Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Masha e l'Orso e altre fiabe popolari russe
Masha e l'Orso e altre fiabe popolari russe
Masha e l'Orso e altre fiabe popolari russe
E-book870 pagine11 ore

Masha e l'Orso e altre fiabe popolari russe

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Raccolte da A. N. Afanas’ev
Cura e traduzione di Luisa De Nardis

La raccolta completa delle più famose e belle fiabe della tradizione russa

Masha e l’Orso non è un’invenzione dei nostri giorni. Gli sceneggiatori del celebre cartone animato che ha fatto il giro del mondo hanno tratto l’ispirazione da una celeberrima fiaba della tradizione folkloristica russa. In un unico volume sono qui raccolte straordinarie fiabe popolari, caratterizzate da una prosa ricca di formule e rime e dall’uso costante e divertito di proverbi e filastrocche. Animali, oggetti, bizzarre creature, esseri magici: un universo popolato da elementi della cultura contadina o provenienti dalle leggende delle diverse etnie, che hanno regalato al Paese un immaginario fiabesco unico nel suo genere. E tale ricchezza è stata preziosa fonte di ispirazione per i maggiori scrittori russi dell’Ottocento: un libro da leggere ai bambini e che piacerà moltissimo anche agli adulti.
A. N. Afanas’ev
nacque a Bogucar nel 1826. Studioso e amante del folklore slavo, consacrò la propria attività alla raccolta e alla pubblicazione di fiabe e leggende russe. Numerosi anche i suoi contributi scientifici sull’argomento. Per il suo ampio e prezioso lavoro ottenne, negli anni Sessanta del secolo scorso, svariati premi. Morì di tubercolosi a Mosca nel 1871.
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2015
ISBN9788854182707
Masha e l'Orso e altre fiabe popolari russe

Correlato a Masha e l'Orso e altre fiabe popolari russe

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Fiabe e folklore per bambini per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Masha e l'Orso e altre fiabe popolari russe

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Masha e l'Orso e altre fiabe popolari russe - A. N. Afanas’ev

    Masha e l'orso

    536

    Titoli originali: Маша и Медведь

    Traduzione di Natascia Perrone

    Narodnye russkie skazki

    Traduzione di Luisa De Nardis

    Prima edizione digitale: aprile 2015

    © 1994, 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 9788854182707

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di WAY TO ePUB, Roma

    Masha e l’Orso

    e altre fiabe popolari russe

    Raccolte da A.N. Afanas’ev

    Newton Compton Editori

    Introduzione

    Solo nella seconda metà del xviii secolo inizia in Russia un serio interesse per il patrimonio folcloristico nazionale. Per tutto il Medioevo la letteratura scritta era stata appannaggio della Chiesa e la produzione narrativa del mondo laico si era limitata alla trasmissione orale, poiché utilizzare la parola scritta per cose profane era assolutamente contrario alla pietà russa. Ancora nel 1649, lo zar Aleksej Michajlovič emanava un ukaz (= decreto, editto) in cui si vietava, tra l’altro, di raccontare favole, e questo nonostante il fatto che gli stessi zar tenessero presso di sé persone la cui unica funzione era proprio quella di narrare storie¹. «Sconvolgimenti sociali senza precedenti, con spostamenti e riconsiderazioni dei valori tradizionali: questi sono i caratteri peculiari del xvii secolo in Russia. I confini tra l’ecclesiastico e il secolare, fra lettere e folclore, fra lingua scritta e orale, cominciano a cancellarsi. La divisione tradizionale viene sostituita da una compenetrazione. Inizia la laicizzazione della letteratura scritta; per la prima volta nella storia della Moscovia vengono fatti dei tentativi di narrativa secolare scritta, e poiché la sola tradizione locale a cui questi tentativi potevano appoggiarsi era quella orale, nella letteratura russa del xvii secolo si ha il fenomeno di una vigorosa influenza del folclore»².

    Diversa si presenta la situazione nel secolo successivo, quello di Pietro il Grande: ha inizio una nuova letteratura, si cerca cioè di creare «una letteratura aristocratica e ad isolare e canonizzare il linguaggio della élite, anche se la riduzione della base sociale della produzione orale, e il mutamento graduale del folclore da proprietà dell’intero popolo a quella della gente comune non furono ottenuti di colpo»³.

    Col Romanticismo, l’attenzione alla fiaba cresce notevolmente: nella realtà il primo a cogliere il valore artistico delle fiabe russe è lo stesso Puškin, che annota alcune fiabe raccontategli dalla sua governante Arina Rodionovna e ne registra altre ancora da fonti diverse. Ma fino all’arrivo di Afanas’ev manca una sistematica e ampia raccolta di autentiche fiabe russe⁴, sebbene la fiaba sia parte fondamentale nello sviluppo creativo di molti dei maggiori scrittori russi.

    Finalmente la lacuna viene colmata: tra il 1855 e il 1863 escono gli otto fascicoli delle Fiabe popolari russe: i primi quattro annualmente, il quinto e il sesto nel 1861, il settimo e l’ottavo nel 1863. I fascicoli sono corredati da note e varianti, per un numero complessivo di oltre seicento fiabe; il primo, il secondo e il quarto preceduti da brevi introduzioni di Afanas’ev.

    Del materiale raccolto, solo una piccolissima parte (probabilmente non più di una decina di testi) è frutto di una registrazione diretta dello stesso Afanas’ev nella regione di Voronež; il resto è composto dall’ampia collezione degli archivi della Società geografica russa, nata nel 1845, da fiabe registrate da Vladimir I. Dal’, noto per il suo vocabolario e per aver raccolto i proverbi popolari (si trattava di circa 1000 testi, tra cui ne furono scelti approssimativamente 200 che formarono il corpus centrale dei fascicoli dal quarto in poi), da appunti di amici di Voronež, da vecchie edizioni. «È la prima edizione scientifica di autentiche fiabe popolari russe, che, per ricchezza, supera le edizioni analoghe dell’Europa occidentale. Per la prima volta fu ampiamente riconosciuto l’alto valore artistico della fiaba popolare russa. Per le qualità scientifiche l’edizione di Afanas’ev supera di gran lunga quella dei fratelli Grimm. Afanas’ev, a differenza dei fratelli Grimm, non si concesse alcun rimaneggiamento, miglioramento, né alcuna rielaborazione letteraria. Inoltre egli inserì nella sua edizione le varianti, cosa che non fecero i fratelli Grimm».

    Purtroppo, come molti studiosi hanno sottolineato, «solo in due terzi dei racconti di Afanas’ev è annotato il luogo di registrazione. Ben poco era il suo interesse per le questioni del dove e da chi questo o quel racconto era stato ascoltato». Oltre a ciò, data la diversità delle fonti, diverso è anche il modo che aveva ciascuno di annotare quel che ascoltava, fatto che causa una certa mancanza di omogeneità nella qualità delle trascrizioni, che provengono da più di tredici governatorati russi, tre ucraini e uno bielorusso.

    Malgrado la grande importanza del lavoro di Afanas’ev, egli «non fu ancora un raccoglitore in senso proprio, poiché redasse principalmente materiale manoscritto. Il merito di essere stato il primo raccoglitore va di diritto a Ivan Aleksandrovič Chudjakov (1842-76)», che, negli stessi anni in cui Afanas’ev pubblicava le sue fiabe, fece uscire in tre fascicoli i 125 testi delle Fiabe grandi-russe, direttamente raccolte dalla bocca del popolo.

    Se nella prima edizione in 8 fascicoli le fiabe sono pubblicate in ordine sparso, in conseguenza dei tempi in cui il materiale giungeva in possesso di Afanas’ev, nella seconda edizione, che uscì due anni dopo la morte del compilatore (1873), le favole sono state ordinate da Afanas’ev secondo un criterio ben preciso, sebbene non esistano sezioni distinte, con un nome proprio. A questa mancanza rimedia Propp, ottenendo il seguente schema:

    «Fiabe di animali (nn. 1-86). A esse si aggiungono alcune fiabe di oggetti (nn. 87 e 88); di piante (nn. 89 e 90); sugli spiriti (nn. 91-94).

    Di magia, mitologiche, fantastiche (nn. 95-307).

    Di byline (nn. 308-16).

    Saghe storiche (nn. 317-18): su Mamaj, su Alessandro il Macedone.

    Novellistiche o di costume (nn. 319 e seguenti).

    Bylicki (nn. 351 e altri): racconti di morti, streghe, spiriti dei boschi ecc.

    Aneddoti popolari (nn. 453-527).

    Racconti infiniti (nn. 528-32).

    Arguzie (nn. 533-47)»⁸.

    In effetti, più sinteticamente di Propp, Afanas’ev riconosce l’esistenza di tre fondamentali gruppi di fiabe: quelle di animali, le fiabe di magia, le fiabe novellistiche (la ricerca di una sistematizzazione del materiale è un’altra novità di Afanas’ev rispetto ai fratelli Grimm, che riportano le loro fiabe senza alcun ordine logico).

    Il primo grande gruppo delle Fiabe popolari russe è costituito dalle fiabe di animali. Più diffuse nel repertorio folcloristico occidentale (circa 140 soggetti), nella tradizione russa rappresentano meno di un decimo dell’intero patrimonio fiabistico, probabilmente perché in genere collegate a un pubblico infantile, al contrario delle altre fiabe diffuse tra gli adulti, soprattutto di sesso maschile. Si tratta in generale di brevi narrazioni, i cui protagonisti sono in massima parte animali selvatici, laddove gli animali domestici compaiono in misura decisamente minore e con ruoli secondari, cosa che suggerisce a Propp «l’ipotesi che le fiabe sugli animali siano state create in quello stadio di sviluppo della cultura umana in cui gli animali dei boschi erano forme primitive di sostentamento, ed avevano un ruolo importante nella concezione primitiva del mondo e nell’attività artistica; mentre gli animali addomesticati o non esistevano affatto oppure non avevano un ruolo importante».

    Quindi un’origine molto antica, totemica, di queste fiabe, tesi avvalorata anche dall’osservazione delle trame assai elementari (molto usato il procedimento della ripetizione di una medesima situazione), basate più che altro sull’inganno da parte di un animale furbo (per solito la volpe) ai danni di un altro più sciocco (il lupo, per esempio). Siamo qui di fronte a una descrizione della natura che ha ben poco a che vedere con la realtà, pur non essendo allegorica come spesso capita in occidente. «Si vuole mettere in risalto che l’epos animale non sorge da osservazioni sulle forze e le capacità reali degli animali»¹⁰; al contrario a essi vengono attribuite doti sovrannaturali, magiche.

    Le fiabe di magia costituiscono il corpus più nutrito della raccolta di Afanas’ev. Nel suo essenziale libro Morfologia della fiaba, Propp individua, all’interno di un nucleo di racconti estremamente ampio ed eterogeneo, delle componenti fondamentali che si ripetono in modo uniforme e che identificano appunto il gruppo delle fiabe di magia. Queste componenti sono definite da Propp «funzioni dei personaggi», e per funzioni «si intende l’atto del personaggio, ben determinato dal punto di vista della sua importanza per il decorso dell’azione»¹¹. Il numero delle funzioni è limitato (al massimo 31) e la loro successione è sempre la stessa, dalle primissime (i. Uno dei membri della famiglia si allontana dalla casa. ii. All’eroe viene fatta una proibizione. iii. La proibizione viene violata. Ecc.) alle ultime (xxx. Il cattivo è punito. xxxi. L’eroe si sposa e viene proclamato re); molte funzioni sono poi unificabili in sfere diverse a seconda dei personaggi: per esempio la sfera d’azione dell’eroe e la sfera d’azione del cattivo (è possibile individuare sette personaggi).

    L’omogeneità e la grande ripetitività strutturale delle fiabe di magia portano Propp a un’affermazione che sarà ampliata e discussa nell’altro suo importante scritto Le radici storiche dei racconti di magia, e cioè che «tra la vita reale e la fiaba esistono certi elementi di transizione nei quali la vita reale si riflette indirettamente: uno di questi elementi di transizione è costituito dalle religioni, sviluppatesi ad un determinato livello di sviluppo della vita, ed è molto probabile che esista un legame regolare tra la vita e la religione da un lato e tra la religione e la fiaba dall’altro. Un certo modo di vita si estingue, si estingue la religione e il contenuto si trasforma in fiaba»¹².

    Così per esempio molti motivi fiabeschi risalirebbero al complesso del rito dell’iniziazione, presumibilmente il fondamento più antico della fiaba: è probabile che «gli anziani della tribù raccontassero agli iniziandi ciò che stava loro accadendo riferendolo però all’antenato, al fondatore della stirpe e delle usanze, a un fondatore, nato in modo prodigioso, che era stato nel regno degli orsi, dei lupi, ecc. e di là aveva portato il fuoco, le danze magiche (quelle stesse danze che insegnavano ai giovani), ecc. [...] Il racconto perciò è parte del rituale, del rito, è strettamente collegato con il rito [...], è una specie di amuleto verbale, un mezzo di influenza magica sul mondo circostante»¹³. Un altro folto gruppo di motivi rispecchierebbe, invece, il viaggio dei defunti verso il mondo dell’aldilà, anche se Propp ritiene impossibile definire una netta cesura tra i due cicli: a questo gruppo apparterrebbero la foresta come confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti, l’odore dell’eroe, il viaggio verso un altro regno, ecc. Va da sé che il sostrato rituale individuabile in queste fiabe non è caratteristica tipica della fiaba russa, ma del patrimonio folcloristico di molti popoli e molti paesi: non ci si stupisce quindi di trovare una Cenerentola russa (Nericcia), una Bella e la Bestia (Il principe stregato) e altri temi in comune con la fiabistica occidentale a noi meglio nota.

    L’ultimo grande corpus della raccolta afanas’eviana è quello delle fiabe novellistiche, dette anche realistiche o di costume. Si tratta di fiabe i cui protagonisti non sono più principi ed eroi, ma semplici persone del popolo, soldati, contadini, braccianti, che lottano con tutta la loro astuzia e abilità contro un avversario socialmente più potente: l’eroe «sta sui gradini più bassi della scala sociale. Viene raffigurato senza alcuna idealizzazione. Nel suo aspetto non c’è nulla di bello, di marcatamente eroico; è una persona ordinaria. Contemporaneamente, però, incarna il coraggio, la decisione, l’ingegnosità, l’indistruttibile forza di spirito e la volontà di lotta e, a volte, ha un’astuzia straordinaria. Per questo vince sempre»¹⁴.

    Questi racconti, nel complesso dominati dal tono faceto, ci sono utili inoltre per le descrizioni puntuali della vita quotidiana (e in tal senso, dato il loro legame con la realtà russa, costituiscono la sezione più originale e autoctona dell’intera raccolta), anche se «gli avvenimenti narrati nella fiaba di costume sono del tutto irreali, del tutto insoliti. Sono straordinari al punto che nessuno ci crede. [...] In sintesi, l’estetica del realismo si riduce al tentativo di esprimere i caratteri tipici in circostanze tipiche. [...] È vero che l’atmosfera, lo scenario della fiaba di costume sono del tutto reali; hanno carattere reale anche i personaggi. Tuttavia le azioni di questi personaggi non rientrano in un ambito reale. La fiaba di costume è tessuta su storie insolite, inaudite, su tutto quanto è impossibile»¹⁵. La struttura di questo genere di fiaba è molto diversa da quella delle fiabe di magia e, in un certo senso, per la propria semplicità e brevità si avvicina di più al genere della fiaba di animali.

    Un gruppo a parte è costituito dalle fiabe che Propp definisce «di byline» (nn. 308-16). Come accennato, la bylina è una creazione popolare tipica delle comunità rurali, nelle quali «particolari skaziteli (narratori) o starinsciki (cantori di starine)¹⁶ [...] si trasmettono di padre in figlio l’arte di cantare le composizioni epiche accompagnandosi con uno strumento a corda chiamato gusli»¹⁷, strumento tante volte citato anche nelle fiabe. A lungo si è discusso se sia la fiaba a derivare dalla bylina o viceversa (Afanas’ev, per esempio, sosteneva che la fiaba fosse precedente alla bylina, mentre un altro dei teorici della «scuola mitologica», F. Buslaev, era più propenso a credere il contrario), oppure se si tratti di creazioni separate fin dall’inizio (così secondo K. Aksakov); comunque sia, nella raccolta di Afanas’ev sono registrate una decina circa di fiabe i cui temi epici richiamano, quando non li riprendono, quelli bylinici, in particolare i più antichi riferibili a eventi storici, dominati da Kiev capitale e dal sovrano Vladimir «Bel solicello»: valgano come esempio le fiabe su Il’ja Muromec¹⁸.

    Esaminate le fiabe dal punto di vista tematico e compositivo, non ci resta che proporre qualche piccola osservazione di tipo stilistico. In quanto trascrizioni di un patrimonio orale, le Fiabe popolari russe sono caratterizzate da una prosa non particolarmente raffinata, ricca di formule e di rime che si ripetono per stigmatizzare situazioni tipiche; di qui la grande difficoltà di resa per il traduttore. Nate per essere raccontate, esse perdono parte del loro fascino alla lettura; come detto Afanas’ev non diede, insieme alla sua edizione, alcuna notizia circa i narratori e il loro modo di esecuzione, lacuna che fu subito notata, in una recensione, da Dobroljubov. Vengono inoltre inseriti nella fiaba detti popolari, proverbi, indovinelli, brevi canzoni, a volte puri giochi fonetici o troppo strettamente legati alla realtà e agli usi russi per essere trasposti in modo soddisfacente in un’altra lingua. C’è naturalmente una ovvia differenza tra le fiabe di magia, dove il tono è più solenne e quindi anche la lingua maggiormente curata, e gli aneddoti, le fiabe di animali, in cui dominano i dialoghi e la lingua popolare; «le favole di tinta aneddotica manifestano una disposizione alla forma in versi, che nelle fiabe ricorre solo nei preludi e negli epiloghi. Questa forma, un verso sciolto parlato, basato su un’intonazione colloquiale e guarnito di rime comiche e vistose, è imparentato coi metri liberi del comico e dei sermoni nuziali. Esperti narratori possiedono una scorta così abbondante di rime e di clichés sintattici che sono spesso capaci di improvvisare questi versi parlati su qualsiasi soggetto»¹⁹.

    Molto interessanti sono alcuni inizi di fiaba (priskazki), spesso senza alcun legame con lo svolgersi della «fabula», ma con l’unica funzione di catturare l’attenzione dell’ascoltatore: solo a quel punto verranno inserite «le parole dalle quali si passa alla storia vera e propria: Questa è la premessa, la fiaba viene adesso»²⁰. In genere, dal tipo di priskazka si può intuire con quali criteri verrà condotto il racconto da parte del narratore, se prevarrà il tono scherzoso o quello serio, ma anche le chiuse (koncovki) ci danno indicazioni in tal senso: nel genere ironico spesso il narratore, finita la sua fatica, chiede senza mezzi termini, ma in rima, da mangiare e da bere, spostando, come sottolineano sia Lichačëv che Jakobson, l’attenzione degli ascoltatori dalla fantasia alla realtà di tutti i giorni²¹.

    Da notare l’alternanza continua dei tempi verbali tra il presente e il passato (la forma verbale per eccellenza della fiaba), caratteristica non peculiare delle fiabe russe (volutamente lasciata dal traduttore), che, nella lingua orale, funziona quasi come una macchina da presa: nel momento in cui l’inquadratura si avvicina, viene fatto un primo piano sull’azione, ne viene sottolineata l’importanza e l’immediatezza o l’imprevedibilità, si passa dal passato al presente, per poi compiere, magari nello stesso periodo, il percorso inverso.

    luisa de nardis

    ¹ Si narra che alla corte dello zar Ivan il Terribile ci fossero tre ciechi che ogni sera gli raccontavano una favola ciascuno per favorirgli il sonno.

    ² R. Jakobson, «Sulle fiabe russe», in Premesse di storia letteraria slava, Il Saggiatore, Milano, 1975, pp. 337-8.

    ³ Ivi, p. 338.

    ⁴ Il primo annotatore di fiabe russe fu addirittura un inglese, il dottor Samuel Collins, che, medico curante dello zar Aleksej Michajlovič tra il 1660 e il 1670, rientrato in patria scrisse un volumetto sulle sue impressioni della Russia, The present State of Russia, inserendovi una decina di racconti popolari tradotti in inglese, di cui due relativi a Ivan il Terribile.

    ⁵ V. Propp, La fiaba russa. Lezioni inedite, Einaudi, Torino, 1990, p. 69.

    ⁶ R. Jakobson, op. cit., p. 341.

    ⁷ V. Propp, op. cit., pp. 70-1.

    ⁸ Ivi, pp. 42-43. Per bylina si intende una narrazione epica popolare (cfr. Le byline. Canti popolari russi, Edizioni Accademia, Milano, 1974; V. Propp, L’epos eroico russo, Newton Compton, Roma, 1978), per bylička una narrazione che ha come protagonisti gli spiriti dei boschi, dei campi, delle acque, ecc.

    ⁹ V. Propp, op. cit., pp. 364-5.

    ¹⁰ V. Propp, op. cit., p. 365.

    ¹¹ V. Propp, Morfologia della fiaba. Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma, 1992, p. 27.

    ¹² V. Propp, ivi, p. 89.

    ¹³ V. Propp, ivi, pp. 472-3.

    ¹⁴ V. Propp, La fiaba russa. Lezioni inedite, cit., p. 281.

    ¹⁵ V. Propp, Ivi, p. 284.

    ¹⁶ Starina è termine equivalente a bylina.

    ¹⁷ B. Meriggi, «Introduzione» a Le byline. Canti popolari russi, Edizioni Accademia, Milano, 1974, p. 9.

    ¹⁸ Cfr. V. Propp, «L’epos russo dell’epoca dello sviluppo dei rapporti feudali», in L’epos eroico russo, Newton Compton, Roma, 1978.

    ¹⁹ R. Jakobson, «Sulle fiabe russe», cit., p. 350.

    ²⁰ V. Anikin, Russkaja narodnaja skazka, Mosca, 1984, pp. 132-3.

    ²¹ Cfr. anche V. Anikin, op. cit., pp. 130 ss.

    Nota bibliografica

    Aleksandr Nikolaevič Afanas’ev nacque a Bogučar, nel governatorato di Voronež, l’11 luglio 1826. Il padre, piccolo impiegato, rimasto vedovo poco dopo la nascita di Aleksandr, fu trasferito per lavoro nella cittadina di Bobrov, nel medesimo governatorato, dove Afanas’ev trascorse la sua infanzia. Nonostante le modeste condizioni della famiglia, Aleksandr ebbe a disposizione una discreta biblioteca, eredità del nonno, e fu costantemente incoraggiato dal padre nei suoi studi e nella lettura, cui non fu però mai disgiunto un vivo interesse per il folclore orale.

    Dal 1837 frequentò il ginnasio di Voronež e nel 1844 si trasferì a Mosca, dove si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza che terminò con successo. Nei quattro anni di università ebbe occasione di conoscere importanti personalità culturali dell’epoca coinvolte nel vivace dibattito tra occidentalisti e slavofili, legandosi in particolar modo a Kavelin. Fu proprio grazie all’aiuto di quest’ultimo che Afanas’ev, nel 1849, iniziò la sua carriera all’Archivio Centrale del ministero degli Affari Esteri, incarico che gli lasciava sufficiente tempo libero per dedicarsi ai suoi studi.

    Negli anni Cinquanta, affascinato dalle esperienze dei fratelli Grimm, ma anche di altri folcloristi europei e dei paesi slavi occidentali, si concreta il suo interesse per il folclore russo: tra il 1855 e il 1863 escono, in otto fascicoli, le sue Fiabe popolari russe. L’edizione viene bersagliata dalla censura che ne impedisce una pubblicazione completa; le favole eliminate formeranno un insieme a parte, Le fiabe popolari russe non per la stampa, pubblicate poi parzialmente all’estero col titolo di Fiabe russe proibite.

    Oltre a ciò, Afanas’ev collabora a diverse importanti riviste dell’epoca, per esempio Il contemporaneo, Gli annali patri e Il Messaggero russo, con articoli scientifici; numerose sono pure le recensioni e gli articoli critici su giornali, oltre alla partecipazione ad almanacchi e a pubblicazioni scientifiche. Per quanto riguarda i contributi sul folclore, egli si colloca tra i sostenitori della cosiddetta «scuola mitologica», rappresentata in Russia da F.I. Buslaev e O.F. Miller, i quali vedono alla base delle fiabe popolari una mitologia indoeuropea unitaria cui i vari popoli avrebbero attinto.

    Nel 1858 fonda, insieme a N. Ščepkin, una sua rivista, Appunti bibliografici, la cui pubblicazione sarà pesantemente condizionata dalla censura: Afanas’ev, factotum della rivista, potrà ben di rado firmare con il proprio nome gli articoli, che resteranno anonimi o siglati con lo pseudonimo «I. M-k».

    Del 1859 sono le Leggende popolari russe, edite dalla tipografia di Herzen a Londra prima che a Mosca, dove la pubblicazione suscita lo sdegno del clero. Nell’aprile del 1860 il libro viene proibito e il censore che ne aveva permesso l’edizione licenziato. Le Leggende popolari russe vedranno nuovamente la luce in Russia solo nel 1914.

    Nell’estate del 1860 Afanas’ev poté compiere il tanto a lungo desiderato viaggio all’estero: insieme all’amico paesaggista V. Ammon, in poco più di tre mesi visitò la Germania, la Svizzera, l’Italia e l’Inghilterra, dove conobbe personalmente Herzen.

    L’arresto di Černyševskij nel 1862 portò al coinvolgimento di tutti coloro che avevano avuto contatti con Herzen: malgrado la perquisizione in casa di Afanas’ev non avesse condotto a nulla, egli venne licenziato dal ministero. Nei successivi tre-quattro anni, Afanas’ev non riuscì a trovare un nuovo posto fisso e tirò avanti con lavoretti saltuari con i quali a stento sopravviveva e manteneva la famiglia. Fu addirittura costretto a vendere la sua ricca biblioteca, frutto delle ricerche e degli acquisti di una vita.

    Nel 1863, terminata la pubblicazione delle Fiabe popolari russe, Afanas’ev iniziò a lavorare a un’edizione di Fiabe russe per bambini, la cui prima uscita è del 1870; preparò inoltre una seconda edizione riveduta e ampliata delle Fiabe popolari russe, che vide la luce postuma nel 1873.

    Del 1865 è il primo dei tre volumi su Le concezioni poetiche degli slavi sulla natura.

    A dispetto di tutte le vicissitudini passate, è proprio negli anni Sessanta che la fama di Afanas’ev raggiunge il suo apogeo: nel 1860 ottiene per le Leggende popolari russe la medaglia d’oro dalla Società geografica russa, nel 1865 il premio Demidov per le Fiabe popolari russe, nel 1867 e nel 1870 due premi Uvarov dall’Accademia delle Scienze per i volumi Le concezioni poetiche degli slavi sulla natura.

    Nel 1870 Afanas’ev si ammala di tubercolosi; il 23 settembre dell’anno successivo muore a Mosca e viene sepolto nel cimitero Pjatnickij. Ivan Turgenev, in una lettera dell’8 gennaio 1872 a Fet, scrive: «Da non molto è morto letteralmente di fame Afanas’ev, ma i suoi meriti letterari saranno ricordati quando io e Voi, caro amico, saremo stati già da tempo avvolti dalle tenebre dell’oblio».

    Nel 1872 venne pubblicata a Ginevra, postuma e anonima, la raccolta Fiabe russe proibite, comprendente parte delle favole, che, come detto, erano state espunte dalle Fiabe popolari russe a opera della censura zarista; sarebbe dovuta seguire una seconda edizione a completamento della prima, ma il progetto non fu portato a termine.

    Traduzioni italiane di A. Afanas’ev

    Antiche fiabe russe, trad. di Gigliola Venturi, Einaudi, Torino, 1953.

    Fiabe russe proibite, trad. di Pia Pera, Garzanti, Milano, 1990.

    Letture in italiano consigliate

    ju. sokolov, Il folclore russo, Einaudi, Torino, 1953.

    r. jakobson, «Sulle fiabe russe», in Premesse di storia letteraria slava, Il Saggiatore, Milano, 1975.

    v. propp, Edipo alla luce del folclore, Einaudi, Torino, 1975.

    v. propp, La fiaba russa. Lezioni inedite, Einaudi, Torino, 1990.

    v. propp, Morfologia della fiaba. Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma, 1992.

    N.B. La traduzione è stata condotta sul testo Narodnye russkie skazki v trech tomach, Mosca, 1984. I numeri tra parentesi alla destra delle fiabe rimandano ai numeri dell’originale russo. Delle fiabe tradotte, che sono la quasi totalità, viene data una sola variante. In alcuni casi all’interno delle fiabe sono stati usati dei diminutivi per i nomi propri.

    l.d.n.

    Masha e l’Orso

    e

    altre fiabe popolari russe

    Masha e l’Orso

    C’erano una volta un nonno e una nonna che avevano una nipotina di nome Masha. Un giorno le amichette di Masha passarono a chiamarla per andare tutte insieme a raccogliere funghi e bacche nel bosco.

    «Nonnino, nonnina, posso andare nel bosco con le mie amichette?», chiese Masha. E i nonni risposero: «Va bene, ma bada a non allontanarti mai dalle altre, altrimenti potresti perderti!».

    Le bambine entrarono nel bosco e cominciarono a raccogliere funghi e bacche.

    Cercando di albero in albero, di cespuglio in cespuglio, Masha si spinse sempre più lontano dalle sue amichette. Quando se ne accorse, la bambina iniziò a chiamarle, a gridare, ma nessuno la sentì e nessuno le rispose. Allora prese a girare e a vagare, finché non capì che si era persa davvero!

    Cammina cammina, Masha arrivò nella parte più fitta e isolata del bosco. A un tratto vide una casa; la bambina si avvicinò e bussò, ma nessuno venne ad aprire. Quando però provò a spingere la porta, questa si spalancò. Masha allora entrò nella casetta e si sedette su una panca vicino alla finestra, domandandosi curiosa: «Chi abiterà mai qui? E perché non si vede nessuno?».

    In verità, la casetta apparteneva a un orso grande e grosso, che in quel momento era fuori, nel bosco. Quando rincasò, quella sera, fu molto contento di trovare Masha.

    «Ah!», disse tutto soddisfatto. «Ora non ti lascerò mai più andare via! Vivrai qui con me: accenderai la stufa, cucinerai e mi apparecchierai la tavola».

    Masha si rattristò, protestò e si disperò, ma non ci fu niente da fare. Così prese a vivere a casa dell’orso: lui se ne andava tutta la giornata nel bosco e non le permetteva mai di uscire.

    «Se dovessi provare a scappare», diceva, «io ti troverò e ti mangerò!».

    Nonostante la paura, Masha cominciò a pensare a un modo per andarsene da lì. Ma come avrebbe potuto fare? Tutto intorno non c’era altro che bosco, e lei non conosceva la strada di casa, né c’era qualcuno a cui chiederla… Pensò e ripensò, finché le venne un’idea.

    Un giorno, quando l’orso fu di ritorno dal bosco, Masha gli disse: «Orso, orso, vorrei portare qualcosa ai miei nonni, ti prego, permettimi di andare una giornata al villaggio!».

    «No!», disse l’orso. «Nel bosco ti smarriresti. Se vuoi mandare qualcosa ai tuoi nonni, dallo a me: lo porterò io al villaggio».

    Masha non aspettava altro! Preparò dei pasticcini, prese un grosso cesto e disse all’orso: «Orso, metterò i pasticcini in questo cesto e tu li porterai al nonno e alla nonna, ma bada bene: non aprire il cesto e non mangiare i pasticcini. Io mi arrampicherò su quella quercia e ti terrò d’occhio da lassù!».

    «Va bene», disse l’orso, «dammi quel cesto!».

    Prima di darglielo però, Masha gli disse: «Vedi un po’ se fuori piove…».

    L’orso uscì per controllare e Masha si infilò in fretta nel cesto, si raggomitolò e si mise il piatto di pasticcini sulla testa.

    Quando l’orso rientrò e vide il cesto bell’e pronto, se lo caricò sulle spalle e, pensando che Masha fosse già salita sulla quercia, si mise in marcia verso il villaggio. Camminò tra abeti e betulle, giù nei burroni e su per le colline, finché non cominciò a sentirsi stanco. Allora si fermò, si guardò intorno e disse fra sé e sé: «Questo è proprio un bel posticino per mangiarsi un buon pasticcino».

    Ma, proprio mentre stava per aprire il cesto, udì la vocina di Masha: «Orso, ti vedo! Ti vedo! Non toccare i pasticcini, porta tutto ai miei nonnini!».

    «Che vista acuta ha quella bambina!», pensò l’orso. «Non le sfugge niente!».

    Così si rimise il cesto in spalla e proseguì.

    Dopo un po’ però la stanchezza si fece di nuovo sentire. L’orso allora si fermò, si sedette e disse fra sé e sé: «Questo è proprio un bel posticino per mangiarsi un buon pasticcino».

    Ma Masha, dal cesto, esclamò: «Orso, ti vedo! Ti vedo! Non toccare i pasticcini, porta tutto ai miei nonnini!».

    «Com’è furba quella bambina!», pensò l’orso. «Deve essersi messa molto in alto per vedere fin quaggiù!». Quindi si rialzò, si rimise il cesto in spalla e riprese a camminare, un po’ più in fretta stavolta.

    Giunto al villaggio, trovò la casa dove abitavano il nonno e la nonna della bambina e bussò con forza alla porta: «Toc, toc, toc! Aprite, voi di casa! Masha vi manda dei pasticcini!».

    Ma i cani, che avevano fiutato la presenza dell’orso, gli si lanciarono addosso, abbaiando e accorrendo da tutti i cortili.

    Spaventato a morte, l’orso posò il cesto accanto alla porta e fuggì via nel bosco senza mai voltarsi indietro.

    Il nonno e la nonna si affacciarono sull’uscio, si guardarono intorno e videro il cesto per terra.

    «Cosa mai ci sarà dentro quel cesto?», chiese la nonna. Il nonno sollevò il coperchio e, quando guardò all’interno, non credette ai suoi occhi: dentro il cesto c’era la loro piccola Masha, sana e salva!

    Il nonno e la nonna, felici come non mai, presero ad abbracciare e baciare la nipotina e, quando ebbero udito tutta la storia, si complimentarono con lei per essere stata così furba.

    Gli animali nella fossa (30)

    C’erano una volta un vecchio e una vecchia che non avevano altro bene se non un maiale. Andò il maiale nel bosco a mangiare ghiande. Gli viene incontro un lupo. «Maiale, maiale, dove vai?» «Nel bosco, a mangiare ghiande». «Portami con te!» «Ti porterei con me» dice il maiale «ma laggiù c’è una fossa larga e profonda, non ce la farai a saltarla». «Invece ce la farò», dice il lupo. E si incamminarono; cammina cammina per il bosco, giunsero alla fossa. «Andiamo», dice il lupo «salta». Il maiale saltò e passò la fossa. Anche il lupo saltò, ma ci finì dritto dentro. Be’, dopodiché il maiale mangiò ghiande a sazietà e se ne tornò a casa.

    Il giorno dopo, di nuovo il maiale va nel bosco. Gli viene incontro un orso. «Maiale, maiale, dove vai?» «Nel bosco, a mangiare ghiande». «Portami con te», dice l’orso. «Ti porterei, ma laggiù c’è una fossa larga e profonda, non ce la farai a saltarla». «Non temere, ce la farò», dice l’orso. Giunsero alla fossa. Il maiale saltò e passò la fossa; l’orso saltò, ma ci finì dritto dentro. Il maiale, dopo aver mangiato ghiande a sazietà, se ne tornò a casa.

    Il terzo giorno, il maiale di nuovo andò nel bosco a mangiare ghiande. Gli viene incontro una lepre. «Buongiorno, maiale!» «Buongiorno, lepre orecchiona!» «Dove vai?» «Nel bosco, a mangiare ghiande». «Portami con te». «No, orecchiona, laggiù c’è una fossa larga e profonda, non ce la farai a saltarla». «Io? Come sarebbe a dire che non ce la farò!» Si avviarono e giunsero alla fossa. Il maiale saltò e passò la fossa. La lepre saltò, ma ci cadde dentro. Be’, il maiale, dopo aver mangiato ghiande a sazietà, se ne tornò a casa.

    Il quarto giorno, ancora una volta il maiale va nel bosco a mangiare ghiande. Gli viene incontro una volpe; anche quella chiede che il maiale la porti con sé. «No» dice il maiale «laggiù c’è una fossa larga e profonda, non ce la farai a saltarla». «Ma sì, ma sì che ce la farò», dice la volpe. Be’, cadde anche lei nella fossa. Erano quindi quattro gli animali nella fossa, e iniziarono a preoccuparsi di come avrebbero trovato da mangiare.

    La volpe dice: «Mettiamoci un po’ a gridare: quello che si stancherà, quello verrà mangiato». Iniziarono a gridare; la lepre si ritirò per prima, mentre la volpe ebbe la meglio su tutti. Presero la lepre, la fecero a pezzi e se la mangiarono. Ma la fame si fece sentire e di nuovo si accordarono per gridare: quello che si fosse ritirato sarebbe stato mangiato. «Se sarò io a ritirarmi» dice la volpe «allora mangerete me, poco importa!» Iniziarono: solo il lupo cedette, non ne poteva più. La volpe e l’orso lo presero, lo fecero a pezzi e se lo mangiarono.

    Ma la volpe imbrogliò l’orso: gliene diede da mangiare solamente un pezzetto e nascose il resto per mangiarselo quatta quatta. Ecco che l’orso inizia di nuovo ad avere fame e dice: «Comare, comare, dove ti prendi da mangiare?». «Ma andiamo, compare! Ficcati un po’ una zampa sotto le costole, afferrane una, allora saprai che mangiare». L’orso lo fece, si ficcò una zampa sotto le costole e crepò. La volpe rimase sola. Dopodiché, divorato l’orso, la volpe iniziò ad avere fame.

    Sopra quella fossa c’era un albero, su quell’albero stava facendo il nido un tordo. La volpe se ne stava seduta nella fossa, non faceva che guardare il tordo e gli dice: «Tordo, tordo, cosa fai?». «Mi faccio il nido». «Per farci cosa?» «Per allevarci i miei piccoli». «Tordo, dammi da mangiare; se non mi dai da mangiare, mangerò i tuoi piccoli». Il tordo si affliggeva e si tormentava al pensiero di come nutrire la volpe. Volò al villaggio e le portò una gallina. La volpe sparecchiò la gallina e dice di nuovo: «Tordo, tordo, mi hai dato da mangiare?». «Ma sì». «Be’, allora dammi da bere». Il tordo si affliggeva e si tormentava al pensiero di come dissetare la volpe. Volò al villaggio e le portò dell’acqua. La volpe bevve a sazietà e dice: «Tordo, tordo, mi hai dato da mangiare?». «Ma sì». «Mi hai dato da bere?» «Ma sì». «Allora fammi uscire da questa fossa».

    Il tordo si affliggeva e si tormentava al pensiero di come tirare fuori la volpe. Poi iniziò a gettare dei rami nella fossa e ne gettò talmente tanti che la volpe se ne poté servire per arrampicarsi fino a fuori; dopodiché si allungò ai piedi dell’albero. «Allora» dice «mi hai dato da mangiare, tordo?» «Ma sì». «Mi hai dato da bere?» «Ma sì». «Mi hai fatto uscire dalla fossa?» «Ma sì». «Be’, adesso fammi ridere». Il tordo si affliggeva e si tormentava al pensiero di come fare ridere la volpe. «Volerò fino al villaggio» dice «e tu, volpe, seguimi». Bene; il tordo volò fino al villaggio, si posò sul portone di un ricco contadino, mentre la volpe vi si accucciò ai piedi. Il tordo cominciò a gridare: «Nonnina, nonnina, portami un pezzo di lardo! Nonnina, nonnina, portami un pezzo di lardo!». Saltarono fuori dei cani e fecero a pezzi la volpe.

    Ci sono stata, ho bevuto del moscato, sulle labbra è scivolato, in bocca non è arrivato. Mi hanno dato un caffettano verde; mi sono avviata: le cornacchie volano e gridano: «Verde il caffettano, verde il caffettano!». Ho creduto di sentire: «Getta il caffettano», ho preso e me ne sono sbarazzata. Mi hanno dato un cappello blu. Le cornacchie volano e gridano: «Blu il cappello, blu il cappello!». Ho creduto di sentire: «Giù il cappello!», me ne sono sbarazzata e sono rimasta senza più niente.

    Il gatto, il gallo e la volpe (37)

    C’era una volta un vecchio che aveva un gatto e un gallo. Il vecchio se ne andò nel bosco a lavorare, il gatto gli portò da mangiare, mentre il gallo fu lasciato a far la guardia alla casa. In quel momento arrivò una volpe.

    Chicchirichì Galletto,

    Cresta d’oro, graziosetto!

    Mostrati, fatti ammirare,

    Ti darò dei piselli da mangiare.

    Così cantava la volpe, seduta sotto la finestra. Il gallo aprì la finestra e mise fuori la testina per vedere chi cantasse. La volpe afferrò il gallo e lo portò via. Il gallo iniziò a gridare: «La volpe mi ha preso, porta il gallo per boschi scuri, verso paesi lontani, verso terre straniere, terre ai confini del mondo, in un reame ai confini del mondo, in uno stato ai confini del mondo. Gatto Gattonovič, salvami!». Il gatto nel campo sentì la voce del gallo, si lanciò all’inseguimento, raggiunse la volpe, liberò il gallo e lo riportò a casa. «Sta’ attento, Galletto» gli dice il gatto «non ti affacciare più, non credere alla volpe; ti mangerà senza lasciare nemmeno un ossetto».

    Il vecchio se ne andò di nuovo nel bosco a lavorare e il gatto gli portò da mangiare. Andandosene, il vecchio raccomandò al gallo di fare la guardia alla casa e di non affacciarsi. Ma la volpe stava spiando, aveva una voglia matta di mangiare il gallo; si avvicinò all’izbà e iniziò a cantare:

    Chicchirichì Galletto,

    Cresta d’oro, graziosetto!

    Mostrati, fatti ammirare,

    Ti darò dei piselli da mangiare,

    Tanto grano da farti scoppiare.

    Il gallo camminava avanti e indietro per l’izbà e taceva. La volpe di nuovo iniziò a cantare la sua canzoncina e lanciava dei piselli attraverso la finestra. Il gallo beccò i piselli e dice: «No, volpe, non mi inganni! Tu vuoi mangiarmi senza lasciare nemmeno un ossetto». «Ma cosa dici, Galletto! Io volerti mangiare! Vorrei solo che tu venissi ospite da me, che vedessi come me la passo e dessi un’occhiata alle mie cose!», e giù a cantare:

    Chicchirichì Galletto,

    Cresta d’oro, graziosetto,

    Con le piume variopinte!

    Mostrati, fatti ammirare,

    Dei piselli hai avuto in dono,

    Ti darò anche del grano.

    Il gallo diede solo un’occhiata dalla finestra e subito la volpe lo afferrò. Il gallo si mise a gridare a squarciagola: «La volpe mi ha preso, porta il gallo per boschi scuri, per fitte pinete, per monti e mari; vuole mangiarmi senza lasciare nemmeno un ossetto!». Il gatto nel campo sentì, si lanciò all’inseguimento, liberò il gallo e lo riportò a casa: «Non ti avevo detto: non aprire la finestra, non affacciarti, la volpe vuole mangiarti senza lasciare nemmeno un ossetto? Sta’ attento, dammi ascolto! Domani saremo molto lontani».

    Il vecchio di nuovo se ne andò a lavorare e il gatto gli portò da mangiare. La volpe scivolò sotto la finestra e iniziò a cantare la stessa canzoncina; cantò tre volte, ma il gallo non fiatava. La volpe dice: «Guarda un po’, il gallo oggi è diventato muto!». «No, volpe, non mi inganni, non mi affaccerò». La volpe iniziò a lanciare piselli e grano attraverso la finestra e riprese a cantare:

    Chicchirichì Galletto,

    Cresta d’oro, graziosetto,

    Con le piume variopinte!

    Mostrati, fatti ammirare,

    Ho un enorme appartamento

    Pieno di chicchi di frumento:

    Mangerai fino a scoppiare!

    Poi aggiunse: «Se tu vedessi, Galletto, quante rarità ci sono da me! Mostrati dunque, Galletto! Basta, non credere al gatto. Se avessi voluto davvero mangiarti, l’avrei fatto da un pezzo; invece, vedi, mi sei simpatico, ti voglio far vedere il mondo, darti dei buoni consigli e insegnarti a vivere. Andiamo, Galletto, mostrati, mi metterò dietro l’angolo!», e si appiattì di più contro il muro. Il gallo saltò su una panca e guardò lontano, per assicurarsi che la volpe se ne fosse andata. Ma non appena si fu affacciato, la volpe lo afferrò e chi s’è visto s’è visto.

    Il gallo si mise a gridare come al solito, ma il gatto non lo sentì. La volpe portò il galletto oltre la giovane abetaia e se lo mangiò, lasciando sparpagliare al vento la coda e le piume. Il vecchio e il gatto arrivarono a casa e non trovarono il gallo; per quanto si affliggessero, alla fine dissero: «Ecco dove conduce la disubbidienza!».

    Il lupo e la capra (53)

    C’era una volta una capra che si era costruita una capanna nel bosco e aveva messo al mondo dei capretti. Spesso andava nella foresta in cerca di cibo; non appena esce, i capretti sprangano la porta e restano in casa. Al suo ritorno, la capra bussa alla porta e canticchia: «Capretti, pargoletti! Aprite, aprite in fretta! Sono stata nella pineta, ho brucato l’erba di seta, ho bevuto dell’acqua gelata. Scorre il latte dalle mammelle, dalle mammelle sugli zoccoli, dagli zoccoli si perde per terra!». I capretti si affrettano ad aprire la porta e fanno entrare la madre, che li allatta e poi torna nella foresta, mentre i capretti si chiudono dentro a doppia mandata.

    Il lupo aveva sentito tutto origliando; aspettò il momento buono, e non appena la capra fu andata nella foresta, si avvicinò alla capanna e gridò con la sua voce cavernosa: «Figlioletti, piccoletti, aprite, aprite in fretta! È arrivata la mamma, carica di latte, con gli zoccoli pieni d’acqua!». Ma i capretti rispondono: «No, no, non è la vocetta della mamma! La nostra mamma ha una voce sottile e dice altre cose». Il lupo se ne andò e si nascose. Ecco arrivare la capra che bussa: «Capretti, pargoletti! Aprite, aprite in fretta! Sono stata nella pineta, ho brucato l’erba di seta, ho bevuto dell’acqua gelata. Scorre il latte dalle mammelle, dalle mammelle sugli zoccoli, dagli zoccoli si perde per terra!».

    I capretti lasciarono entrare la madre e le raccontarono che era venuto il lupo cattivo e voleva mangiarli. La capra li allattò e, uscendo per andare nella foresta, raccomandò fermamente di non aprire per nessun motivo al mondo a chiunque si fosse avvicinato all’izbà e avesse parlato loro con voce cavernosa e non avesse ripetuto le sue precise parole. Si era appena allontanata la capra, che il lupo sopraggiunse di corsa, bussò alla porta dell’izbà e cominciò a canterellare con una vocetta flebile: «Capretti, pargoletti! Aprite, aprite in fretta! Sono stata nella pineta, ho brucato l’erba di seta, ho bevuto dell’acqua gelata. Scorre il latte dalle mammelle, dalle mammelle sugli zoccoli, dagli zoccoli si perde per terra!». I capretti aprirono la porta, il lupo si precipitò nell’izbà e li divorò tutti; si salvò solo un capretto, che si era nascosto nel forno.

    La capra torna; ma aveva un bel canticchiare, nessuno le rispondeva. Si avvicinò di più alla porta e vede tutto spalancato; entrò, tutto era deserto; guardò dentro il forno e scoprì l’unico capretto rimasto. Quando la capra conobbe la sua disgrazia, si accasciò su una panca e iniziò a piangere amaramente e a lamentarsi: «Ah, piccolini miei, caprettini! Perché avete aperto-spalancato, siete finiti in bocca al lupo cattivo? Vi ha divorati tutti e ha gettato me, la capra, nel dolore e nello sconforto». Il lupo, che l’aveva sentita, penetra nell’izbà e dice alla capra: «Oh, comare, comare! Di cosa mi accusi? Non sono stato io! Andiamo a fare una passeggiata nella foresta». «No, compare, non ho l’umore adatto per fare passeggiate». «Ma su, andiamo!», insiste il lupo.

    Se ne andarono nel bosco, trovarono una fossa, e in quella fossa i briganti avevano cotto da poco della polenta, e c’era rimasto fuoco a sufficienza. La capra dice al lupo: «Compare, perché non proviamo a vedere chi riuscirà a saltare la fossa?». Detto fatto. Il lupo saltò e cadde nella fossa ardente; la sua pancia per il calore scoppiò e ne saltarono fuori i capretti, che si precipitarono verso la loro mamma. Da allora, vivono felici e contenti, sono diventati furbi e non si cacciano nei pasticci.

    Lo svernare degli animali (64)

    Se ne andava un toro per il bosco; incontra un montone. «Dove vai montone?», chiese il toro. «Fuggo l’inverno e cerco l’estate», dice il montone. «Vieni con me!» Si incamminarono insieme; incontrano un maiale. «Dove vai maiale?», chiese il toro. «Fuggo l’inverno e cerco l’estate», risponde il maiale. «Vieni con noi!» Ripartirono dunque in tre; incontrano un’oca. «Dove vai oca?», chiese il toro. «Fuggo l’inverno e cerco l’estate», risponde l’oca. «Bene, seguici!» E anche l’oca si avviò dietro a loro. Intanto stava sopraggiungendo un gallo. «Dove vai gallo?», chiese il toro. «Fuggo l’inverno e cerco l’estate», risponde il gallo. «Seguici!»

    Eccoli quindi che vanno e cammin facendo conversano tra loro: «Allora, amici cari! Arriva il freddo: dove trovare un po’ di caldo?». Il toro dice: «Costruiamoci un’izbà, altrimenti rischiamo davvero di gelare». Il montone dice: «Io ho una pelliccia calda; guardate che pelo! Posso svernare anche così». Il maiale dice: «Io nemmeno ho paura del grande freddo: mi seppellisco nella terra e sverno senza izbà». L’oca dice: «Io invece mi metto tra i rami di un abete, utilizzo un’ala come letto e l’altra come coperta: il freddo mi fa un baffo, posso svernare anche così». Il gallo dice: «Per me è la stessa cosa!». Il toro vede che la faccenda si mette male, deve ingegnarsi da solo. «Bene» dice «fate come vi pare, ma io mi costruirò un’izbà». Si costruì un’izbà e iniziò a viverci.

    Giunse l’inverno rigoroso, il gelo imperversava; il montone – non può fare altrimenti – va dal toro: «Permettimi, fratello, di riscaldarmi un pochino». «No, montone, hai una pelliccia calda; puoi svernare anche così. Non ti lascerò entrare!» «Se non mi lasci entrare, allora io prendo la rincorsa e con le mie corna abbatto una trave della tua capanna; avrai certo più freddo». Il toro pensava, pensava: È meglio lasciarlo entrare, altrimenti, magari, gelerò anch’io, e fece entrare il montone. Ecco che anche il maiale, intirizzito, andò dal toro: «Permettimi, fratello, di riscaldarmi un pochino». «No, non ti lascerò entrare; non hai che da seppellirti nella terra e svernare così!» «Se non mi lasci entrare, allora scalzerò col muso tutti i pali della tua izbà e la farò crollare». Non c’era scelta, bisognava farlo entrare; fece entrare anche il maiale. Vennero poi dal toro l’oca e il gallo: «Permettici, fratello, di riscaldarci un pochino». «No, non vi lascerò entrare. Voi avete le vostre ali: una per farvi da letto e l’altra da coperta; potete passare l’inverno così!» «Se non mi lasci entrare» dice l’oca «allora strapperò tutto il muschio dalle tue pareti; avrai certo più freddo». «Non mi lasci entrare?» dice il gallo. «Allora volerò in cima all’izbà, toglierò la terra dal tetto; avrai certo più freddo». Cosa doveva fare il toro? Fece stare con lui anche l’oca e il gallo.

    Abitano quindi tutti d’amore e d’accordo nella stessa izbà. Il gallo, rinvigorito dal calore, cominciò perfino a cantare. La volpe lo udì cantare e le venne voglia di godersi un buon galletto, ma come averlo? Si decise a usare l’inganno; andò dall’orso e dal lupo e disse: «Be’, cari compari, ho trovato una preda per tutti: per te, orso, un toro; per te, lupo, un montone; per me invece un gallo». «Bene, comare» dicono l’orso e il lupo «non ci dimenticheremo mai dei tuoi servigi! Andiamo, sgozziamoli e mangiamoceli!»

    La volpe li condusse all’izbà. «Compare» dice all’orso «apri la porta: io andrò avanti e mangerò il gallo». L’orso aprì la porta e la volpe si precipitò nell’izbà. Il toro l’aveva vista e subito la costrinse con le sue corna al muro, mentre il montone iniziò a martellarle i fianchi; la volpe esalò l’anima. «Ma quanto ci mette a mangiare il suo gallo?» dice il lupo. «Apri fratello Michajlo Ivanovič! Entrerò io». «Va bene, vai». L’orso aprì la porta e il lupo si precipitò nell’izbà. Il toro costrinse anche lui con le sue corna al muro, mentre il montone gli martellava i fianchi in modo talmente pressante che il lupo rese l’ultimo respiro. L’orso, intanto, aspettava, aspettava: «Ma quanto ci mette a mangiare il suo montone! Ora vado io». Entrò nell’izbà; ma il toro e il montone lo accolsero allo stesso modo. A stento riuscì a salvarsi e filò via senza voltarsi.

    La favola di Carpa Carpovna, figlia setolosa (78)

    C’era una volta una carpetta, spiona e con la pancetta, che aveva una bella casetta. Divenuta, che avara!, poveretta, se ne andò la carpetta sul lago di Rostov, su un traino miserabile, a stento presentabile. Iniziò a gridare la carpetta con la sua forte vocetta: «Sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e voi ultimi pescetti, lasche-orfanelle! Permettetemi di fare una passeggiata nel vostro lago. Non resterò certo un anno: farò festa solo un’ora, mangiando pane e sale, ascoltandovi chiacchierare». I pesci, sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e le piccole lasche-orfanelle diedero il permesso alla carpa di passeggiare un’ora nel loro lago.

    La carpa passeggiò per un’ora e cominciò a tormentare i pesci a iosa, a spingerli contro la riva fangosa. Offesi, quelli andarono a lamentarsi della carpa da Simone-storione il giusto: «Simone-storione il giusto, perché la carpa ci offende? Ci ha domandato il permesso di passare un’ora nel nostro lago, e adesso cerca di cacciarci tutti via. Indaga e giudica tu, Simone-storione il giusto, secondo giustizia e verità». Simone-storione il giusto mandò il piccolo ghiozzo a cercare la carpa. Il ghiozzo cercò la carpa per tutto il lago, ma non riuscì a trovarla. Simone-storione il giusto mandò il medio luccio a cercare la carpa.

    Il luccio si immerse nel lago, si diede un colpo di coda e scoprì la carpa nel fondo di un incavo. «Salve, carpetta!» «Salve, caro luccio! Perché sei venuto?» «Ho l’ordine di portarti da Simone-storione il giusto, che forse ti farà mettere in catene: si sono lamentati di te». «Chi è stato?» «Tutti i pesci: sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e gli ultimi pescetti, le lasche-orfanelle, anche quelle protestano, e perfino il siluro, un rustico con le labbra grosse e che non sa parlare, anche quello ha presentato una supplica contro di te; andiamo, carpa, affrettiamoci per sentire la sentenza». «No, caro luccio! Piuttosto, andiamo a far baldoria insieme». Il luccio si rifiuta di far baldoria con la carpa, vuole invece trascinare la carpa davanti al tribunale perché la condannino al più presto. «Be’, luccio, nonostante la tua testa puntuta, non mi metterai il sale sulla coda! E poi oggi è sabato, mio padre dà una bella festa: ci sarà da mangiare e da divertirsi; andiamoci, beviamo un po’, facciamo baldoria per una sera, e domani, anche se è domenica, andremo – e sia! – al tribunale; almeno avremo lo stomaco pieno». Il luccio accettò e andò a far baldoria con la carpa; quella lo fece ubriacare, lo mise in uno stambugio, la porta accostò, con un palo la sprangò.

    A lungo in tribunale aspettarono il luccio e poi si stufarono. Simone-storione il giusto mandò l’enorme siluro a cercare la carpa. Quello si immerse nel lago, si diede un colpo di coda e scoprì la carpa nel fondo di un incavo. «Salve, mia cara nuora!» «Salve suocero mio!» «Andiamo, carpa, al tribunale; si sono lamentati di te». «Chi è stato?» «Tutti i pesci: sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e gli ultimi pescetti, le lasche-orfanelle!» La carpa era davvero la nuora del siluro: il siluro seppe prenderla in braccio e portarla di persona in tribunale. «Simone-storione il giusto, perché mi hai convocata d’urgenza?», chiese la carpa. «E come non farlo? Hai chiesto di passare un’ora nel lago di Rostov, dopodiché hai tentato di cacciare tutti dal lago. L’hanno trovato molto seccante; si sono riuniti tutti, sterletti, salmoni, pesci persici, tinche e le piccole lasche-orfanelle e sono venuti a presentare personalmente una supplica contro di te: risolvi, dice, Simone-storione, la questione con equità!» «Ascolta ora» risponde la carpa «anche la mia supplica: sono loro ad avermi recato offesa: i solchi divisori sono scomparsi, gli argini corrosi, e io che una sera tardi seguivo la riva, di fretta, con un bel bottino, sono caduta dalla riva nel lago, e insieme a un pezzo di terra! Simone-storione il giusto fai venire i pescatori di tutto lo stato, di’ loro di gettare le reti più fitte e di spingere i pesci verso una strettoia; allora saprai chi ha ragione e chi ha torto; quello che ha detto la verità non resterà nella rete, ma ne salterà fuori».

    Simone-storione il giusto ascoltò la supplica della carpa, convocò i pescatori di tutto lo stato e fece spingere i pesci verso una strettoia. Fu per prima la carpina a cadere nella retina, ma si dibatté, guizzò, sgranò gli occhi e riuscì a liberarsi prima degli altri. «Vedi, Simone-storione il giusto, chi aveva ragione e chi torto?» «Vedo che sei tu, carpa, ad avere ragione; va nel lago e nuota a tuo piacimento. Ora nessuno ti infastidirà più, a meno che il lago non si prosciughi e un corvo non ti tiri fuori dal fango». La carpetta si allontanò nel lago con fare spavaldo: «Attenti a voi, sterletti e salmoni! Avrete mie notizie, pesci persici e tinche! E voi anche, piccole lasche-orfanelle! Il siluro dalla testa piatta non se la caverà così: to’, non sa parlare, ha le labbra grosse, ma sapeva come presentare una supplica! Me la pagherete tutti!». Arrivò Luigi in giornata, non gli piacque la spacconata; arrivò Pietro con una canna dietro; Alessio una diga ha messo; Simone una nassa per la carpa pone; Paolino viene a vedere il bottino; quando Nicola ritira la nassa, la carpa tra le dita gli passa.

    La volpe e la gru (33)

    La volpe aveva fatto amicizia con la gru, era persino diventata sua comare per via di un battesimo.

    Un bel giorno, la volpe decise di invitare a cena la gru e andò da lei a chiamarla: «Vieni, comare, vieni mia cara! Vedrai che bel pranzetto ti preparerò!». La gru si presenta al banchetto, ma la volpe aveva cucinato una pappa di semolino e l’aveva stesa in un piatto. Servì e iniziò a fare la parte della padrona di casa ospitale: «Mangia, cara comare, colombella! Ho cucinato io stessa». La gru, toc toc col becco, batteva, batteva senza prendere niente! La volpe, intanto, a forza di leccare, spolverò tutto quello che c’era nel piatto da sola.

    La pappa fu mangiata; la volpe dice: «Scusami, cara comare! Non ho più niente da offrirti». «Grazie comare, e a buon rendere! Vieni a farmi visita».

    Il giorno dopo arriva la volpe, ma la gru aveva preparato una minestra e l’aveva messa in una brocca dal collo stretto; la portò in tavola e dice: «Mangia, comare! Parola mia, non ho altro da darti». La volpe cominciò a girare intorno alla brocca, si accosta da un lato, poi dall’altro, tenta di dare una leccata, sniffa, ma tutto invano! Il suo muso non entra nella brocca. Nel frattempo, la gru non smette di beccare, finché non ebbe mangiato tutto. «Scusami, comare! Non ho altro da offrirti». La volpe era verde dalla rabbia: sperava di rimpinzarsi per un’intera settimana e invece tornò a casa con le pive nel sacco. Chi la fa, l’aspetti! Da allora anche l’amicizia tra la volpe e la gru è finita.

    La vecchia avida (76)

    C’erano una volta un vecchio e una vecchia; un giorno il brav’uomo se ne andò nel bosco a fare la legna. Scelse un vecchio albero, alzò la scure e stava per colpirlo. L’albero gli dice: «Risparmiami, contadino! Farò tutto quello che mi chiederai». «Allora fammi diventare ricco». «D’accordo: torna a casa e avrai tutto a volontà». Il vecchio tornò a casa: izbà nuova, ogni cosa in abbondanza, quattrini a palate, grano per decine di anni, e vacche, cavalli e pecore che non si potrebbero contare in tre giorni! «Ah, vecchio, da dove proviene tutto questo?», domanda la vecchia. «Ecco, moglie mia, mi è capitato un albero che fa tutto quello che voglio».

    Dopo circa un mese, la vecchia ne ebbe abbastanza della sua ricca casa e dice al vecchio: «A che serve essere ricchi, se la gente non ci rispetta! Il borgomastro, se vuole, può spedirci a lavorare e cogliere un pretesto pure per bastonarci. Vai dall’albero e chiedigli di farti diventare borgomastro». Il vecchio prese la scure, andò dall’albero e vuole tagliarlo alla radice. «Cosa vuoi?», domanda l’albero. «Fammi diventare borgomastro». «D’accordo, vai con Dio!»

    Al suo ritorno, il vecchio trovò dei soldati che da tempo lo aspettavano: «Dove te ne vai a zonzo» iniziarono a gridare «vecchio diavolo? Trovaci in fretta un alloggio, e che sia buono. Su, datti da fare!». E giù a dargliele con il piatto delle loro spade. Vede la vecchia che anche il borgomastro non sempre è rispettato e dice al vecchio: «Ecco che si guadagna a essere la moglie del borgomastro! Dei soldati ti hanno picchiato, e non parliamo del signore, che fa quel che vuole. Vai un po’ dall’albero e chiedigli di far diventare te un signore e me una gran dama».

    Il vecchio prese la scure, andò dall’albero e vuole di nuovo tagliarlo; l’albero chiede: «Cosa vuoi, vecchio?». «Cambia me in signore e la mia vecchia in una gran dama». «D’accordo, vai con Dio!» La vecchia, divenuta una gran dama, volle ancora di più; e dice al vecchio: «Per quello che si guadagna a essere gran dama! Se tu fossi un colonnello e io tua moglie, sarebbe differente, tutti ci invidierebbero».

    Spedì ancora una volta il vecchio dall’albero; quello prese la scure, andò dall’albero e si appresta a tagliarlo. L’albero gli chiede: «Cosa vuoi?». «Cambia me in colonnello e la mia vecchia in colonnella». «D’accordo, vai con Dio!» Il vecchio tornò a casa e fu nominato colonnello.

    Dopo un po’ di tempo, la vecchia gli dice: «Bell’affare essere colonnello! Il generale, se gli gira, può farti arrestare. Vai dall’albero e chiedigli di far diventare te generale e me generalessa». Il vecchio tornò dall’albero, vuole tagliarlo con la scure. «Cosa vuoi?», chiede l’albero. «Cambia me in generale e mia moglie in generalessa». «D’accordo, vai con Dio!» Il vecchio tornò a casa, e fu promosso generale.

    Dopo un altro po’ di tempo, la vecchia fu stanca anche di essere generalessa; dice al vecchio: «Bell’affare essere generale! Il sovrano, se gli gira, può spedirti in Siberia. Vai dall’albero e chiedigli di cambiare te in zar e me in zarina». Il vecchio arrivò dall’albero, vuole tagliarlo con la scure: «Cosa vuoi?», chiede l’albero. «Cambia me in zar e mia moglie in zarina». «D’accordo, vai con Dio!» Il vecchio tornò a casa e trovò degli emissari, che gli dissero: «Il sovrano è morto e tu sei stato scelto al suo posto».

    I due non regnarono a lungo; alla donna sembrò poco essere zarina, chiamò il vecchio e gli dice: «Bell’affare essere zar! Dio, se vuole, può farti morire e ti seppelliranno nella umida terra. Vai un po’ dall’albero e chiedigli di cambiarci in divinità».

    Il vecchio andò dall’albero. Quello, dopo aver ascoltato dei propositi tanto insensati, rispose al vecchio, facendo fremere le foglie: «Che tu sia un orso e tua moglie un’orsa». In quell’istante il vecchio si tramutò in orso e la vecchia in orsa, e si addentrarono correndo nel bosco.

    La baba-jaga e Scricciolino (105)

    C’erano una volta un vecchio e una vecchia che non avevano figli. Per quanto facessero e pregassero Dio, la vecchia non rimaneva incinta. Un giorno, il vecchio andò nel bosco a raccogliere funghi; per la strada incontra un vegliardo. «Io so» dice «quello che ti preoccupa; non pensi che ad avere bambini. Fa’ il giro del villaggio, prendi un uovo in ogni casa e falli covare a una gallina; vedrai tu stesso cosa ne verrà fuori!» Il vecchio rientrò al villaggio, che comprendeva quarantuno famiglie; andò di izbà in izbà, si fece dare da ognuno un uovo e fece covare le quarantuno uova a una gallina. Dopo due settimane, il vecchio guarda, anche la vecchia guarda: da quei gusci erano nati dei ragazzini; quaranta sani e vigorosi, il quarantunesimo, invece, non era riuscito bene: fragile e gracile! Il vecchio diede ai bambini dei nomi; li diede a tutti, ma non ne trovava uno adatto per l’ultimo. «Be’», dice «ti chiamerai Scricciolino!»

    I bambini crescevano, crescevano a vista d’occhio; diventarono grandi e cominciarono a lavorare, il padre e la madre ad aiutare: i quaranta robusti si danno da fare nei campi, mentre Scricciolino si occupa della casa. Venne il tempo della falciatura; i quaranta falciarono l’erba, divisero il fieno in mucchi e tornarono al villaggio, dopo circa una settimana di lavoro; mangiarono alla buona e si misero a dormire. Il vecchio li guarda e dice: «Che giovanotti! Mangiano a quattro palmenti, dormono sodo, ma scommetto che il lavoro non è andato avanti di un millimetro!». «Vai prima a vedere sul posto, padre!», interviene Scricciolino. Il vecchio attaccò i cavalli e andò nei campi; diede un’occhiata: c’erano quaranta mucchi di fieno. «E bravi i miei ragazzi! Quanto hanno falciato e ammucchiato in una sola settimana».

    Il giorno dopo il vecchio tornò nei campi per ammirare i suoi averi; arrivò, ma uno dei covoni era sparito! Tornò a casa e dice: «Ah, figli miei! Ci è sparito un covone». «Non ti agitare, padre!» risponde Scricciolino. «Prenderemo il ladro; dammi un po’ cento rubli e sistemerò tutto». Prese dal padre i cento rubli e andò dal fabbro: «Potresti forgiarmi una catena che basti a legare saldamente un uomo dalla testa ai piedi?». «Perché no!» «Bada bene di farla solida; se regge bene, avrai cento rubli, ma se si rompe, ci rimetterai il lavoro!» Il fabbro

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1