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Rogue: Serie Corruzione, #1
Rogue: Serie Corruzione, #1
Rogue: Serie Corruzione, #1
E-book285 pagine3 ore

Rogue: Serie Corruzione, #1

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Info su questo ebook

Antonio è un bellissimo sicario.
È un prodigio di ladro, nonché uno dei killer della mafia più violenti mai esistiti.
Sta per compiere l'ultimo atto di vendetta contro gli uomini che hanno ferito sua sorella e usurpato il suo posto legittimo a capo della mala di Los Angeles… Quando appare lei.
Come un predatore che scorge la preda, la sua attenzione è consumata da Theresa Drazen.
Una vera signora.
Un'ereditiera.
Un membro della società raffinato e virtuoso.
Lui vuole strapparle via le sue buone maniere.
Sciogliere il suo sguardo gelido in grida bollenti.
Possederla completamente.
Le cose che vuole farle sono più criminali di qualsiasi reato di cui sia mai stato accusato.
E quando Antonio vuole una cosa, la ottiene.

LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2021
ISBN9781643662503
Rogue: Serie Corruzione, #1

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    Anteprima del libro

    Rogue - CD Reiss

    1

    La voce della cantante non era proprio come quella di un usignolo, ma piuttosto sembrava che una dozzina di usignoli si fossero sovrapposti uno sopra l’altro, tutti insieme, nel cuore di una foresta profumata di pini.

    Lanciai un’occhiata a mio fratello. Jonathan?

    Sì?

    Hai appena concordato sul fatto che gli Angels fossero migliori dei Dodgers.

    Distolse lo sguardo da lei, e io percepii l’aria tra di loro spezzarsi. Non avevo provato altro che fastidio per la sua mancanza di attenzione, fino a quando tornò a guardarmi, e tutto il suo volto cambiò: da vorace e risoluto, a perplesso e arrogante come al solito.

    In questa stagione?

    Mi stai ascoltando, almeno? chiesi.

    Stavi dicendo?

    Daniel. Non so se dovrei perdonarlo. Dovrei. Ma…

    Senti, hai sei sorelle e me. Le tue sorelle ti diranno tutte di dimenticare completamente il tuo ex. Io ti dico di perdonarlo, se devi, ma se è questa la tua intenzione, fallo e basta.

    Era ancora innamorato della sua ex-moglie, che lo aveva lasciato per un altro uomo. Naturalmente sarebbe stato il più comprensivo, e naturalmente era quello a cui avevo scelto di rivolgermi.

    Ogni volta che lo guardo dissi, tornando a voltarmi verso la cantante, non riesco a smettere di vederlo fare sesso con quella ragazza.

    Allora non guardarlo.

    Incrociai le mani sopra il tavolo. Non avrei dovuto rivedere il mio ex. Mai. Però, lui aveva telefonato, e io ci ero andata a pranzo come una dannata cretina. Aveva detto che si trattava di affari, e in un certo senso era così. Avevamo un mutuo insieme, e delle bollette, e io conoscevo i dettagli intimi della sua campagna elettorale per diventare sindaco, quasi quanto avevo conosciuto i dettagli intimi del suo corpo. Alla fine, ovviamente, mi aveva chiesto di rimettermi con lui, e io avevo trattenuto le lacrime e declinato.

    E io che pensavo di averla presa male. Jonathan si portò il drink alle labbra e fissò la donna in piedi accanto al pianoforte, come un falco che osserva un topo.

    Sentii un’improvvisa tensione aggrovigliarsi nel mio petto. Non riuscivo a definirla esattamente, ma m’irritava. La conosci? La cantante.

    Abbiamo un appuntamento più tardi, stasera.

    Bene, perché stavo per suggerirti che faresti meglio a presentarti, prima di sbavarle addosso. Magari una cena e uno spettacolo.

    Mi rivolse un ampio sorriso alla Jonathan. Dopo che sua moglie se n’era andata, si era trasformato in un coglione sciupa-femmine, ma ci mostrava raramente quel lato di sé. Mi faceva sentire a disagio. Non perché fosse mio fratello (il che sarebbe dovuto bastare), ma per via di un’inquietante sensazione di vuoto, che scacciai via.

    Vai a Tahoe o da qualche altra parte per un paio di settimane mi disse. Infilati un paio di sci. Ti stai facendo venire un’ulcera.

    I musicisti terminarono e il pubblico applaudì. La cantante era davvero brava. Mio fratello la applaudì con gli occhi e levò il bicchiere nella sua direzione.

    Vado alla toilette. Mi alzai dal divanetto e mi avviai lungo il corridoio. Non mi guardai indietro, sicura che avrei visto del sangue e delle belle piume nere, mentre mio fratello distruggeva quella povera ragazza.

    Mi appoggiai alla parete posteriore del gabinetto, fissando la singola striscia di carta igienica che penzolava dal rotolo. Ne avevo alcuni quadratini in borsa, nel caso in cui mio fratello mi avesse portata nell’ennesima topaia, ma non volevo usarli. Volevo sprofondare in quella sensazione di vuoto e toccare il fondo.

    Daniel mi guardava con orgoglio, come se avesse trovato la compagna più adatta alla persona che voleva essere. Era contento come un bambino che apre un regalo di Natale e trova la sorpresa dei suoi sogni.

    Io ero Tink, diminutivo di Tinkerbell, per via della mia silhouette minuta e formosa. Una fatina allegra. Non una donna da guardare bramosamente. Ecco perché Daniel si era scopato la sua scrittrice di discorsi. Non la rispettava e non era affascinato da lei.

    Nel corridoio, fui colpita da una distrazione che mi punse sul vivo. Sentii un profumo di pini, nel cuore della foresta, umidi al mattino dopo una notte di falò e canzoni. La brace ardente e la rugiada si mescolavano nelle scie di fumo di sigaretta, che si levavano e scomparivano. E poi sparì.

    Sarebbe potuto provenire da chiunque. Avrebbe potuto essere la bella signora di colore col sorriso dolce. Avrebbe potuto essere il piatto di carne succulenta che mi era appena passato davanti. Avrebbe potuto essere la folata del parcheggio che era entrata dalla porta, prima che questa si richiudesse.

    Ma non lo era.

    L’uomo con l’abito scuro e la sottile cravatta rosa, le labbra carnose e la barba di due giorni. I suoi occhi erano neri come il crimine, e rimasero fissi su di me, mentre si accomodava sul divanetto.

    Il profumo era provenuto da lui, non dall’uomo seduto con lui. Era nel suo sguardo, fisso su di me, disarmante. Quell’uomo era bellissimo per me. Non il mio tipo, niente affatto. Ma la leggera fossetta sul mento, la mascella possente, la massa di capelli scuri che gli ricadevano sulla fronte, sembravano giusti. Semplicemente giusti. Deglutii. Mi era venuta l’acquolina in bocca e mi si era seccata la gola.

    Lui si girò per dire qualcosa alla direttrice di sala, e io presi fiato. Mi ero dimenticata di respirare. Mi portai le mani ai bottoni della camicia, per assicurarmi che fossero abbottonati, perché mi sentivo come se lui mi avesse spogliata.

    Avevo due modi per tornare da Jonathan: passare dietro il pianoforte, che era il tragitto più breve e affollato, oppure davanti, oltrepassando l’uomo con la cravatta rosa.

    Volevo che mi guardasse, invece trascorse l’intera durata della nostra vicinanza a parlare seriamente con l’uomo con la faccia da bambino e le labbra arcuate accanto a sé. Mentre passavo, colsi il profumo di pini bruciati e rugiadosi che non aveva senso, e continuai a camminare.

    Mi sentii tirare per il polso, una sensazione calda e formicolante. La sua mano era su di me, gentile ma risoluta. Mi fermai, guardandolo, mentre mi tirava giù verso il suo viso, finché fui alla distanza di un sussurro. Un’improvvisa scarica di potenziale mi corse dalla nuca fino in mezzo alle gambe, destandomi là dove credevo di essere morta.

    Non riuscivo a respirare.

    Non riuscivo a parlare.

    Se mi avesse baciata, avrei aperto la mia bocca per lui. Questo, lo sapevo per certo.

    La tua scarpa disse, con un accento che non riuscii a riconoscere.

    Cosa? Non riuscivo a smettere di guardare i suoi occhi: marroni, grandi, con ciglia più lunghe di quanto dovrebbe essere legalmente concesso, socchiusi sotto sopracciglia arcuate, proporzionate per l’espressione.

    Indossavo le scarpe? Mi reggevo in piedi? Avevo bisogno di inspirare aria? Mangiare? O potevo vivere semplicemente dell’energia che c’era tra di noi?

    Lui indicò il mio tacco.

    Ti sei portata dietro un souvenir dalla toilette.

    Era bello persino mentre faceva un sorrisetto con quelle labbra carnose. Dovevo voltarmi per vedere di cosa stesse parlando? O gli infilavo la lingua in bocca.

    Guardai giù.

    Avevo uno strascico di carta igienica sul tacco a spillo.

    Grazie dissi.

    Non c’è di che. Mi mollò la mano.

    Lo spazio che aveva toccato mi sembrò un’opportunità mancata, e andai in bagno a restituire il mio souvenir.

    2

    Arrivai al set cinematografico nel centro di Los Angeles alle sei del mattino. Il chiosco ambulante era posizionato sotto il viadotto, e i tecnici delle luci e i macchinisti stavano entrando in quel momento.

    La regista del film e mia coinquilina, Katrina, era già all’angolo caffè. Questo film era la sua ultima possibilità. Aveva citato in giudizio la casa cinematografica che aveva finanziato il suo film candidato all’Oscar per i profitti che lei aveva il diritto di spartire; quelli avevano insistito sul fatto che la produzione operasse in perdita, e avevano vinto.

    Ora il suo nome era proverbialmente infangato, ma lei aveva imbastito questo progetto alla bell’e meglio. Io ero la sua segretaria di edizione per il fine settimana.

    Diciamocelo, Tee Dray disse, puntando la cannuccia del suo caffè verso di me, non ho il budget per pagare i contributi sindacali per i turni del weekend. Indossava un berretto da baseball sopra capelli neri dal taglio corto, che soltanto lei poteva sfoderare. Una messicana vietnamita dalla corporatura atletica, si comportava come se fosse la padrona del locale. Di ogni locale.

    Lo sai che finanzierei l’intero progetto affermai. Potresti mollare i tuoi investitori del Qatar senza problemi.

    Lo faresti, eh?

    Non ho nemmeno toccato il mio fondo fiduciario.

    Mi sentirei obbligata a venire a letto con te.

    Mi sa che sto arrivando al punto di prenderti in considerazione.

    Hai bisogno di un uomo sentenziò. Un cazzo di ripiego per scopare via la tristezza.

    Bel modo di esprimersi.

    La verità non è sempre bella. Lascia che ti combini un appuntamento con mio fratello, e tu puoi combinarmene uno col tuo.

    Tu non hai un fratello.

    Non puoi biasimarmi per averci provato. Che ne dici di Michael? sollevò un sopracciglio, indicando con un cenno del capo l’uomo che stava entrando nella propria roulotte. L’attore protagonista del film aveva manifestato chiaramente di essere interessato a me, nonché a un paio di altre donne attraenti sul set. Era un puttaniere, ma simpatico.

    Strinsi le labbra tra loro; anche se il sole stava appena facendo capolino all’orizzonte, c’era abbastanza luce perché lei vedesse il calore pungente farmi arrossire le guance.

    Theresa disse, inclinando la testa. Cos’è appena successo alla tua faccia?

    Sono uscita con Jonathan ieri sera, e c’era un ragazzo. Un uomo. Avevo della carta igienica sulla scarpa e…

    Tu? Miss Perfetta?

    Sì. Ero così imbarazzata. Abbassai la voce fin quasi a un sussurro. Lui era mozzafiato.

    Si appoggiò su un fianco. Los Angeles è piena di uomini mozzafiato.

    Lui era diverso. Quando mi ha toccata…

    Ti ha toccata?

    Soltanto il polso. Ma è stato come sesso. Giuro di non aver mai provato niente del genere.

    "E me lo dici adesso?"

    Edgar, il suo assistente, giunse a portata d’orecchio, e io abbassai lo sguardo. Anche solo pensare a quell’uomo nei paraggi di uno sconosciuto mi faceva sentire vulnerabile.

    Kat Edgar parlò rapidamente, la polizia di Los Angeles…

    Può aspettare cinque minuti ribatté Katrina, trascinandomi dietro una roulotte. Hai centoventi secondi per raccontarmi di questo nuovo tipo.

    Occhi marroni. Capelli neri. È tutto.

    Devi tenerti alla larga dai biondi dopo Mister Coglioncello.

    Un metro e ottanta. Corpo scolpito. Mio Dio, le sue mani. Erano grandi e forti e… Sto parlando a vanvera. Però, quando mi ha guardata, mi si è scaldata la pelle. Tutto quello a cui riuscivo a pensare era… lo sai.

    Hai il suo numero?

    Nemmeno il nome.

    Il suo cellulare squillò, e tre persone si avvicinarono contemporaneamente. La sua giornata era cominciata. Si voltò, ma mi chiamò da sopra la spalla.

    Sembra che tu ti sia appena risvegliata.

    Aveva ragione.

    3

    Daniel ed io avevamo comprato un attico in una vecchia fabbrica di corsetti e bustini, che era stata ampliata e trasformata in appartamenti di lusso poco prima della Grande Recessione.

    Ora lui se n’era andato, e io ero incastrata lì. Facevo la pendolare fino a Beverly Hills, dall’altra parte della città, per gestire la contabilità dei clienti alla WDE, la più grande agenzia di Hollywood, che attirava i migliori attori, registi, sceneggiatori, e stronzi arroganti e tossici al mondo.

    Ehi, bellissima. Gene stava in piedi presso la mia scrivania. Il business manager di Rolf Wente ha bisogno che contatti la Warner.

    Aprii il mio registro telefonico. Li abbiamo chiamati.

    Sembri stanca. Com’è andato il weekend? Hai fatto festa?

    Se non gli avessi risposto, e non fossi stata specifica, avrebbe passato un quarto d’ora a raccontarmi le sue abitudini per divertirsi. Dovevo lasciargli la sensazione di aver ottenuto qualcosa da me.

    L’altra sera sono andata in questo localino. Al Frontage. Ci sei stato?

    Sì. Certo.

    Io e mio fratello abbiamo assistito a un’esibizione di piano bar. La cantante era bravissima. Faulkner. Faulkner qualcosa. Come lo scrittore.

    Mai sentita disse.

    Bella voce. Originale.

    Perché non mi mandi i dettagli? Magari andiamo lì a spese della WDE. Ci portiamo gli assistenti. Li facciamo sentire amati.

    Ok. Tornai a concentrarmi sul mio lavoro, sperando che lui se ne andasse.

    E contatta la Warner, d’accordo? Se perdiamo il vecchio Rolf, ci ritroviamo col culo per strada. Fammi sapere dell’usignolo entro fine giornata.

    Non mi ero resa conto che, suggerendo una musicista, ero obbligata a portare i soldi aziendali a un altro spettacolo al Frontage. Ero esausta anche solo a pensarci, finché non mi tornò in mente l’uomo con la cravatta rosa.

    E se fosse stato di nuovo lì?

    Dopo aver controllato la programmazione del club, presi il telefono e uscii.

    Deirdre? dissi, quando la sentii rispondere. Ci sei?

    Che ore sono?

    Le dieci. Cosa fai il prossimo giovedì sera?

    Delle lenzuola frusciarono. Devo essere al centro di accoglienza sul tardi.

    Ti va di uscire?

    Non posso fare niente di sofisticato, Tee. Mi dà la nausea. Mia sorella Deirdre disprezzava i consumi dei ricchi.

    Non è sofisticato. È un postaccio. Non voglio andarci soltanto con i colleghi di lavoro.

    Non sono brava come mediatrice.

    Sei perfetta. Mi tieni con i piedi per terra.

    Sospirò. D’accordo. Offri tu, però. Io sono al verde.

    Nessun problema.

    Riagganciammo. Deirdre mi avrebbe fornito un pretesto per sfuggire alla combriccola della WDE, specialmente se l’uomo mozzafiato fosse stato lì.

    4

    "Q uanti ne hai bevuti?" Chiesi a Deirdre, mentre stava per cadere in avanti sul bancone del Frontage.

    È il secondo. Tolse la mano dal suo ammasso di capelli rossi ricci, per sollevare due dita. Tutti e otto avevamo i capelli rossi, ma soltanto lei li aveva ricci. Non che sia importante.

    È importante ribattei.

    No. Deirdre posò il bicchiere. Non è così. Sai cos’è importante?

    Fammi indovinare. I poveri e gli affamati?

    Deirdre sbuffò. L’avevo beccata, prima che potesse fare il suo discorso. Era una cosa che detestava. Hai più soldi del Vaticano. Sei graziosa come una bambola, e credi di avere dei problemi.

    L’aspetto e il denaro non fanno la totalità di una persona.

    Non fingere che non contino. È così. Se vedessi quello che vedo io tutti i giorni.

    Le luci si abbassarono, e noi applaudimmo. La cantante, Monica Falkner, apparve accanto al pianoforte per eseguire ‘Stormy Weather’, come se volesse strappare le nubi dal cielo, ma non riuscisse ad arrivare abbastanza in alto. Una cantante che non era nessuno, in una città in cui tutti erano qualcuno, stava in piedi davanti al pianoforte a cantare canzoni di altre persone, in una sala costruita per altri scopi. Passò da Stormy Weather a qualcosa di più lamentoso. Dio mio, era totalmente dedita ad ogni parola, ad ogni nota.

    Non c’era alcuna via di mezzo con quella donna. Aveva il controllo su di me. Cantava al ritmo del tintinnio di chiavi e del ronzio di stampanti. C’era uno spazio aperto dentro di me, oltre il quale la professionalità s’incrinava, la stanchezza si spaccava e la tristezza palpitava. Lei accarezzò quel posto e poi lo pungolò.

    Mi mancava Daniel. Mi mancava la solidità del suo corpo e il tocco delle sue mani. Mi mancavano le sue risate, il modo in cui mi stringeva il seno nel sonno, il peso del suo braccio sulla mia spalla, e il modo in cui si scostava dal viso i capelli castano chiaro. Mi mancava chiamarlo per dirgli dov’ero. Ero una donna indipendente. Potevo andare avanti benissimo senza di lui e senza chiunque altro. Però mi mancava, e mi mancava essere amata. Dopo che mi aveva tradita, tutta la mia gioia per il suo amore era affogata nell’amarezza. Ero nostalgica di qualcosa che era morto.

    Va tutto bene? chiese Gene. Si era alzato dal tavolo per venire a parlare con me al bancone. Era il mio ‘tipo’: biondo scuro, ambizioso, dal sorriso facile, sicuro di sé. Ma era anche il più tremendo coglione di Hollywood.

    Sì, grazie.

    È brava. La cantante.

    Fantastico. Percepii un’assenza alla mia destra, dove c’era stata Deirdre.

    Credo che potremmo combinare qualcosa con lei. Darle una lucidata, gonna più corta. Usare il corpo. Sammy ha messo sotto contratto Geraldine Stark. Sta cercando di entrare nel settore della moda. Potrebbe essere una bella botta di culo. Mi fece l’occhiolino, come se potesse sfuggirmi il suo doppio senso.

    Spero che funzioni dissi. Vado alla toilette.

    Ci rivediamo al tavolo. Prese il suo bicchiere. Non sparire dalla circolazione.

    Deirdre non era in bagno. Mi ritrovai a guardare lo stesso rotolo di carta igienica di due settimane prima. Ancora un unico quadratino che pendeva. Un rotolo diverso, ovviamente, ma la stessa quantità. Non abbastanza.

    Semplicemente non abbastanza.

    Il corridoio fuori dal bagno conduceva all’esterno, dove una piccola zona con posti a sedere e posacenere era bloccata dal parcheggio. Sentii urlare e chiamare ripetutamente ‘stronza’. Anche se normalmente evitavo comportamenti sgradevoli, andai a vedere.

    Una Porsche Boxster rossa era parcheggiata nel posto per disabili, e sopra il cofano, con il suo metro e ottanta di statura per sessantotto chili di peso, Deirdre era lunga distesa sulla schiena. L’uomo che urlava era più basso di una quindicina di centimetri e più leggero di una decina di chili (senza contare il peso del petrolio nei suoi prodotti per capelli). Era vestito in pelle da capo a piedi, e aveva una voce simile al suono provocato da un’auto che si fermava stridendo.

    Scendi. Dalla. Porsche. Mentre urlava, la spinse, ma lei era un peso morto.

    Mi scusi dissi.

    Poteva avermi sentito. Non ebbi il tempo di pensarci; il resto accadde così in fretta. Lui tirò Deirdre per il bavero, strattonandola in avanti. Come un bebè con la pancia piena di latte, lei vomitò a getto. Gli schizzò sulla giacca, sul pavimento e sulla macchina. Quello strillò e la mollò. Lei rotolò giù dal cofano, vomitando, e cadde a terra.

    Cazzo! urlò lui, mentre io cercavo di tirare mia sorella su a sedere, appoggiata alla gomma. Merda. Cristo santo. Vomito? Il vomito è acido! Hai idea di che cosa farà alla vernice? E alla mia dannata giacca?

    Pagheremo i danni.

    Ero troppo occupata con Deirdre, per curarmi di

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