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Il gatto con gli stivali e tante altre storie di gatti
Il gatto con gli stivali e tante altre storie di gatti
Il gatto con gli stivali e tante altre storie di gatti
E-book728 pagine8 ore

Il gatto con gli stivali e tante altre storie di gatti

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Info su questo ebook

Charles Perrault • Charles Baudelaire • Lewis Carroll • Charles Dickens • Ralph Waldo Emerson • John Keats • Abraham Lincoln • Nikolaj Rimskij-Korsakov • William Shakespeare • Percy Bysshe Shelley • Oscar Wilde • Émile Zola...

«Chi possiede una natura raffinata e delicata può comprendere un gatto. Le donne, i poeti e gli artisti lo tengono in grande considerazione, perché comprendono la squisita delicatezza del suo sistema nervoso; in realtà, solo chi è rozzo non riesce a capire la naturale distinzione di questo animale», scriveva nell’Ottocento il romanziere francese Champfleury. Chiunque abbia avuto il piacere di godere dell’amicizia di questo felino non può che essere d’accordo. Fin dai tempi più antichi il gatto ha infatti condiviso la sua vita con l’uomo, dando al rapporto un’impronta particolare, fatta di tenera seduzione (cosa c’è di più irresistibile delle sue fusa?), indipendenza ostentata, affetto e insieme distacco. E una buona dose di intelligenza e furbizia, come testimonia la favola più conosciuta che lo vede protagonista, quella del Gatto con gli stivali. Spesso la sua innata eleganza e quel senso di superiorità e mistero che gli brilla nello sguardo ne hanno fatto un animale sacro o diabolico, a seconda delle epoche e dei Paesi. Questo libro raccoglie, insieme alla fiaba di Perrault, un gran numero di racconti, poesie e brani di romanzi dedicati ai gatti da parte dei più grandi scrittori di tutti i tempi.

«Un mugnaio lasciò per eredità ai suoi tre figli solo il mulino, un asino e un gatto. Le parti furono presto fatte: non vi fu bisogno né di avvocati né di notai. Costoro si sarebbero mangiati in un boccone il povero patrimonio. Il figlio maggiore ebbe il mulino, il secondo l’asino, e il più giovane non ebbe che il Gatto.»
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854137233
Il gatto con gli stivali e tante altre storie di gatti

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    Anteprima del libro

    Il gatto con gli stivali e tante altre storie di gatti - AA.VV.

    364

    Tutte le traduzioni sono di Rita Gatti ad eccezione di:

    La Sfinge di Oscar Wilde, trad. di Masolino d’Amico,

    da Tutte le opere, Newton Compton 1994;

    Il Gatto e il vecchio Topo, Il vecchio Gatto e il Topolino, Il Gatto e il Topo,

    Il Gatto, la Donnola e il Coniglio, L’Aquila, la Scrofa e la Gatta,

    La Scimmia e il Gatto di Jean de La Fontaine, trad. di Emilio De Marchi,

    da Favole, Newton Compton 1994;

    Il gatto fa società col topo, Il povero garzone di fornaio e la gattina,

    La volpe e il gatto dei Fratelli Grimm, trad. di Brunamaria Dal Lago Veneri,

    da Tutte le fiabe, Newton Compton 1994;

    La gatta e Afrodite di Esopo, trad. di Mario Giammarco,

    da Favole, Newton Compton 1995;

    La Gatta Bianca di Madame d’Aulnoy,

    Il gatto con gli stivali di C. Perrault, trad. di Elena Giolitti,

    da I racconti delle fate. Fiabe francesi alla corte del Re Sole,

    Newton Compton 1994;

    Il gatto nero di Edgar Allan Poe, trad. di Daniela Palladini,

    da Tutti i racconti, le poesie e «Gordon Pym», Newton Compton 1992

    Prima edizione ebook: novembre 2011

    © 2002 Newton & Compton editori s.r.l.

    © 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3723-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Gatto con gli stivali

    e tante altre storie di gatti

    Charles Perrault · Charles Baudelaire · Lewis Carroll · Charles Dickens · Ralph Waldo Emerson · John Keats · Abraham Lincoln · Nikolaj Rimskij-Korsakov · William Shakespeare · Percy Bysshe Shelley · Oscar Wilde · Émile Zola...

    Newton Compton editori

    PREFAZIONE

    «Chi possiede una natura raffinata e delicata può capire un gatto. Le donne, i poeti e gli artisti lo tengono in grande considerazione, perché comprendono la squisita delicatezza del suo sistema nervoso; in realtà, solo chi è rozzo non riesce a capire la naturale distinzione di questo animale», scriveva nell’Ottocento il romanziere francese Champfleury.

    Chiunque abbia avuto in sorte il piacere di godere dell’amicizia di questo essere straordinario non può che essere d’accordo. Fin dai tempi più antichi il gatto ha infatti condiviso la sua vita con l’uomo, dando al rapporto un’impronta particolare, fatta di tenera seduzione (cosa c’è di più irresistibile delle fusa di un micio?), indipendenza ostentata, affetto e insieme distacco. E spesso la sua innata eleganza e quel senso di superiorità e mistero che gli brilla nello sguardo ne hanno fatto un animale sacro o diabolico, a seconda delle epoche e dei paesi.

    La sua indole straordinaria ha ispirato attraverso i secoli artisti di ogni paese. Soprattutto il rapporto con gli scrittori è stato da sempre talmente stretto che Aldous Huxley arrivò ad affermare: «Se vuoi diventare un autore di romanzi psicologici e scrivere sugli esseri umani, la cosa migliore da fare è avere in casa un paio di gatti».

    Questo libro riunisce un gran numero di racconti, versi, brani di romanzi che hanno per protagonista il gatto, cominciando dal più celebre, Il Gatto con gli stivali di Charles Perrault, cui è dedicato il capitolo iniziale. Seguono gli altri testi, raggruppati in capitoli dedicati ciascuno a un particolare aspetto di questo enigmatico animale, che sa presentarsi di volta in volta come «Signore del focolare», «Piccola tigre», «Lady gatta» e così via.

    Sfilano così in queste pagine gatti di ogni specie e di ogni età, ritratti da autori di ogni epoca: da Esopo a Mark Twain, da La Fontaine a Benjamin Franklin, da Heinrich Heine a Edgar Allan Poe.

    IL GATTO CON GLI STIVALI

    Un mugnaio lasciò per eredità ai suoi tre figli solo il mulino, un asino e un gatto.

    Le parti furono presto fatte: non vi fu bisogno né d’avvocati né di notai. Costoro si sarebbero mangiati in un boccone il povero patrimonio. Il figlio maggiore ebbe il mulino, il secondo l’asino, e il più giovane non ebbe che il Gatto.

    Quest’ultimo non sapeva darsi pace per avere avuto una parte così misera:

    «I miei fratelli», diceva, «si potranno guadagnare onestamente la vita mettendosi in società; ma quanto a me, quando mi sarò mangiato il Gatto e con la sua pelle mi sarò fatto un manicotto, dovrò rassegnarmi a morir di fame!».

    Il Gatto, che aveva sentito questo discorso, ma aveva fatto finta di non accorgersene, gli disse con aria seria e posata:

    «Non state ad affliggervi, caro padrone; non dovete far altro che trovarmi un sacco e farmi fare un paio di stivali per camminare in mezzo ai boschi, e vedrete come la sorte non sia stata tanto cattiva con voi quanto credete».

    Il padrone del Gatto non faceva un grande affidamento sulle sue parole, ma gli aveva visto fare tanti di quei giochi di destrezza nel prendere topi o sorcetti (come quando il Gatto si lasciava pendere per i piedi, o si nascondeva nella farina facendo il morto) che non disperò completamente di trovare in lui un po’ d’aiuto nella sua miseria.

    Quando il Gatto ebbe ottenuto quel che aveva chiesto, infilò bravamente i suoi stivali e, mettendosi il sacco in spalla, ne prese i cordoni con le due zampe davanti e se ne andò in una conigliera dove c’era un gran numero di conigli. Mise nel sacco un po’ di crusca e di cicerbita e, sdraiatosi in terra come se fosse morto, aspettò che qualche coniglietto, ancora poco edotto delle astuzie di questo mondo, venisse a ficcarsi nel suo sacco, per mangiare quel che vi aveva messo.

    Non appena si fu disteso in terra egli fu accontentato: un coniglietto sventato entrò nel sacco e il bravo Gatto, tirandone subito i cordoni, lo prese e lo ammazzò senza misericordia. Tutto fiero della sua preda, se ne andò dal Re e domandò di parlargli. Lo fecero salire nelle stanze del Re dov’egli entrò, fece una grande riverenza e disse al Re: «Ecco qui, Maestà, un coniglio di conigliera che il signor Marchese di Carabas» (questo era il nome che gli era saltato il ticchio di dare al suo padrone) «mi ha incaricato di presentarvi da parte sua».

    «Di’ al tuo padrone», rispose il Re, «che lo ringrazio e gradisco molto il suo regalo».

    Un’altra volta, il Gatto andò a nascondersi in un campo di grano, sempre col sacco aperto, e quando due pernici vi furono entrate, tirò i cordoni e le acchiappò tutte e due. Poi andò a offrirle al Re, come già aveva fatto per il coniglio di conigliera. Il Re accettò nuovamente con piacere le due pernici e gli fece dare una mancia.

    Il Gatto continuò in tal modo durante due o tre mesi a portare al Re di quando in quando la selvaggina delle bandite del suo padrone. Un giorno, avendo saputo che il Re doveva recarsi a passeggiare lungo la riva del fiume, insieme alla figlia, la più bella principessa del mondo, il Gatto disse al suo padrone: «Se date retta a un mio consiglio, la vostra fortuna è bell’e fatta: dovete andare a fare un bagno nel fiume, e precisamente nel posto ch’io v’indicherò; quanto al resto, lasciate fare a me».

    Il Marchese di Carabas seguì il consiglio del Gatto, senza sapere a che gli avrebbe potuto servire. Intanto che lui faceva il bagno, il Re passò di lì, e il Gatto si mise a gridare con quanto fiato aveva in gola: «Aiuto! Aiuto! Il Marchese di Carabas sta affogando!».

    A queste grida, il Re si affacciò allo sportello della carrozza e riconosciuto il Gatto, che tante volte gli aveva portato la selvaggina, ordinò alle sue guardie che corressero subito in aiuto del Marchese di Carabas.

    Nel mentre che tiravano su dall’acqua il povero Marchese, il Gatto si avvicinò alla berlina del Re e gli disse che, intanto che il suo padrone faceva il bagno, alcuni ladri erano venuti a portargli via tutti i vestiti, sebbene lui avesse gridato «al ladro!» con tutte le sue forze. Il furbacchione li aveva nascosti sotto una grossa pietra.

    Il Re ordinò immediatamente agli ufficiali addetti al guardaroba reale di andare a prendere uno dei suoi abiti più sfarzosi per il Marchese di Carabas. Intanto il Re gli faceva mille cortesie: e poiché i bei vestiti che gli avevano portati mettevano in valore la sua persona (egli era assai bello e ben fatto), la figlia del Re lo trovò proprio di suo gradimento, e appena il Marchese di Carabas le ebbe lanciato due o tre occhiate molto rispettose, ma abbastanza tenere, lei ne divenne innamorata cotta.

    Il Re volle ch’egli salisse nella sua berlina e proseguisse con loro la passeggiata. Il Gatto, felice nel vedere che il suo piano cominciava a riuscire, corse avanti, e avendo incontrato alcuni contadini che falciavano in un prato, disse loro: «Brava gente che falciate, se non dite al Re che questo prato appartiene al signor Marchese di Carabas, sarete tutti triturati a pezzettini, come carne di polpette!».

    Il Re non tardò a chiedere ai falciatori di chi fosse il prato che stavano falciando.

    «È del signor Marchese di Carabas», risposero a una voce, perché la minaccia del Gatto li aveva molto impauriti.

    «Avete una bella proprietà», disse il Re al Marchese di Carabas.

    «Come dite voi, Maestà», rispose il Marchese, «infatti è una prateria che ogni anno non manca di fruttarmi un buon raccolto».

    Il bravo Gatto, che continuava a far da battistrada, incontrò dei mietitori e disse loro: «Brava gente che mietete, se non dite che tutto questo grano appartiene al signor Marchese di Carabas, sarete tutti triturati a pezzettini, come carne da polpette!».

    Il Re, che passò subito dopo, volle sapere a chi appartenessero tutti i campi di grano che vedeva.

    «Al signor Marchese di Carabas», risposero i mietitori, e il Re si rallegrò nuovamente col Marchese. Il Gatto, che correva sempre avanti alla berlina, continuava a dire la stessa cosa a tutti coloro che incontrava; e il Re rimaneva meravigliato degl’immensi possedimenti del Marchese di Carabas.

    Il bravo Gatto arrivò finalmente davanti a un bel castello il cui padrone era un orco, il più ricco che mai si sia veduto; infatti, tutte le terre che il Re aveva attraversate erano alle dipendenze di quel castello. Il Gatto cercò subito di sapere chi era quell’orco e che cosa faceva e, saputolo, chiese di parlargli, dicendo che non aveva voluto passare così vicino al suo castello, senza aver l’onore di venirlo ad ossequiare.

    L’Orco lo ricevette con tutta la cortesia che può avere un orco, e lo fece accomodare.

    «M’hanno assicurato», disse il Gatto, «che voi avete il dono di cambiarvi in ogni specie d’animale, e potete, per esempio, trasformarvi in leone o in elefante».

    «È verissimo!», rispose l’Orco bruscamente, «e per darvene una prova, mi vedrete diventare leone».

    Il Gatto fu così spaventato di vedersi un leone davanti agli occhi che raggiunse al più presto le grondaie, non senza fatica né pericolo per via degli stivali che, per camminare sulle tegole, non valevano proprio nulla.

    Di lì a poco, il Gatto, avendo visto che l’Orco aveva ripreso il suo primo sembiante, scese giù dal tetto e confessò di aver avuto una bella paura.

    «Mi hanno assicurato», disse il Gatto, «ma non riesco a crederlo, che avete anche il potere di prendere la forma dei più piccoli animali, per esempio, di cambiarvi in un topo, o in un sorcetto; vi confesso che la cosa mi sembra assolutamente impossibile».

    «Impossibile?», rispose l’Orco. «Adesso lo vedrete!».

    Nel dir così, si trasformò in un sorcio che cominciò a correre per la stanza. Il Gatto, non appena l’ebbe scorto, gli si gettò addosso e lo mangiò.

    Intanto il Re, che passando vide il bel castello dell’Orco, volle entrare a visitarlo. Il Gatto, udendo il rumore della berlina che passava sul ponte levatoio, corse incontro al Re e gli disse:

    «La maestà vostra sia la benvenuta nel castello del signor Marchese di Carabas».

    «Ma come, Marchese!», esclamò il Re, «anche questo castello è roba vostra! Nulla è più bello di questo cortile e di tutti i fabbricati che lo circondano; si può vederlo dentro, se vi aggrada?».

    Il Marchese dette la mano alla giovane principessa e, seguendo il Re che era salito per primo, entrarono in un salone ove trovarono imbandita una splendida merenda che l’Orco aveva fatto preparare per certi suoi amici; essi dovevano venire a trovarlo proprio in quel giorno ma, sapendo che il Re vi si trovava, non avevano osato entrare. Il Re, entusiasta delle belle doti del signor Marchese di Carabas, così come sua figlia n’era pazza, e vedendo i grandi possedimenti di lui, gli disse, dopo aver bevuto quattro o cinque bicchieri: «Signor Marchese, se volete diventar mio genero, dipende solo da voi!».

    Il Marchese, con mille riverenze, accettò l’onore che il Re gli faceva e quel giorno stesso sposò la Principessa. Il Gatto divenne un gran signore e seguitò ad andare a caccia di topi solo per divertimento.

    MORALE

    Certamente è una gran comodità

    Godere d’una ricca eredità

    Che da padre discende e a figlio viene.

    Ma ai giovani più giova esercitare

    L’industria e il saper fare

    Che usar d’un bene avuto senza pene.

    ALTRA MORALE

    Se il figlio d’un mugnaio così rapidamente

    Può d’una principessa acquistar cuore e mente,

    Sì da avere da lei le più languide occhiate,

    È che l’abito e il fior di giovinezza

    Sono, per ispirar la tenerezza,

    L’armi meglio temprate.

    CHARLES PERRAULT

    IL SIGNORE DEL FOCOLARE

    Seduta sonnacchiosa alla luce del fuoco,

    la gatta screziata ammiccava e faceva le fusa.

    JOHN GREELEAF WHITTIER

    Il gatto

    Osservi la bellezza del mondo

    con occhi di schietta contentezza,

    e accoccolato sulla poltrona del mio studio,

    mi guidi ad un assorto stupore.

    Vorrei conoscere l’agilità del tuo pensiero

    il perfetto equilibrio del tuo agire:

    assomigliano ad un’ispirazione, catturata

    da altre leggi di giorni andati.

    ANONIMO (dallo «Spectator»)

    Il gatto del focolare

    Il fuoco ardente, un morbido tappeto, candele accese e tende tirate, la teiera sul fuoco, e, infine, il gatto accanto a voi, l’oggetto della vostra attenzione: questa è una scena che tutti amano, a meno che non si abbia una malsana avversione per i gatti, ma non è una cosa comune. Ci sono dei simpatici indagatori, lo ammetto, che sono soliti fare difficili confronti tra gatti e cani: dicono, ad esempio, che i primi non sono altrettanto affettuosi, che preferiscono la casa al padrone, e così via. Però, d’accordo con la vecchia massima che dice che «i paragoni sono detestabili», spero che i nostri lettori continueranno ad amare ciò che è amabile in sé e per sé, senza cercare di renderlo spiacevole a causa della sua inferiorità rispetto ad altre cose, un criterio per il quale potremmo ingegnosamente fare in modo di disprezzare ogni piatto che ci viene porto e di respingere una cosa dopo l’altra, fin quando nulla ci potrà soddisfare. Qui abbiamo un bel caminetto, e un gatto; e sarebbe colpa nostra se, spostandoci in un’altra casa, davanti ad un altro caminetto, non facessimo attenzione affinché il gatto si trasferisca con noi. I gatti non hanno il concetto del trasferimento dei beni, come gli umani. Se vogliamo che queste creature ci rispettino, noi per primi dobbiamo rispettarle. Non possiamo aspettarci da chiunque, quadrupede o bipede, di restare con noi anche se non ce lo meritiamo, a meno che non sia un cane o un saggio benevolo. Inoltre, ci sono molte storie sui gatti a testimonianza della loro bontà; ad esempio, di come seguano il loro padrone come fossero dei cani, di come facciano la guardia alla porta del padrone per ringraziarli di qualche gesto affettuoso, e così via. E i nostri lettori ricorderanno la storia del famoso stallone arabo Godolphin, sulla cui tomba un gatto, vissuto con lui nella stalla, si distese e morì.

    Il gatto fa le fusa, come se lodasse la nostra considerazione e muove dolcemente la coda. Che particolare espressione assume in volto, quando ci guarda, rivelatrice del suo potere di irritarsi o della volontà di essere compiaciuto! Dobbiamo ammettere che il momento in cui l’amiamo di più non è quando fa le fusa o ci osserva in quel modo. Ci ricorda una specie di sorriso, una pacatezza (svenevolezza è parola troppo debole e sfuggente) che si vede normalmente sul volto di persone irritabili quando si compiacciono di trovarsi in uno stato di beatitudine. Preferiamo usare un’espressione più generica, che indica il gatto in uno stato di quiete, di modestia e il volto umano con un aspetto indice di grazia e contegno abituali, come se non fosse mai necessario fare dei passi forzati per dimostrare la sua amabilità: «il sorriso senza sorriso», come direbbe un poeta [...].

    Povero micetto! Ci rivolge di nuovo lo sguardo [...] e simbolicamente storce la bocca in uno sbadiglio e si lecca i baffi. Poi procede ad una pulizia completa, conoscendo le giuste necessità della sua elegante persona, iniziando giudiziosamente dalle zampe e allungando incredibilmente la lingua fino agli arti posteriori. Subito dopo, si gratta il collo con una zampa in rapido compiacimento, distende la testa in avanti, e chiude gli occhi, in parte per conformarsi ai movimenti della sua pelle e in parte per godere del piacere. A quel punto premia le sue zampe con gli ultimi ritocchi; guarda il risultato della testa e del collo, sempre compiaciuto, le orecchie puntate in alto e il collo che s’inarca avanti e indietro. Infine fa uno starnuto, un altro movimento di bocca e baffi e poi, arricciando la coda davanti alle zampe anteriori, si sistema sugli arti posteriori, in un atteggiamento di mite contemplazione.

    A cosa pensa: forse alla sua ciotola di latte per colazione? O al calcio che ha preso ieri in cucina per aver rubato la carne? O al suo piatto preferito, la Tartare, la nobile carne di cavallo? O al suo amico, il gatto della casa accanto, il più appassionato dei miagolatori? Oppure ai suoi cuccioli, alcuni dei quali ormai si sono fatti grandi e sono andati via? È questo, tra tutti i suoi ricordi, che lo rende pensieroso? Ha un assaggio dei nobili dolori, prerogativa dell’uomo? [...]

    Quel lappare il latte dalla ciotola è una delle cose che la sete umana non riesce a condividere. È come se non ci fosse soddisfazione in quella serie di atomi di bevanda. Tuttavia la ciotola è svuotata in un attimo; e ascoltare il rumore dello sciabordio che accompagna il gesto e che sembra indicativo del conforto ricevuto dalla bocca del micio è piacevole all’udito. La lingua del gatto è sottile e riesce a trasformarsi in un cucchiaio. Questo, tuttavia, è comune ad altri quadrupedi e, quindi, non fa parte in maniera particolare della nostra riflessione sui gatti. E neanche l’elettricità del suo mantello, che rilascia scintille al contatto con la nostra mano; la sua passione per la valeriana (il lettore ha mai visto un gatto rotolarcisi dentro? È una scena da non perdere) e altre singolari delicatezze della natura, tra le quali, forse, non dobbiamo dimenticare il suo amore per il pesce, una creatura con il cui elemento ha ben poco in comune, e che anzi sappiamo aborrisce; anche se recentemente si è letto da qualche parte di un gatto nuotatore e pescatore. E questo ci ricorda uno squisito aneddoto del caro, dogmatico, fragile, riflessivo, scontroso, caritatevole Samuel Johnson che usciva personalmente per acquistare ostriche per il suo gatto perché il suo servitore nero era troppo orgoglioso per farlo! Non per condannare la popolazione nera, in un periodo ancora antidemocratico e schiavista. Aveva tutto il diritto di commettere un errore, anche se noi lo avremmo tenuto in maggiore considerazione se fosse stato più lungimirante e avesse soggiogato il suo orgoglio all’affetto per un padrone di tale levatura. Tuttavia la sincera delicatezza pratica di Johnson in quell’occasione è bellissima. Ed è certo che egli non vi vedeva della condiscendenza o dell’eccentricità. Era un tipo singolare in alcune delle sue manifestazioni ma non poteva farci nulla. Egli odiava l’eccentricità. Anzi: nei suoi momenti migliori sentiva di essere semplicemente un uomo, e un uomo buono per giunta, sebbene fragile; uno che nella virtù e nell’umiltà, e nella consapevolezza della sua ignoranza così come della sua saggezza, desiderava essere un filosofo cristiano; e seguendo questi desideri andava avanti, comprando cibo per il suo gatto affamato, perché il suo servitore nero era troppo orgoglioso per farlo e non c’era nessuno nei paraggi al quale egli avesse il diritto di chiederlo. Che cosa deve aver pensato chi lo vedeva svoltare per Bolt Court! Senza dubbio vi si recava in incognito, sempre se considerava la cosa disdicevole. Il suo amico Garrick non sarebbe mai arrivato a tanto! Era troppo famoso sul grande palcoscenico della vita. Goldsmith lo avrebbe fatto, ma non ci avrebbe mai pensato. Beauclerc pure; ma avrebbe ritenuto necessario giustificarsi con un’arguzia o una scommessa o una cosa del genere. Sir Joshua Reynolds, con la sua mano da ritrattista raffinato alla moda si sarebbe certamente dispensato. Burke avrebbe senz’altro riflettuto sull’opportunità di tale azione e se ne sarebbe certamente convinto. Gibbon! Immaginate l’idea nella testa di Gibbon! Lui e la sua parrucca sarebbero trasaliti con tutto l’orrore di un gentiluomo sussiegoso; e avrebbe suonato il campanello per chiamare il garzone assistente del cuoco.

    I gatti del focolare vivono da gran signori e sono l’immagine della comodità; tuttavia, affinché non debbano sopportare la loro parte di pena in questo mondo, hanno lo svantaggio di andare soggetti ad essere chiusi fuori di casa nelle notti fredde, presi a calci dal cuoco infastidito, molestati dai bambini (neanche a noi piacerebbe essere strizzati e tirati in quel modo da qualche gigante troppo affettuoso!) e infine, ma altrettanto importante, essere pestati senza pietà da inconsapevoli piedi umani e insensibili gambe di sedie. Eleganza, comodità, sicurezza sembrano essere all’ordine del giorno ma appena stai per metterti a tavola o al pianoforte o in poltrona per il tè può capitare che improvvisamente il gatto cacci un urlo come se fosse stato stritolato; e non sei sicuro che non sia altrimenti. Nonostante ciò, si riavvicina, come prima; e sfida tutti i piedi e il mogano della stanza. Meraviglioso adattamento dell’immaginazione di un gatto! Confinato all’accogliente raggio del suo perimetro e ai quattro centimetri del tappeto.

    LEIGH HUNT

    (da Essays, 1870 ca.)

    Le chat noir

    Metà amorevolezza e metà sdegno,

    tu arrivi al mio richiamo, teneramente affabile,

    con discorsi mormorati e seri gesti graziosi,

    in un saluto nobile e cortese.

    E io devo umiliarmi per guadagnare il tuo rispetto,

    poiché le astuzie possono vincerti, ma nessun raggiro renderti schiavo,

    e in nessun luogo dimori felice, se non dove

    nulla possa disturbare la pace del tuo regno.

    Sfinge del mio quieto focolare! Ti degni di restare,

    amico del mio lavoro, compagno del mio riposo

    tua è la saggezza di Râ e Ramsete;

    ciò che gli uomini dimenticano tu lo ricordi bene,

    ti vedo assorto in fantasticherie, gli occhi socchiusi,

    e uno sguardo impercettibile e solenne, color del mare.

    GRAHAM TOMSON

    Al gatto

    Nobile amico, maestoso e gentile,

    hai accettato

    di sedere accanto a me e di rivolgere

    gli occhi gloriosi, sorridenti e smaglianti,

    occhi dorati, lucente ricompensa dell’amore,

    alle pagine d’oro che leggo.

    La meravigliosa ricchezza del tuo mantello,

    chiaro e scuro,

    setoso e ispido, morbido e luminoso,

    come le nuvole e i raggi della notte,

    risponde alla riverente carezza della mia mano

    con più amorevole gentilezza.

    I cani fanno festa a tutti,

    quando arrivano,

    tu, amico delle menti più elevate,

    rispondi solo agli amici a te simili;

    la tua zampa posata sulla mia mano

    mi chiede dolcemente di comprendere.

    La mattina sparge intorno a questa sedia da giardino,

    dolce e silente,

    la sua abbondanza di luce nascente,

    elettrizza le rade nubi di potenza

    muta i boschi, gli orti e la brughiera,

    i campi e i giardini al di sotto.

    Scuri e splendenti lucevano quaggiù:

    ora brillano,

    intensi come i tuoi occhi solari,

    lucenti come i cieli al mattino,

    che tutto questo avvenga

    perché rendi grazie dei tuoi occhi?

    Anche tu ti rallegri,

    nel vedere il cielo,

    svelarsi come il paradiso, e preghi

    la terra di svelare l’Eden che ha nascosto

    per tutta la notte alle stelle e alla luna,

    ora che il sole ha ricreato l’armonia?

    Ciò che in te si sveglia con il giorno,

    chi può dirlo?

    Molto poco possiamo dire,

    amici che l’un l’altro ci lodiamo,

    su cosa potrebbe, se pure,

    farci leggere le nostre vite nel modo giusto.

    Selvaggi sui sentieri boscosi i tuoi antenati

    sfolgorano come incendi;

    lucenti come la fiamma e fieri, e corrono

    come gli uccelli su zampe senza ali.

    Brillava e balzava tua madre, libera,

    limpida e coraggiosa come il vento e come il mare.

    Libero e fiero e pago come loro,

    qui oggi,

    vaga e riposa il loro figlio,

    non vinto, ma riconciliato,

    libero dal dominio

    che non sia quello benevolo dell’amore.

    L’amore attraverso i sogni delle anime divine

    felice brillerà,

    intorno ad un’alba dove luce e musica

    emenderanno i nostri torti reciproci:

    parla e sigilla la legge illuminata dall’amore

    che il dolce profeta di Assisi previde.

    Loro erano i sogni; eppure, un giorno, forse

    potranno albeggiare,

    quando nasceranno amici e uomini che,

    nel vedere la terra, splendente come il mattino,

    sapranno scorgere, meglio di noi,

    per il bene di un amore più saggio

    le profondità del paradiso.

    ALGERNON CHARLES SWINBURNE

    La filantropa e il gatto felice

    Jocantha Bessbury era nello stato d’animo adatto ad essere serenamente e benignamente felice. Il suo mondo era un luogo piacevole e oggi mostrava uno dei suoi volti più incantevoli. Gregory era riuscito a fare una scappata a casa per un pranzo veloce e una sigaretta nel suo salottino privato; il pranzo era stato buono e c’era giusto il tempo di rendere giustizia al caffè e alle sigarette. Entrambi, ognuno per le sue caratteristiche, erano eccellenti e Gregory era, a modo suo, un ottimo marito. Jocantha sapeva di essere per lui una moglie molto affascinante; ma soprattutto pensava di avere un sarto di prima classe.

    «Non credo ci sia in tutta Chelsea una personalità più pienamente soddisfatta», osservò Jocantha alludendo a se stessa, «ad eccezione, forse, di Attab», continuò, rivolgendo lo sguardo verso il grande gatto soriano che giaceva beato in un angolo del divano. «Si sdraia lì, sogna e fa le fusa, ogni tanto si stiracchia nella confortevole estasi dei cuscini. Sembra l’incarnazione di tutto ciò che c’è di morbido, setoso e vellutato, privo di spigoli, un sognatore la cui filosofia è dormi e lascia dormire; poi, quando la sera si avvicina, esce in giardino con uno scintillio sanguinario negli occhi e uccide un passero sonnacchioso».

    «Visto che ogni coppia di passeri mette al mondo più di dieci piccoli l’anno, mentre le loro provviste di cibo restano invariate, è un bene che a tutti gli Attab della comunità venga in mente una idea tanto geniale su come passare il pomeriggio», disse Gregory. Dopo aver espresso questo saggio commento, si accese un’altra sigaretta, diede a Jocantha un giocoso e affettuoso saluto e partì per il mondo esterno.

    «Ricorda che la cena sarà servita un po’ prima stasera: andiamo all’Haymarket», gli urlò mentre si allontanava.

    Rimasta sola, Jocantha ricominciò a considerare la sua vita con occhi placidi ed introspettivi. Anche se non aveva proprio tutto ciò che avrebbe desiderato in questo mondo, almeno era soddisfatta di ciò che possedeva. Era, ad esempio, molto felice del suo salottino privato, che riusciva ad essere intimo, gradevole e lussuoso allo stesso tempo. La porcellana era rara e molto bella, gli smalti cinesi assumevano delle sfumature sorprendenti alla luce del caminetto, i tappeti e i tendaggi guidavano lo sguardo attraverso sontuose armonie di colori. Era una stanza in cui si sarebbe potuto agevolmente intrattenere un ambasciatore o un arcivescovo, ma dove si potevano anche ritagliare articoli per l’album dei ricordi senza per questo avere la sensazione di scandalizzare le divinità del luogo per via delle cartacce. E la stessa cosa poteva dirsi del resto della casa, così come di tutti gli aspetti della vita di Jocantha; aveva veramente dei buoni motivi per considerarsi una delle donne più appagate di Chelsea.

    Dallo stato di crescente soddisfazione per il suo destino, passò alla fase di generosa commiserazione per quelle migliaia di persone che la circondavano e le cui vite erano tristi, scialbe, vuote e prive di gioia. Erano soprattutto operaie, commesse e così via, quella classe che non possedeva né la libera incoscienza dei poveri né la spensierata libertà dei ricchi, a rientrare nel raggio della sua compassione. Era triste pensare che c’erano ragazze che, dopo una lunga giornata di lavoro, dovevano sedersi tutte sole nel freddo e nella solitudine di una camera da letto perché non potevano permettersi il costo di una tazza di caffè caldo o di un panino in un ristorante, per non parlare di un biglietto di galleria a teatro.

    La mente di Jocantha stava ancora dibattendo questo tema quando si decise per una campagna pomeridiana di acquisti divaganti; le sarebbe stato di conforto, si disse, fare qualcosa, così sul momento, per portare un bagliore di interesse e di piacere nella vita di almeno un paio di buone e bisognose lavoratrici; avrebbe giovato moltissimo alla sua predisposizione al divertimento di quella sera a teatro. Avrebbe acquistato due biglietti di galleria per una commedia popolare, sarebbe andata in uno di quei modesti locali di ristoro e avrebbe regalato i biglietti alle prime due operaie interessanti con le quali avesse iniziato casualmente una conversazione. Avrebbe spiegato la faccenda dicendo che le era impossibile usare i biglietti quella sera ma non voleva che andassero sprecati e, inoltre, voleva evitare il fastidio di rimandarli indietro.

    Dopo un’ulteriore riflessione decise che era meglio comprare un solo biglietto e regalarlo a qualche ragazza dall’aspetto solitario seduta a mangiare il suo pasto frugale per conto suo; la ragazza avrebbe potuto fare amicizia con il vicino di posto e gettare le basi per una relazione duratura.

    Con questo forte impulso da fata buona, Jocantha si diresse in un’agenzia e selezionò con grande cura un posto di galleria per Il pavone giallo, una commedia che stava suscitando un notevole numero di dibattiti e di critiche. Poi proseguì in cerca di un locale e di un’avventura filantropica, più o meno nello stesso momento in cui Attab bighellonava in giardino con la mente sintonizzata sulla caccia ai passeri.

    In un angolo di un negozio ABC trovò un tavolo libero, dove immediatamente si sedette, spinta dal fatto che al tavolo vicino sedeva una giovane, dai lineamenti semplici, languidi occhi stanchi e un’aria di rassegnata disperazione. Il suo vestito era di una stoffa economica, ma con l’intenzione di essere alla moda, i capelli non erano male ma la carnagione era pessima; stava terminando un modesto pasto a base di tè e focacce e non era molto diversa dalle migliaia di altre ragazze che stavano finendo, o iniziando, o continuando i loro pasti nei locali londinesi in quello stesso momento.

    Tutto lasciava supporre che non avesse mai visto Il pavone giallo e ovviamente forniva il materiale eccellente per il primo esperimento di beneficenza di Jocantha.

    Ordinò un tè e un pasticcino e poi si concentrò nell’esame amichevole della sua vicina con l’intenzione di attirare il suo sguardo. In quel preciso momento il volto della ragazza s’illuminò d’improvviso piacere, i suoi occhi scintillarono, un velo di rossore colorò le sue guance e assunse un aspetto quasi grazioso. Un giovane, che ella salutò con un affettuoso «Ciao, Bertie», si avvicinò al suo tavolo e si sedette di fronte a lei. Jocantha guardò di traverso il nuovo arrivato; sembrava avere qualche anno meno di lei, ed era molto più affascinante di Gregory, anzi, più affascinante di qualsiasi altro uomo della sua cerchia. Immaginò che si trattasse di un giovane di buone maniere impiegato in qualche magazzino all’ingrosso, che viveva e si divertiva come poteva con il suo magro salario e che magari poteva contare su due settimane di ferie all’anno. Naturalmente era consapevole del suo bell’aspetto, ma con un timido imbarazzo e non con manifesto compiacimento. Era chiaramente in termini di amichevole intimità con la ragazza con la quale stava chiacchierando, probabilmente avviati verso un fidanzamento formale. Jocantha immaginò la casa del ragazzo, un ambiente piuttosto ristretto, con una madre tediosa che voleva sempre sapere dove e come trascorreva le serate. Presto avrebbe scambiato quel servile tran tran con una casa tutta sua, dominata da una cronica penuria di sterline, scellini e centesimi e dalla fine di tutto ciò che rendeva la vita piacevole e comoda. Jocantha si sentì terribilmente addolorata per lui. Si chiese se avesse visto Il pavone giallo; le possibilità erano certo a favore della supposizione che non l’avesse fatto. La ragazza aveva finito il tè e presto sarebbe ritornata al suo lavoro; appena il ragazzo fosse rimasto solo sarebbe stato facile per Jocantha dire: «Mio marito ha fatto altri progetti per me stasera; le piacerebbe fare uso di questo biglietto, che altrimenti andrebbe sprecato?». Poi, sarebbe potuta tornare un pomeriggio per prendere il tè e, nel caso l’avesse incontrato, gli avrebbe chiesto se gli era piaciuto lo spettacolo. Se si fosse dimostrato un ragazzo educato e l’amicizia si fosse rafforzata, gli avrebbe regalato altri biglietti e magari sarebbe stato invitato ad un tè domenicale a Chelsea. Jocantha pensava che sicuramente sarebbero diventati buoni amici, che sarebbe piaciuto anche a Gregory e che queste faccende da fata buona si sarebbero dimostrate molto più interessanti di quanto avesse previsto all’inizio. Il ragazzo era dignitosamente presentabile; sapeva come pettinarsi, il che poteva attribuirsi a una facoltà imitativa; conosceva il colore che gli si addiceva, e questa era una facoltà intuitiva; era esattamente il tipo che Jocantha ammirava, e questo naturalmente era accidentale. Fu molto felice quando la ragazza guardò l’orologio e diede al suo amico un amichevole ma frettoloso saluto. Bertie rispose, ingollò una sorsata di tè e tirò fuori dalla tasca del suo impermeabile un libro in brossura intitolato Sepoy e Sahib, il racconto di un grande ammutinamento.

    L’etichetta di un bar proibisce di offrire ad un estraneo i biglietti per andare a teatro senza prima aver incrociato il suo sguardo. Anzi, sarebbe meglio chiedere di farsi passare la zuccheriera, avendo prima fatto in modo di occultare il fatto che sul vostro tavolo ne avete una bella capiente e riempita fino all’orlo; tutto ciò non è difficile da fare visto che il menu di solito è grande quanto il tavolo stesso e può restare facilmente in piedi.

    Jocantha si mise al lavoro fiduciosa; ebbe una lunga e appassionata discussione con una cameriera a proposito di presunti difetti presenti nel suo pasticcino, che era invece irreprensibile, s’informò ad alta voce e in tono lamentevole del servizio della metropolitana verso un remotissimo quartiere, si rivolse con brillante affettazione al gattino del locale, e come ultima risorsa versò una caraffa di latte e imprecò senza ritegno. Inevitabilmente richiamò molta attenzione ma neanche per un attimo attrasse lo sguardo del ragazzo dalla bella acconciatura, che era a mille miglia di distanza, nelle arroventate pianure dell’Indostan, in mezzo a capanne deserte, bazar in subbuglio e caserme in rivolta, in ascolto di martellanti tam tam e del distante crepitio della fucileria.

    Jocantha ritornò alla sua casa di Chelsea che per la prima volta le sembrò tetra e sovraccarica di mobili. Aveva la risentita convinzione che a cena Gregory sarebbe stato noioso e che dopo cena lo spettacolo sarebbe stato stupido.

    Nell’insieme, il suo stato d’animo mostrava una vistosa divergenza dalla rumorosa soddisfazione di Attab, nuovamente accoccolato in un angolo del divano, che emanava una grande pace da ogni curva del suo corpo.

    In fondo, aveva catturato il suo passero.

    SAKI

    Il gatto sul tetto

    Siedo qui, da un’ampia visuale

    osservando il mondo e la vita,

    guardo dal mio luogo congeniale

    la scena di quella bellicosa partita.

    Sorridente dalla guglia o dalla torre,

    ecco, il gatto osserva sprezzante

    la sciocca folla pigmea che corre

    verso un’attività insignificante.

    Vani i miei pensieri – non posso guidarli

    al mio modo di vedere il mondo;

    nella loro ignoranza dovrò lasciarli –

    la mia perdita è minima, in fondo!

    Lo spirito umano è povero e storpiato,

    atti umani di piccolo valore:

    il gatto, del suo merito informato,

    siede sul tetto senza furore.

    J.V. VON SCHEFFEL

    (da Canzoni del gatto Hiddigeigei, in Il trombettiere di Säckingen, 1854)

    A Winky

    Gatto,

    gatto,

    chi sei?

    Frutto, dopo mille generazioni, dei leopardi neri

    che arrivano a passi felpati tra le fronde del fresco bambù;

    discendente dei molti passaggi delle bianche pantere,

    che si acquattano di notte sotto i nespoli?

    O sotto le begonie arancioni,

    e i tuoi occhi sono verdi

    per la violenza del crimine,

    oppure socchiusi e furtivi,

    come i tuoi artigli inguainati.

    Calmo, lento,

    ti alzi e ti allunghi

    nella lucentezza delle tue magnifiche curve,

    dei muscoli fluttuanti sotto il mantello nero e smaltato.

    Gatto,

    sei una creatura strana,

    ti siedi sulle anche

    e sbadigli,

    ma quando fai un balzo

    riesco quasi a sentire lo schiocco

    di una corda allentata

    e cerco di guardare il suo flaccido tremolio

    nel punto da cui sei partito.

    Sollevi la coda come uno stendardo,

    lenta sfiora la mia sedia,

    ma quando ti cerco, sei sul tavolo

    dove ti muovi agile tra la porcellana più fragile.

    Il tuo cibo è una questione importante

    e tu insisti affinché i tuoi desideri

    vengano esauditi,

    eppure mangeresti un uccello con tutte le piume

    senza lasciare apparenti ferite. La notte, ti sento gemere

    ma se provo a cercarti

    trovo solo le ombre delle foglie del rododendro

    che sfiorano il suolo.

    Quando rientri da un acquazzone,

    tutto bagnato e con la coda arruffata,

    mi blandisci con volute e malizie;

    una volta asciutto, però,

    mi lasci con un gesto d’inconcepibile impudenza

    espresso da un evanescente svolazzo della coda,

    mentre scivoli attraverso la porta aperta.

    Cammini come un re sprezzante dei suoi sudditi;

    amoreggi con me come una concubina in vesti di seta.

    Gatto,

    ho paura della tua bellezza velenosa,

    ti ho visto torturare un topo.

    Eppure, quando giaci sul mio grembo e fai le fusa,

    ricordo solo la tua morbidezza

    ed è solo quando sento i tuoi artigli aperti sulla mano,

    che mi ricordo:

    ricordo il puma disteso su un ramo sopra la mia testa,

    tanti anni fa.

    Devo soffocarti, gatto,

    oppure baciarti?

    Credimi, non lo so.

    AMY LOWELL

    Il paradiso dei gatti

    Una zia mi lasciò in eredità un gatto d’angora, sicuramente l’animale più stupido che io conosca. Questo è quanto il mio gatto mi raccontò, una notte d’inverno, davanti ai tizzoni ardenti del caminetto.

    I

    All’epoca avevo due anni ed ero senza dubbio il gatto più grasso e più sempliciotto del vicinato. Anche a quella tenera età dimostravo tutta la presunzione di un animale che disdegna le attrattive di un focolare domestico. Eppure quale gratitudine dovevo alla Provvidenza per avermi sistemato presso tua zia! La lodevole donna mi idolatrava. Avevo la mia stanza da letto ai piedi di una credenza, un cuscino di piume e un tappeto ripiegato ben tre volte. Il cibo era buono come lo era il letto; niente pane e minestre, solo carne, ottima carne al sangue.

    Ebbene! Con tutte queste comodità avevo un solo desiderio, un solo sogno, scivolare attraverso la finestra socchiusa e scappare sulle tegole. Le carezze mi sembravano insignificanti, la morbidezza del mio letto mi ripugnava, ero così grasso da stare male e dalla mattina alla sera sperimentavo il tedio d’essere felice.

    Devi sapere che allungando il collo ero riuscito a intravedere attraverso la finestra il tetto della casa di fronte. Quel giorno, quattro gatti si stavano azzuffando. Con i mantelli ispidi e le code per aria si rotolavano sulle tegole d’ardesia, in pieno sole, tra grida di gioia. Non avevo mai visto uno spettacolo tanto straordinario. In quel momento presi la grande decisione. La vera felicità si trovava sul tetto, di fronte a quella finestra che le persone della casa serravano sempre con molta attenzione. Ne ebbi la prova notando il modo in cui chiudevano gli sportelli delle credenze in cui nascondevano la carne.

    Mi decisi a scappare. Ero sicuro che ci fossero altre cose nella vita oltre la carne al sangue. C’era l’ignoto, l’ideale. Un giorno dimenticarono di chiudere la finestra della cucina. Feci un balzo sopra il piccolo tetto che si trovava lì sotto.

    II

    Com’erano belli i tetti! Erano contornati da ampie grondaie che esalavano odori inebrianti. Seguii quelle grondaie come

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