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Tra campi di ulivi e di mandorli
Tra campi di ulivi e di mandorli
Tra campi di ulivi e di mandorli
E-book187 pagine2 ore

Tra campi di ulivi e di mandorli

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Info su questo ebook

Due storie si sviluppano in parallelo, per poi intrecciarsi.

Una parla di un marine, veterano dell'Afghanistan e dell'Iraq, che, durante la guerra, trova un antico libro in arabo. La seconda storia racconta di quel libro: cosa contengono le sue pagine, chi lo ha scritto ed i suoi possessori.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita22 feb 2019
ISBN9781547569274
Tra campi di ulivi e di mandorli

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    Anteprima del libro

    Tra campi di ulivi e di mandorli - Luis G. de Felipe Vila

    Tra campi di ulivi e di mandorli

    Luis G. De Felipe Vila

    Memento mori

    Oriente

    A sud del Mar Caspio ci sono valli e catene montuose di una bellezza aspra, a loro modo esuberante, che percorrono con pennellate spigolose la terra che separa il Golfo Persico dall’immenso lago salato più grande del mondo. Noto come Mar Caspio, o Mar di Mazandaran per i persiani, gli arabi lo chiamano anche Mar di Qazvin in riferimento all’omonima città, crocevia e porta dell’Asia Minore. Tra la città e il mare si trovano le montagne di Elburz.

    Sulle vette di quelle montagne, le aquile reali costruiscono i loro nidi, riparati da rocce scoscese, al sicuro dall’attacco dei predatori. E inoltre, sparse qua e là, si ergono alcune fortezze umane che permettono ai loro difensori di godere di un’evidente superiorità in periodi di guerra. Ed è proprio lì che camminano due piccoli cavalli dal manto scuro e la muscolatura potente, montati da una coppia di guerrieri mongoli. Uno dei due è vestito da diplomatico, con un lussuoso caftano, e portano con sé soltanto due spade corte nelle selle. Gli zigomi magri evidenziano lo strano luccichio dei suoi occhi a mandorla, che non smettono di osservare le alture. L’altro cavaliere indossa l’uniforme leggera caratteristica degli arcieri, dalla sua sella sporge una faretra piena di frecce e porta a spalla un arco. Giovane e serio, spicca per la sua altezza rispetto a quella del compagno e, esattamente come lui, i suoi occhi scrutano il cielo in silenzio e senza posa.

    Stanno percorrendo una valle a molti metri sul livello del mare, una striscia allungata da nordest a est che fermano le montagne in un aspetto solenne e rotondo. Ad un tratto, il cavaliere magro ferma il suo cavallo con un lieve strattone alle redini ed indica la figura di un’aquila che ondeggia nella corrente dell’aria con indolenza, molto vicina alla parete settentrionale.

    -La vedi? – dice al compagno. – Si dirige verso il luogo che stiamo cercando, di sicuro. Seguila e non perderla di vista: ti porterà direttamente ad Alamut, la fortezza inespugnabile. Io ti aspetterò qui.

    -Farò così.

    Il soldato fa girare il suo cavallo, il quale nitrisce e sobbalza, mentre osserva l’aquila. Calcola se ha la possibilità di riuscire a colpirla con una delle frecce che sporgono dalla faretra, se il suo arco abbia la potenza sufficiente per un tiro così lontano.

    -Cosa stai aspettando, si può sapere?

    -Credo di poterla colpire da qui con una freccia, sarebbe un colpo magnifico.

    -Non dire sciocchezze! – scatta l’altro, sorpreso per quella stravaganza.

    Il cavaliere sa che l’aquila, tornando al proprio nido, indicherà loro il cammino che li condurrà alla fortezza di Alamut. Una volta scoperta la sua ubicazione esatta, avrebbero potuto riferire la notizia ai loro uomini: un’armata composta da più di duecentomila soldati mongoli, cinesi, armeni e anche cavalieri francesi di Antiochia. E, malgrado il baluardo impraticabile, l’inestimabile aiuto degli ingegneri cinesi sarebbe stato fondamentale per far cadere quella ed altre fortezze sparse per tutta la Persia. La conoscenza di quel popolo, uno dei primi ad essere assoggettati sotto il giogo mongolo dal grande Gengis Khan, permette alle orde di Hulagu, il Gran Khan che le governa adesso, di costruire una macchina da assedio talmente perfetta che nessun muro, per quanto alto o resistente, né castello, per quante difese e fede abbiano i suoi difensori, avrebbe potuto sopportare i suoi attacchi per molto tempo.

    La sagoma scura del volatile danza nel vento, da sinistra a destra, da destra a sinistra, su e giù. Con un potente battito d’ali, vira verso nord-est e si addentra fra le montagne.

    -Imbecille! Vedi cosa ottieni con le tue fantasie? Perder tempo! Sprona il tuo cavallo, sbrigati, guai a te se la perdi di vista!

    L’altro sperona i talloni sul fianco del cavallo, facendolo andare al galoppo. Attraversa la valle in un lampo, avvolto dalla nuvola di polvere che alzano gli zoccoli dell’animale. I passi decisi strappano e lanciano per aria, in piccoli pezzi, fusti verdi, zolle di terra e sassolini. Non tremare come una foglia, sarebbe una vergogna per i tuoi, dice fra sé il soldato. Si aggrappa forte alle redini, gli occhi fissi sul cielo. Come può essere tanto sicuro, Ublai, del fatto che mi indichi la direzione giusta?  si domanda. Ci sono migliaia di posti in cui quell’aquila avrebbe potuto fare il suo nido. Comunque, il consigliere non riconosciuto del Gran Khan, esperto in esoterismo e nell’occulto, raramente sbaglia le proprie previsioni. Il soldato può solo sperare che quella non sia una di quelle rare volte e che la congettura di Ublai sia corretta.

    Si vede obbligato ad interrompere la sua cavalcata molto tempo dopo, quando il terreno perde la sua dolce ondulazione e, all’improvviso, diventa impraticabile per l’animale. Dopo aver messo a tracolla l’arco e le frecce, in modo tale che non gli dessero fastidio nel camminare né nel correre, si addentra a piedi fra le enormi rocce che si accumulano le une sulle altre, creando un paesaggio arido, dai toni grigi, nel quale, comunque, la pietra è adornata da tronchi d’albero ed arbusti forti, pieni di resina. Nonostante la bellezza agreste che lo circonda, l’indifferenza brilla nei suoi occhi a mandorla: è un soldato, una pedina agli ordini di un grande conquistatore. La missione che gli hanno assegnato è di vitale importanza per le intenzioni dell’impero: deve scoprire dove si nasconde quella fortezza, Alamut, dove nacque la Setta degli Assassini, con i quali Hulagu ha un vecchio conto in sospeso.

    Sale seguendo il corso del sole finché le pietre mosse lasciano il posto a pareti nude e appuntite, che si ergono verso il cielo. Il suo avanzare diventa più lento, si trova costretto ad usare sia le mani che i piedi, sperando che nessuna roccia lo faccia cadere nel vuoto. La sua casacca di cuoio è fradicia di sudore, il respiro sempre più affannoso. Si sarebbe liberato delle sue armi, l’arco e la spada, se non fosse stato sicuro che gli sarebbero servite. C’era sempre il rischio che apparisse qualche sentinella e lo scoprisse. Dopo un po’, la stanchezza inizia a stringere la morsa sui suoi muscoli, ma la missione è troppo importante: quel pensiero lo aiuta a non cedere. Le ore trascorrono molto lentamente, trova a malapena terreni spianati che gli consentano di mantenere un buon ritmo.  Si arrampica come un gatto, si muove tra gli elementi più veloce che può. Spera che le sue forze non lo abbandonino e si affida varie volte a Dio per non deludere il proprio signore. Infine, dopo aver compiuto una piccola elevazione nel momento in cui le ombre della notte cominciavano ad impadronirsi del cielo, il suo premio si mostra.

    Alamut, l’emblematica fortezza degli Assassini, grigia e muscolosa, si erge in lontananza, incastonata fra le montagne, spicca su di un promontorio solitario sul bordo di un precipizio, come una gigantesca mole di pietra liberatasi da una coltre di nubi. Una massa compatta da cui spicca la presenza robusta e silenziosa delle mura, l’unico elemento della fortificazione che si intravedeva appena. Al suo interno, quasi duecento anni fa, nacque la Setta che ha tenuto sotto scacco tanti emiri e sultani.

    Soddisfatto, il soldato mongolo sospira sollevato e si inginocchia. Si concede un po’ di riposo successivo all’estenuante salita osservando la distesa che lo circonda, rannicchiandosi fra le rocce. Appoggia l’arco e la faretra al suo fianco e lascia la spada per terra. Si stende a pancia in su e si stira, flettendo i muscoli. Il dolore fisico minaccia di non fargli dimenticare di quella giornata per parecchio tempo. Nel frattempo, la sua mente sta tracciando un percorso invisibile che condurrebbe fin là il suo generale. Poi, dopo aver ingerito delle bacche e della frutta secca che si era portato dietro in un sacco attaccato alla cintura ed aver bevuto da una borraccia fatta di pelle, sceglie la strada più facile per ritornare al punto in cui aveva lasciato il cavallo, aiutato soltanto dalla tenue luce di una gigantesca luna piena. Conta sul fatto che il cavallo non se ne sia andato: il posto in cui ha dovuto lasciarlo e quello in cui il consigliere Ublai dovrebbe aspettarlo, accampato vicino ad un fuoco, sono molto distanti l’uno dall’altro. Si allontana furtivo, senza essere notato da nessuno eccetto il faro scintillante e rotondo della notte, mentre lascia segni indecifrabili ad occhi estranei, grazie ai quali troverà la strada al ritorno.

    Luci e ombre

    Vedo il suo viso, Tess, lo vedo...

    Era mezzogiorno a Marrakech e gli altoparlanti dei megafoni, nascosti nella pietra rossastra dei minareti almohadi, che spiccano, monolitici e rotondi, insieme alle moschee, lanciarono la chiamata al zuhr, la seconda preghiera. Il caldo iniziava a premere nei cortili delle abluzioni delle moschee, come anche i rubinetti delle fontane in cui i fedeli si purificavano lavandosi il viso, le mani, gli avambracci fino ai gomiti e i piedi fino alle caviglie prima di entrare nella sala per la preghiera.

    Mentre apriva un pacchetto di sigarette con una mano e cercava l'accendino con l'altra, avvolto dalle voci meccaniche che ricordavano ai fedeli la grandezza del Creatore, Andrew si domandò perché stesse continuando a parlare con Tess dopo tanti anni e se lei lo stesse ascoltando, dal cielo.

    Se lo chiedeva spesso, se fosse possibile che lo ascoltasse. Anche se non la avrebbe mai dimenticata, e gli sembrava corretto, lo faceva arrabbiare il fatto che continuasse a parlarle, poiché si sentiva un imbecille che sputava controvento e poi rimaneva lì, tranquillo, a ridere, quando la saliva tornava verso di lui, schizzandogli il viso e i vestiti. Raccontare i suoi pensieri a Tess non lo aiutava, ma non sapeva che altro fare.

    In un passato così lontano da sembrare un film in Super 8, lui e Tess avevano avuto discussioni impossibili da risolvere, anche Andrew si era sentito così. Lui, che la maggior parte delle volte era incapace di rettificare, sbatteva, in senso figurato, la testa al muro miliardi di volte. Allora lei lo guardava tranquilla, come una statua di terracotta che poggia il proprio peso sulle radici del mondo, avvicinava un dito alla parte posteriore dell’orecchio, dove aveva un apparecchio acustico, ed azionava la ruotina del volume, mettendo così fine all’assurdo. Si isolava dal mondo con un sorriso e poi mostrava i palmi delle mani. Vedi? Sembrava dirgli, non c’è niente da discutere.

    Andrew trascorreva l’ora e mezzo, o forse due, successiva a parlarle, raccontandole cose che non poteva sentire, le chiedeva scusa e le diceva quanto la amasse e quanto contasse per lui. Si metteva vicino a lei, evitando che riuscisse a vederlo in faccia e leggergli il labiale. Quando Tess tornava dal suo mondo, era inevitabile la domanda sarcastica: Did you miss me?

    Tess era così.

    E così se ne era andata. La donna con cui aveva progettato un futuro molto diverso da quel che era il presente in cui viveva.

    Andrew ricordava perfettamente il giorno del funerale e che, quel giorno, il sole brillava sul cimitero. Ricordava le lapidi che, piantate nel terreno come piccoli monoliti di granito o marmo, bianche, grigie e nere, proiettavano un’ombra e come queste ultime fluttuassero su un prato imbottito ed il fogliame verde e denso qua e là, filtrando la luce e annullandone la potenza. L’aria tersa, gli pareva di ricordare, si riempiva di cinguettii qua e là, a contrasto con il silenzio caratteristico del luogo, mettendo in evidenza il rumore di passi lungo le strade della grava. In rigoroso lutto e con gli occhiali da sole, insieme ai suoi genitori, ai suoceri, ai cognati e qualche nipote, ricordava persino il suono delle palettate nella terra scura cadere sul coperchio curvo della bara. Tutto ciò gli tornava in mente anni dopo, con i capelli bianchi sulle tempie, in un appartamento a Marrakech, mentre studiava la lenta evoluzione di un sole splendente ed enorme nel cielo, che si affacciava fra gli spazi vuoti della tapparella.

    Davanti ai partecipanti, tra i quali c’erano persone che Andrew non conosceva neppure di nome, gli operai coprirono a poco a poco la superficie levigata di legno di quercia e, man mano che lo facevano, il terreno formò una barriera tra lui e il corpo di Tess. L’avevano fatta tornare alla terra, chiudendo in questo modo un ciclo che si era compiuto troppo in fretta. Polvere sei e in polvere ritornerai.

    Mentre osservava la buca riempirsi, posare la lapide e poi, mentre il pastore alla sua destra recitava un passo della Bibbia, Andrew pensava, però non a Tess: ad una frase che aveva sentito tempo addietro. Non ricordava né dove né chi, solo la frase: Ad ogni uomo corrisponde una pallottola, con il suo nome inciso. Il pastore disse amen, si avvicinò a lui e gli strinse la mano: Andrew lo ringraziò. Rimase a guardare la tomba, si grattò la testa e si coprì la bocca con la mano, sentiva le lacrime accumularsi nei suoi occhi.

    Tornò all’auto di suo cugino accompagnato da una comitiva di familiari ed amici, ripensando ancora a quelle parole. Aprì la portiera del passeggero e si sedette. Suo cugino salì, si mise la cintura di sicurezza, poi accese il motore ed azionò il cambio. Andrew fece un respiro profondo e le ruote si misero in moto. Le parole erano ancora lì. Un uomo, un nome ed una pallottola: tre elementi che rimbalzavano sulle soffici pareti del suo cervello, sempre più veloci, creando echi sempre più intense, che gli riempivano la testa.

    -Are you okay? – chiese suo cugino.

    Andrew non aveva risposto.

    Prima di tornare un giorno a casa e trovare una lettera che lo aspettava sulla porta, portata da un compagno di base, che gli avrebbe detto dove sarebbe stato destinato, ebbe il tempo di cambiare i fiori alla tomba tre o quattro volte. Era una tomba semplice e questo gli piaceva. Era sicuro che Tess avrebbe approvato. Il luogo in cui avrebbe riposato per l’eternità era conforme a ciò che era stata la sua vita: tranquilla, senza grandi pretese. Un luogo protetto, lontano da tutto ciò che potesse essere sinonimo di rumore ed eccesso. Anche l’epigrafe era semplice: ricordava il nome della defunta e quanto la avesse amata il marito.

    Vide il collega da lontano, in piedi di fronte alla porta, tranquillo, in divisa e con il cappello portato

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