevano identificato i Luoghi Santi del Buddismo. Poi gli fu mostrata una mappa immensa, tutta a punti e a righe gialle. Il suo dito bruno seguì da un punto all’altro la matita del Conservatore. Lì c’era Kapilavastu, lì il Regno Centrale, lì Mahabodhi, la Mecca del Buddismo, e lì Kusinagara, il triste luogo dove il Santo era morto. Il vecchio chinò per un pezzo il capo sulle pagine in silenzio, e il Conservatore accese un’altra pipa. Kim s’era addormentato. Quando si svegliò, la conversazione, ancora torrenziale, era più comprensibile per lui.

    — E così fu, o Fontana di Saggezza, che io decisi di visitare i Luoghi Santi che il suo piede aveva calpestati… il luogo di nascita; persino Kapila; poi Maha Bodhi, cioè Budda Gaya il Monastero al Parco dei Cervi… il luogo della sua morte.

    Il lama abbassò la voce: — E son venuto qui solo. Per cinque, sette, diciotto, quarant’anni io ho pensato che la legge Antica non era ben seguita; poichè è confusa, come tu sai, con diavolerie, incantesimi, idolatrie. Proprio come il ragazzo fuori ha detto poco fa. Sì, proprio come ha detto il ragazzo, col bùt-parasti.

    — Così accadde con tutte le fedi.

    — Lo credi? I libri della mia lamasseria, li ho letti che mi son sembrati legno arido; e quanto all’ultimo rituale di cui siamo ingombrati noi che seguiamo la Legge Riformata, esso non ha alcun valore per questi miei vecchi occhi. Perfino i seguaci dell’Eccelso si fan guerra l’un l’altro. È tutto illusione. Sì, maya, illusione! Ma io ho un altro desiderio — e la faccia gialla e rugosa si avvicinò di tre pollici a quella del Conservatore, e la lunga unghia del suo indice battè sulla tavola. — I vostri dotti, secondo questi libri, hanno seguito i Piedi Benedetti in tutte le loro Peregrinazioni, ma vi sono cose che non hanno scoperto. Io non so nulla, proprio nulla, ma io vado a liberarmi dalla Ruota delle cose per una strada larga ed aperta. — Sorrise con aria di ingenuo trionfo. — Come pellegrino ai Luoghi Santi, io acquisto merito. Ma c’è di più. Ascolta una cosa vera. Quando il nostro beato Signore, ancor giovine, cercava una compagna, si disse alla corte di suo padre, ch’Egli era troppo immaturo e delicato per il matrimonio. Lo sai?

    Il Conservatore annuì, curioso di vedere dove volesse arrivare il vecchio.

    — Così indissero una triplice prova di forza con chiunque si presentasse. E alla prova dell’Arco, il nostro Signore prima ruppe quello che gli presentarono, poi chiese un arco che nessuno potesse piegare. Lo sai?

    — È scritto. L’ho letto.

    — Allora, oltrepassando la mira d’ogni altro competitore, la freccia volò lontano, a perdita d’occhio. Alla fine cadde, e dove toccò la terra, sgorgò una sorgente d’acqua, che subito diventò un Fiume, le cui acque, per grazia del nostro Signore e per i meriti ch’Egli acquistò prima di diventar libero, sono tali da togliere ogni macchia o traccia di peccato a chi si bagna in esse.

    — Così è scritto — disse tristemente il Conservatore.

    Il lama trasse un profondo respiro. — Dov’è quel Fiume? Fontana di Saggezza, dove cadde la freccia?

    — Ahimè, fratello, non lo so — rispose il Conservatore.

    — Eh! no, se ti piace dimenticare… la sola cosa che non mi hai detta. Sicuramente lo devi sapere. Vedi. Io sono un vecchio! Te lo domando con la mia testa tra i tuoi piedi, o Fontana di Saggezza! Noi sappiamo che la freccia cadde! Noi sappiamo che scaturì il ruscello! Allora, dov’è il Fiume? Un sogno mi ha detto che io lo troverò. Perciò sono partito. Sono qui. Ma il Fiume dov’è?

    — Se io lo sapessi, credi che non lo griderei forte?

    — Per mezzo di esso l’uomo può liberarsi della Ruota delle Cose — continuò il lama senza badargli. — Il Fiume della Freccia. Ripensaci! Qualche ruscelletto forse… inaridito dalla caldura? Ma il Santo non vorrà ingannare così un vecchio!

    Il lama per la seconda volta avvicinò il suo volto solcato da mille rughe a un palmo dal viso dell’inglese. — Vedo che tu non lo sai. Non appartenendo alla legge, questa conoscenza ti è nascosta.

    — Sì… nascosta… nascosta!

    — Siamo ambedue schiavi, fratello. Ma io — e si alzò con una ondulazione dei suoi vestiti molli e pesanti — io vado a liberarmi dai miei ceppi. Vieni anche tu!

    — Io non sono libero — rispose il Conservatore. — Ma tu dove vai?

    — Prima a Kashi (Benares); e dove potrei andare? Là troverò un seguace dalla fede pura in un tempio jain di quella città. Anche lui è, in segreto, un Cercatore, e da lui forse potrò imparare qualche cosa. Forse egli verrà con me a Budda Gaya. Di là, verso nord-ovest, andrò a Kapilavastu, e lì cercherò il Fiume. No, cercherò lungo tutto il mio viaggio, perchè non si sa dove cadde la freccia.

    — E come andrai? C’è molta strada da qui a Delhi, e anche di più fino a Benares.

    — A piedi, e col treno. Da Pathânkot, lasciati i Monti, son venuto qui in treno. Va ben veloce. Dapprima, fui stupito nel vedere i grossi pali ai margini della strada stendersi l’un l’altro i loro fili — e così dicendo imitò con gesti l’effetto dei pali del telegrafo lampeggianti al passaggio del treno. — Ma poi mi sentivo dei crampi a stare in treno e ho preferito camminare, com’è mia abitudine.

    — E sei sicuro della tua strada? — domandò il Conservatore.

    — Oh, quanto a questo, basta domandare e pagare, e le persone addette al servizio vi indicano subito il luogo richiesto. Questo lo sapevo anche nella mia lamasseria, da sicure informazioni — rispose con orgoglio il lama.

    — E quando partirai? — e il Conservatore sorrise davanti a quel misto di devozione antica e di moderno progresso, che è la caratteristica dell’India attuale.

    — Al più presto possibile. Seguirò i luoghi della sua vita, finchè arriverò al Fiume della Freccia. V’è anche una carta con le ore in cui i treni partono per il sud.

    — E per nutrirti?

    I lama, di regola, portano nascosta in qualche parte della loro persona una buona quantità di denaro, ma il Conservatore desiderava assicurarsene — Durante il viaggio, tenderò la scodella da mendicante del Maestro. Sì. Come viaggiò Lui, così viaggerò io, abbandonando gli agi del mio monastero. Quando lasciai le montagne c’era con me un chela (discepolo) che mendicava per me, come ordina la regola, ma durante una breve fermata a Kulu prese la febbre e morì. Ora sono senza chela, ma io stenderò la mia scodella e darò occasione agli uomini caritatevoli di acquistarsi merito. — Scosse la testa energicamente. I monaci dotti delle lamasserie non hanno l’abitudine di mendicare, ma il lama era entusiasta nella sua ricerca.

    — Sta bene — disse il Conservatore sorridendo. — Permetti allora che io pure mi acquisti merito. Noi siamo, io e te, del medesimo mestiere. Ecco un quaderno nuovo di carta inglese bianca, ecco alcune matite già temperate, grosse e fini, tutte cose utili per uno scriba. Adesso prestami i tuoi occhiali.

    Il Conservatore esaminò le lenti. Erano molto rovinate, ma la potenzialità era uguale a quella dei suoi occhiali, che egli fece scivolare nelle mani del lama dicendo: — Prova questi!

    — Una piuma! Una vera piuma sul viso! — E il vecchio volgeva la faccia di qua e di là con gioia, e arricciava il naso. — Li sento appena! E come ci vedo chiaro!

    — Essi sono di bilaur (cristallo) e non si righeranno e possono aiutarti a cercare il Fiume, poichè sono tuoi.

    — Li prenderò, e così pure la carta e le matite, come segno di amicizia fra prete e prete, ed ora… — egli mise la mano alla cintura, ne staccò la sua penna di ferro e la pose sulla tavola del Conservatore. — Questa è una memoria fra te e me… il portapenne. È un po’ vecchio… persino quanto me.

    Era un oggetto di disegno antico, cinese, di un ferro quale non si trova più ora; e’ il cuore di collezionista dell’inglese si era sentito attratto verso di esso fin dal principio. Nessun argomento potè persuadere il lama a riprendere il suo dono.

    — Quando tornerò dopo aver trovato il Fiume, ti porterò un disegno a penna del Padma Santhora, come io usavo farne sulla seta nella mia lamasseria. Sì, ed anche una della Ruota della Vita — aggiunse ridendo — perchè tu ed io siamo dello stesso mestiere.

    Il Conservatore avrebbe voluto trattenerlo; pochi nel mondo conservano ancora il segreto di quelle pitture a penna buddiste, convenzionali, e che sembrano metà scritte, metà disegnate. Ma il lama si allontanò rapidamente, a testa alta, e, dopo essersi fermato un poco dinanzi alla grande statua di Bodhisat in meditazione, scivolò via attraverso la ruota conta-visitatori.

    Kim lo seguiva come un’ombra. Ciò che aveva udito lo eccitava assai. Quell’uomo era un soggetto per lui interessante, nuovo, ed egli, desiderava conoscerlo meglio, precisamente come se si fosse trattato di un nuovo fabbricato o di una strana festa nella città di Lahore. Il lama era come una sua scoperta, ed egli si proponeva di prenderne possesso. Non per nulla la madre di Kim era stata irlandese.

    Il vecchio si fermò vicino a Zam-Zammah, e guardò intorno finché il suo sguardo cadde su Kim. L’ispirazione, del suo pellegrinaggio lo abbandonò per un momento, egli si sentì vecchio, solo, e con lo stomaco vuoto.

    — Non sedetevi sotto quel cannone — gli gridò il poliziotto con alterigia.

    — Uh! Gufo! — ribattè Kim, prendendo le parti del lama. — Siedi sotto questo cannone, se ti piace. Quando hai rubato le pantofole della lattaia, Dunnoo?

    Era un’accusa senza fondamento alcuno, lanciata per l’impulso del momento, ma fece ammutolire Dunnoo, il quale sapeva che Kim con il suo limpido strillo era capace di far venire in suo aiuto, se ce ne fosse bisogno, una legione di cattivi monelli del bazar.

    — E chi hai adorato là dentro? — domandò Kim amabilmente, accoccolandosi nell’ombra vicino al lama.

    — Non ho adorato nessuno, ragazzo. Mi sono inchinato dinanzi all’Eccelsa Legge.

    Kim accettò questo nuovo dio senza emozione. Ne conosceva già parecchie dozzine.

    E che cosa fai?

    — Chiedo l’elemosina. Mi ricordo ora che da lungo tempo non ho nè mangiato nè bevuto. Quali sono le abitudini di questa città, in fatto di elemosina? In silenzio, come si usa fare nel Tibet, o ad alta voce?

    — Chi chiede la carità in silenzio, muore di fame in silenzio — rispose Kim, citando un proverbio indigeno.

    Il lama cercò di alzarsi, ma ricadde a sedere, rimpiangendo il suo discepolo morto nel lontano Kulu. Kim l’osservava col capo chinato da una parte, pensoso ed attento.

    — Dammi la tua scodella. Conosco la gente di questa città… e tutti quelli che sono caritatevoli. Dammi la scodella, e te la riporterò piena. — Con gesto semplice come quello di un fanciullo, il vecchio gli consegnò la scodella.

    — Riposati. Io conosco la gente.

    Egli si avviò fino alla bottega aperta di una kunjri, venditrice di commestibili, di bassa casta, che era situata di fronte alla linea del tram che conduce a Motee Bazar. La kunjri conosceva Kim da molto tempo.

    Oh, oh! sei diventato yogi con quella scodella? — gli gridò.

    — No — rispose con orgoglio. — C’è un nuovo prete nella città, un uomo che io non ho mai visto.

    — Vecchio prete… tigre giovane! — disse la donna tutta adilata. — Io sono stanca di nuovi preti! Si attaccano alle nostre merci come le mosche. È il padre di mio figlio un pozzo di carità, per dare a tutti quello che chiedono?

    —. No, — rispose Kim. — Il tuo uomo è piuttosto yagi (di cattivo carattere) che yogi (santo). Ma questo prete è diverso. Il Sahib della Casa delle Meraviglie gli ha parlato come a un fratello, Oh, madre mia! Riempimi questa scodella. Egli è là che attende.

    — Una scodella, proprio! Questa è a pancia di vacca enorme! Tu hai tanta grazia quanto il santo toro di Shiv. Esso ha già preso la miglior parte di un paniere di cipolle questa mattina, e ora dovrei anche riempire la tua scodella! Eccolo che torna.

    Il toro bramino del quartiere, enorme, color grigio-sorcio, si apriva la strada attraverso la folla multicolore, con una banana rubata penzolante fuori della bocca. Andò difilato verso la bottega, conscio dei suoi diritti di bestia sacra, abbassò la testa e annusò pesantemente la lunga fila di panieri prima di fare la sua scelta. Kim alzò di scatto il duro calcagno e colpì la bestia sull’umido naso azzurrognolo. Essa stronfiò con indignazione e se ne andò di là delle rotaie del tram, fremendo di rabbia in tutto il corpo.

    — Vedi! ti ho salvato più roba di quello che costerebbe riempire tre volte questa scodella. Su, mamma, dammi un po’ di pesce secco e un po’ di curry coi legumi.

    Un grugnito uscì dal fondo della bottega ove era steso per terra un uomo.

    — Ha cacciato via il toro — disse la donna a bassa voce. — È bene dare qualche cosa ai poveri. — Prese la scodella e la riempì di riso caldo.

    — Ma il mio yogi non è una vacca — disse Kim gravemente, facendo col dito un buco nel mucchio del riso. — Un po’ di curry, una frittella, un po’ di marmellata gli piacerebbero, credo.

    — È un buco grosso come la testa — disse la donna adirata. Tuttavia riempì il buco con curry fumante, mise sul riso una frittella, e su di essa un pezzo di burro e del tamarindo agro, e Kim contemplò la buona roba con occhio tenero.

    — Così va bene; quando io sarò nel bazar, il toro non verrà in questa casa. È un mendicante troppo sfrontato.

    — E tu? — disse la donna ridendo. — Ma parla bene dei tori! Non mi hai detto che un giorno o l’altro verrà un Toro Rosso per aiutarti? Tien ben dritta la tua scodella e chiedi al tuo santo uomo la benedizione per me. Forse egli conosce qualche rimedio per il male agli occhi di mia figlia. Chiedigli anche questo, tu, Piccolo Amico di tutto il Mondo.

    Ma Kim era già lontano prima che fosse finita la frase, schivando cani paria e conoscenti affamati.

    — Così si fa la questua, quando la si sa fare — disse egli orgogliosamente al lama che spalancò gli occhi alla vista della scodella ricolma. — Mangia ora e… anch’io mangerò con te. Ohè, bhistie! — gridò al portatore d’acqua che inaffiava le

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1