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Le ombre dell'Africa
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Le ombre dell'Africa
E-book359 pagine5 ore

Le ombre dell'Africa

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Info su questo ebook

Alla fine del XVIII secolo, nelle remote terre africane, il villaggio di Kofi viene selvaggiamente attaccato ed egli viene catturato e reso schiavo. Grazie a un’insperata svolta del destino, scampa alla morte e all’imbarco verso le piantagioni del Nuovo Mondo. In cambio, però, resta prigioniero nel castello di Cape Coast. Da lì, a rischio della sua stessa vita, riesce a mantenere una corrispondenza segreta con la donna che ama.

Duecento anni dopo, l’antropologa Claudia Carpio viene inviata in quella che un tempo era nota come la Costa D’Oro. Mentre è occupata nella stesura dell’articolo più importante della sua carriera, le lettere misteriose arrivano nelle sue mani. Sconvolta dal loro brusco e sconcertante finale, si vede costretta a indagare nel torbido passato per scoprire cos’è successo a Kofi e perché ha smesso di scrivere. Non può sapere, però, che alcuni aspetti della storia non sono ancora conclusi e la coinvolgeranno in un gioco pericoloso.

Un romanzo che ci trasporterà in luoghi esotici, in un intenso viaggio attraverso il tempo e le emozioni umane più profonde.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita6 apr 2019
ISBN9781547568680
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    Anteprima del libro

    Le ombre dell'Africa - Bianca Aparicio Vinsonneau

    A Luis e Kira

    CAPITOLO 1

    "Non esistono barriere, serrature o lucchetti che possano limitare

    la libertà della mia mente"

    Virginia Woolf

    ––––––––

    Scrivo queste parole per cercare di alleviare il peso che ho sull’anima. Gli ultimi mesi sono stati un incubo dal quale non mi sveglierò mai. La mia unica speranza è che questa penna mi aiuti a lenire la tristezza che mi corrode da quando ho messo piede in questo maledetto posto.

    Mi chiamo Kofi, e questo è il mio diario.

    CAPITOLO 2

    ––––––––

    Mi chiusi la porta alle spalle e mi ci appoggiai contro, a occhi chiusi e con il respiro corto, cercando di recuperare la calma. Non lo sapevo ancora, ma non potevo più tornare indietro: la mia vita sarebbe cambiata molto più di quanto avrei mai potuto immaginare.

    Era un argomento di cui si parlava da un bel po’ all’istituto. Ricordavo perfettamente il giorno in cui Fermín irruppe di corsa nel mio ufficio, rosso come un pomodoro e con un sorriso che gli illuminava il volto.

    Si può sapere cosa ti succede? Se non ti dai una calmata ti verrà un colpo, un giorno o l’altro, lo apostrofai, a metà tra il serio e lo scherzoso, sollevando lo sguardo dalla montagna di libri che affollavano la mia scrivania. E poi, ti pare il modo di entrare? Mi hai fatto perdere il segno e adesso non so più dov’ero.

    Beh, se la prendi in questo modo non vale neanche la pena che te lo racconti..., disse, voltandosi per uscire, fingendosi offeso.

    Osservai quel vecchietto a cui ero tanto affezionata e che ormai era diventato per me una sorta di padre, confidente, protettore e amico. Alzai le mani e lo sguardo al cielo, con aria teatrale, e mi arresi.

    Sentiamo, cosa c’è di tanto importante da non poter aspettare la pausa pranzo? Spero per te che ne valga la pena, perché stavo studiando un articolo molto interessante sui riti di iniziazione di una tribù del Rio delle Amazzoni che...

    Non puoi neanche lontanamente immaginarlo! mi interruppe, impaziente. Quale prestigiosa rivista sta ottenendo riconoscimento a livello mondiale grazie ai suoi reportage mensili sull’antropologia?

    "Anthropoworld?" Lo guardai perplessa, ma sempre più interessata, mio malgrado. E allora?

    Pare che vogliano pubblicare un numero speciale per festeggiare il loro primo anniversario sul mercato. Dopo aver valutato varie opzioni, soppesato i pro e i contro, considerato le possibili influenze del... Fermín ci prendeva proprio gusto a farmi saltare i nervi, quel giorno.

    Se non arrivi subito al punto ti dovrò strappare le parole di bocca! E ti assicuro che i miei metodi non ti piaceranno! Senza rendermene conto, mi ero alzata dalla sedia, gli avevo puntato contro l’indice con aria minacciosa e lo guardavo con espressione poco amichevole.

    Scoppiò a ridere, con quella sua risata cristallina che lo faceva sembrare più giovane di almeno vent’anni. Poi, mi si avvicinò lentamente, girandomi intorno fino a mettersi alle mie spalle, mi mise le mani sulle braccia e spinse leggermente, per farmi sedere di nuovo. Fingendo di farmi un massaggio rilassante, continuò a parlare, con calma.

    Arrivo adesso dall’ufficio del nostro caro rettore. Si è messo d’accordo con la rivista e l’autore dell’articolo principale di questo numero speciale sarà qualcuno del nostro istituto, disse senza smettere di massaggiare, in attesa della mia reazione.

    Sul serio? chiesi, ancora incredula.

    Certo. A quanto pare, negli ultimi tempi la nostra fama internazionale è aumentata e gli editori ci tengono che l’autore appartenga a questa università. Ma non è questo il punto. La cosa importante è che l’articolo è nostro, cara.

    Lo guardai a bocca spalancata.

    Sorridendo, continuò. Ma aspetta, non è finita. Non è un segreto che di solito questi privilegi vanno ai veterani, a qualcuno che sia abbastanza noto ai media.

    È logico che vogliano una firma popolare in fondo all’articolo principale, poiché... Oh, Fermín! dissi, iniziando a emozionarmi davvero. La nebbia che mi aveva ottenebrato la mente fino a pochi secondi prima cominciava finalmente a diradarsi, lasciando spazio a un’idea. "Congratulazioni! È meraviglioso! Quale modo migliore per terminare la tua carriera che scrivere per Anthropoworld?"

    No, cara, ti sbagli. Congratulazioni a te, mormorò nel mio orecchio, mentre si spostava di fronte a me, per godersi la mia espressione perplessa.

    A me? Si può sapere cosa vuoi dire?

    Claudia, sarai tu l’autrice dell’articolo principale per il prossimo numero, in occasione dell’anniversario della rivista.

    La stanza cominciò a girare intorno a me, riuscii a fatica a sentire il resto delle spiegazioni che il mio collega e vecchio amico mi stava dando. Continuava a parlare dell’incontro che aveva avuto con il rettore, durante il quale gli aveva spiegato che io ero la scelta migliore: una giovane promessa dalle grandi aspirazioni e un futuro brillante nel campo dell’antropologia sociale. La mia mente era già molto lontana da quell’ufficio, volava a qualche metro da terra, mentre una sensazione di calore mi saliva dai piedi fino alle orecchie, facendomi sentire euforica e intontita allo stesso tempo. Quella strana sensazione sparì di colpo quando un pensiero si installò nella mia mente. Sarei stata all’altezza? E se non ero abbastanza brava? Fui presa dal panico. Il respiro mi si fece corto e mi costrinse ad aggrapparmi ai braccioli della sedia con tanta forza che le nocche si sbiancarono per la mancanza di circolazione. Chiusi gli occhi e cercai di inspirare con calma dal naso ed espirare dalla bocca, cercando di recuperare il controllo. In quel momento Fermín, che non aveva smesso di parlare un secondo mentre passeggiava, o meglio marciava su e giù per il mio ufficio, gesticolando, si rese conto che ero sull’orlo di un attacco di panico e si fermò all’istante. Mi si avvicinò e mi prese la mano, bisbigliando parole tranquillizzanti che a poco a poco riuscirono a farmi tornare a respirare normalmente, facendomi sentire più calma.

    Fermín, non posso farlo, riuscii ad articolare, con difficoltà. Non sono capace.

    Smettila subito, ragazza, mi sgridò, come se fosse mio padre. Sei una grande professionista, e puoi fare questo e molto altro. Non dire mai più una stupidaggine simile, altrimenti offrirò il lavoro alla nuova borsista, che nella sua immensa ignoranza, si considera più capace di tutti gli altri ricercatori dell’istituto messi insieme.

    Con questo ultimo commento era riuscito perfino a strapparmi un sorriso. In fin dei conti, mi dissi, perché non avrei dovuto scrivere l’articolo? Ne avevo già scritti altri per pubblicazioni più modeste, e avevano ricevuto delle ottime critiche dagli esperti del settore. Non ero una novellina, avevo già fatto i miei primi passi nel mondo, ma chiaramente in questo caso era una cosa diversa.

    Perché non lo scrivi tu? Sei una figura molto nota nel nostro settore, quasi un’istituzione. Sono certa che gli editori sarebbero felicissimi se la firma dell’articolo fosse tua.

    Claudia, sospirò, sedendosi lentamente accanto a me, non ti nego che il rettore mi ha suggerito proprio questo quando abbiamo iniziato a parlare. Ma io ormai sono vecchio per queste cose.

    Volevo protestare, le sue parole mi sembravano quasi un sacrilegio, ma lui zittì le mie rimostranze alzando una mano e guardandomi negli occhi con espressione seria.

    Ho avuto il piacere di partecipare a molte ricerche durante la mia carriera. Alcune hanno avuto grande successo, altre sono state più discrete, ma mi hanno permesso di imparare e divertirmi molto. Si fermò un momento, ed ebbi l’impressione che stesse valutando se continuare a parlare o meno. Sai che tra poco andrò in pensione, e a dire il vero sono preoccupato per te, cara.

    Dai, Fermín, non ricominciare, lo supplicai.

    Non interrompermi, sto parlando seriamente adesso, e voglio che mi ascolti. Anche se non abbiamo legami di sangue, sei come una figlia per me e desidero il meglio per te. Lavoriamo insieme da qualche anno, ormai, e credo di poter dire che ti conosco bene. Ho cercato di insegnarti tutto ciò che so, e devo riconoscere che sei stata una grande allieva. Oserei dire che ormai hai superato il maestro. Però quando penso a te, non mi preoccupa la tua capacità professionale – che è senza dubbio eccellente – ma la tua vita privata. Sì, lo so che non hai avuto tempo per dei flirt o altro, perché stavi lavorando per arrivare dove sei adesso, e questo è ammirevole, ma gli anni passano, Santo Cielo! Non voglio che tra qualche anno guardandoti indietro tu scopra che li hai passati con la sola compagnia di libri e appunti, e che ti sei persa la parte migliore della vita.

    Ma a me piace quello che faccio. Amo il mio lavoro, replicai, offesa. Mi sembrava che si stesse intromettendo un po’ troppo negli affari miei. Chiaramente, sapevo che gli anni passavano sempre più in fretta e che la mia lista delle cose da fare prima di morire era quasi intatta, ma cosa potevo farci?

    Ne sono certo, anche se a volte penso che tu non veda oltre queste quattro pareti. Ogni giorno arrivi qui prestissimo con un caffè in mano, e te ne vai quasi sempre per ultima, quando è già buio, senza neanche esserti fermata a pranzo.

    Non è vero. Non scendo sempre al bar, però chiamo e mi faccio portare su qualcosa.

    Fermín mi guardò, contrariato per le mie continue interruzioni e scuse. Prudentemente, decisi di tacere e lasciarlo finire. Volevo vedere dove sarebbe andato a parare.

    Lo vedi? Mi stai dando ragione. Frequenti pochissima gente e non hai neanche tempo per un hobby, perché sei sempre presa con un nuovo master, una nuova ricerca o uno studio che ti assorbe completamente. Voglio che tu sappia che ti ammiro per i tuoi sforzi di migliorare sul lavoro, per costruirti un buon futuro. Ma la vita è molto di più, e non voglio che te la lasci sfuggire di mano. Ecco perché non ho dubitato un secondo, e ho deciso di declinare l’offerta del rettore e proporre te al mio posto. Puoi considerarlo un regalo di prepensionamento, se vuoi. Dopo di che, non riuscì a resistere e mi lanciò una piccola provocazione: Inoltre, tutto ciò che sai l’hai imparato da me, quindi sarà come se l’articolo lo scrivessi io stesso, ma senza fare fatica.

    Impulsivamente, mi alzai e lo abbracciai forte. Avrei sentito molto la sua mancanza quando se ne sarebbe andato. Erano ormai cinque anni che condividevamo l’ufficio e quella che all’inizio era stata solo una relazione cordiale tra colleghi si era trasformata in molto di più. Fermín era un uomo dal cuore enorme in un corpo minuscolo. Era basso, minuto, e i pochi capelli che gli restavano erano totalmente bianchi, ma nonostante il suo aspetto fragile era molto gioviale, con un’energia che molte persone con la metà dei suoi anni gli avrebbero invidiato. Aveva sempre il sorriso pronto, per cercare di farmi dimenticare i problemi. Quando avevamo appena iniziato a lavorare insieme, una sera tornai a casa e scoprii che il mio fidanzato mi aveva lasciata, senza la minima spiegazione, se non la sua parte di armadio completamente vuota. Mi sentii talmente persa che non mi venne in mente altro che tornare all’università. Contavo di sedermi alla mia scrivania e passare la notte da sola, ad asciugarmi le lacrime e a compatirmi finché mi fossi addormentata, o si fosse fatto giorno. Quando aprii la porta dell’ufficio, trovai Fermín, ancora chino sulle sue carte, alla tenue luce della lampada da scrivania. Quando sollevò lo sguardo, qualcosa dentro di me si ruppe e cominciai a piangere, senza controllo. Ancora oggi non so bene come accadde, ma finimmo col mangiare riso cinese e pollo in salsa agrodolce sul tappeto dell’ufficio alle due di notte, ridendo delle rocambolesche storie d’amore che mi raccontò, per lo più avvenute quando era giovane, ma qualcuna anche più di recente.

    Risultò che, quello che da allora sarebbe diventato il mio collega inseparabile, aveva scoperto la sua omosessualità in un’epoca in cui non era molto ben vista. Di conseguenza, dovette subire innumerevoli vessazioni e sgarbi da parte di persone che si ritenevano superiori solo per il fatto che condividevano il letto con delle donne, o almeno fingevano che fosse così. Dopo vari incidenti, dalle bastonate agli episodi di violenza, che arrivarono a mettere la sua vita in serio pericolo, e alla vergogna e al rifiuto della sua famiglia, già di per sé un fardello insostenibile, suo padre decise di mandarlo all’estero, presso degli zii. Finì per passare la sua gioventù e la maggior parte dell’epoca della dittatura in Francia dove, anche se andare a letto con una persona del proprio stesso sesso non era ben visto, almeno non comportava continue vessazioni. In quel periodo, finalmente, provò qualcosa di simile alla felicità. Essendo un tipo che si innamora facilmente, ebbe molte relazioni con diverse categorie di uomini. Alternò storie d’amore serie, durante le quali non mancarono tradimenti da entrambe le parti, a rotture degne di una telenovela, con vestiti che volavano dal balcone, vasi scaraventati contro le pareti, e soprattutto molte lacrime. Infine, dopo la morte di Franco, decise di tornare in patria per dedicarsi all’altra sua passione: l’antropologia. Si laureò con lode all’università di Madrid e arrivò ad essere un referente nella materia. Oltre al fatto che era un grande professionista, ciò che ammiravo di più in lui era il suo valore come essere umano. Qualità, questa, di cui erano completamente privi coloro che riversavano la loro frustrazione in ogni colpo che gli avevano sferrato da anni.

    Quando mi scostai dall’abbraccio, mi resi conto che Fermín aveva gli occhi umidi per l’emozione, anche se cercò di dissimularlo alzandosi bruscamente e lisciandosi i pantaloni con gesti rapidi ed energici, riprendendo il discorso.

    Forza, basta sentimentalismi, adesso. Dove eravamo rimasti?

    Una cosa, Fermín. Piano piano, senza che me ne rendessi conto, un quesito si era fatto strada nella mia mente. In quel momento, però, lo colsi chiaramente e una strana inquietudine si impadronì di me mentre dicevo: Non mi hai ancora detto quale sarà l’argomento del famoso articolo.

    Hai ragione, ma questa è la parte migliore, quindi l’avevo tenuta in serbo per il finale, disse, abbassando la voce finché arrivò ad essere appena un sussurro di emozione trattenuta. Prepara le valigie, il tuo aereo parte tra un mese... destinazione: Africa!

    CAPITOLO 3

    La libertà è il bene principale e la prima necessità degli esseri umani

    F. R. de Chateaubriand

    ––––––––

    Ogni notte, mi assalgono i ricordi di quel giorno nefasto. Quella mattina, il sole brillava alto nel cielo, l’aria era fresca e nulla lasciava presagire la disgrazia che incombeva su di noi. Le donne erano indaffarate a preparare i fuochi. I bambini, ancora mezzi addormentati e seminudi, iniziavano a scorrazzare da una casa all’altra. Le prime ore del giorno erano le migliori per la pesca, quindi noi uomini ci congedammo e scendemmo al lago con i nostri strumenti di lavoro. La temperatura iniziava a salire e faceva evaporare la rugiada dalle felci, formando una leggera foschia, che avvolgeva il cammino di mistero e magia. Per un bel po’ fummo accompagnati dai suoni domestici e familiari, riuscivamo persino a sentire le voci dei ragazzi del villaggio, che lentamente ci abbandonarono man mano che proseguivamo il cammino. I miei compagni ridevano a crepapelle per qualche battuta stupida che si erano scambiati, ma io ero immerso nei miei pensieri. Il mio cuore era pieno di gioia, ma per un’altra ragione. La mia amata sposa era incinta. Era una notizia grandiosa, ed ero talmente felice che non ero riuscito praticamente a chiudere occhio quella notte. La nostra unione era stata benedetta dagli dei con due meravigliose bambine, ma in fondo al mio cuore speravo che stavolta si trattasse di un maschio. Un figlio che crescesse sano e forte, al quale avrei potuto insegnare a pescare come mio padre aveva fatto con me, dopo averlo appreso dal suo. Appena tornato al villaggio, al tramonto, avrei portato un’offerta agli dei affinché tutto si svolgesse come desideravo.

    Mio fratello Quacoe, che guidava il gruppo insieme ai veterani, sollevò la mano in un gesto brusco che ci fece tacere all’istante. All’inizio, non vidi né sentii nulla. Eravamo in cima a una collina circondata da fitta vegetazione che impediva di vedere oltre la prima curva. Improvvisamente, un grido straziante di donna ruppe il silenzio e mi fece venire la pelle d’oca. Restammo tutti pietrificati per la sorpresa, ma un secondo urlo ci risvegliò dal torpore. Lasciammo cadere le reti, i machete e il resto degli attrezzi e corremmo giù per la collina per aiutarla. Raggiungemmo presto una zona con maggior visibilità e scorgemmo una ragazza terrorizzata che cercava di sfuggire a un gruppo di uomini con ovvie cattive intenzioni. Continuammo ad avanzare più velocemente possibile. Stavamo guadagnano terreno, quando mi accorsi che c’era qualcosa di strano. Accortasi che stavamo accorrendo in suo aiuto, la ragazza smise di correre e permise ai suoi inseguitori di raggiungerla. A quel punto, inspiegabilmente, anche loro si fermarono e si voltarono a osservarci.

    È una trappola! urlò Quacoe.

    Ma ormai era tardi. L’eco profondo di un tuono risuonò alle nostre spalle. Era il suono di numerosi passi che scendevano a tutta velocità dallo stesso versante che avevamo percorso poco prima. Ci voltammo e scorgemmo una valanga umana che ci avrebbe raggiunti in pochi istanti. Caricavano con coltelli e pali contro di noi, che eravamo completamente inermi. Capimmo troppo tardi che eravamo stati vittima di un’imboscata: con astuzia, erano riusciti a farci abbandonare tutto ciò che avremmo potuto usare per difenderci e ne approfittavano attaccandoci dalla retroguardia. Mi vennero in mente le storie che circolavano sugli Ashanti, che trafficavano con i loro fratelli e li vendevano alla tribù dei Fanti, che erano d’accordo con i bianchi giunti dalle terre lontane e stabilitisi sulla costa. Mi guardai intorno. C’erano i miei amici, la mia famiglia, mio fratello...disposti a lottare fino alla morte, usando le mani come unica arma. La battaglia sarebbe stata impari, gli avversari erano tre volte più numerosi di noi, e poi erano armati. I miei pensieri volarono al villaggio, che con la nostra morte sarebbe rimasto senza alcuna protezione. Le nostre mogli e i bambini sarebbero stati alla mercé di quei traditori. Disperato, cercavo di trovare una soluzione all’inevitabile tragedia che incombeva su di noi, quando incrociai lo sguardo con uno dei pescatori più giovani; era un ragazzo sveglio e audace per la sua età, anche se al momento aveva il terrore disegnato in volto. Coraggiosamente sostenne il mio sguardo, anche se il tremore del labbro inferiore lo tradiva.

    Un’idea si affacciò fugacemente alla mia mente. Mi resi subito conto che era l’unica opzione possibile per salvare le nostre famiglie. Presi il ragazzo per il braccio e sussurrai:

    Ekwon, ascoltami bene. Abbiamo solo pochi secondi prima che ci raggiungano. Devi correre al villaggio e dare l’allarme a tutti quelli che sono rimasti lì.

    Non posso abbandonarvi, lotterò con voi, rispose con voce tremante, cercando di dimostrare un coraggio che era ben lungi dal provare. Guardai la collina, gli assalitori si stavano avvicinando. Non c’era più tempo per le chiacchiere.

    Non abbiamo la minima possibilità di vincere questa battaglia. Moriremo tutti, capisci? Devi avvisarli in modo che possano mettersi in salvo prima che questi infami abbiano finito con noi e vadano a cercarli. Pensa a tua madre, alle tue sorelle. Vuoi abbandonarle alla loro sorte? Sai cosa capiterà loro se riusciranno a catturarle? L’urgenza di far capire le mie ragioni a Ekwon mi ardeva in gola e le dure parole mi uscivano dalla bocca precipitosamente. Quando smisi di parlare, vidi che gli occhi del ragazzo si erano riempiti di lacrime. Abbassò lo sguardo al suolo, e cedette.

    Quando arriveranno qui succederà un macello. Tu cerca di tenerti sulla sinistra, vicino alla zona in cui la vegetazione è più fitta. Non ci metteranno molto ad accerchiarci, quindi devi fare in fretta. Appena puoi, nasconditi tra gli arbusti. Muoviti carponi finché sarai abbastanza lontano da non essere visto, poi corri come se gli spiriti ti stessero inseguendo. Devi arrivare al villaggio prima di loro. Il ragazzo assentì, terrorizzato, mentre con la coda dell’occhio lanciava delle occhiate furtive al rapido avanzare dei banditi che si avvicinavano a una velocità allarmante. Appena raggiunte le prime case lancia l’allarme. Riunisci tutte le donne, i bambini e gli anziani e portali al villaggio di tuo zio. Lì saranno in salvo.

    Non so se ce la faccio... ho tanta paura. Il labbro inferiore tremava.

    Sei un bravo ragazzo, Ekwon, e so che le nostre famiglie si salveranno grazie a te. Desideravo ardentemente credere a quello che stavo dicendo, era l’unica opportunità di salvarli tutti, comprese le mie principesse, la mia regina e la nuova vita che cresceva dentro di lei.

    Appena pronunciata l’ultima sillaba, sentii il rumore dei randelli che si schiantavano sulle prime teste. Quelli che, come noi, si trovavano nella parte sinistra erano ancora lontani dai colpi che venivano assestati dall’altra parte. La mia attenzione passava dal centro della zuffa al giovane Ekwon, che era riuscito agilmente ad avvicinarsi agli arbusti da cui sarebbe scappato, seguendo le mie istruzioni. A quel punto, qualcuno mi colpì al braccio sinistro. Il dolore mi fece collassare a terra, ma aiutandomi con l’altro braccio, illeso per il momento, mi alzai e mi avventai contro l’uomo, lo atterrai e gli sferrai due pugni con tutte le mie forze col braccio buono, finché restò a terra, incosciente. Guardai indietro, cercando di vedere cos’era successo al ragazzo, e lo vidi guardare con sguardo terrorizzato verso suo padre, che era stato attaccato da due individui armati fino ai denti. Mi resi conto che quel povero ragazzo stava per accorrere in suo aiuto, unendo la sua morte alla nostra e perdendo l’ultima possibilità di salvare le nostre famiglie. Ruotai su me stesso e mi diressi rapidamente verso l’uomo, che era in seria difficoltà. Con un colpo secco alle costole mi liberai del primo assalitore. In qualsiasi altra circostanza, sentire le ossa di un’altra persona rompersi sotto i miei pugni mi avrebbe fatto vomitare, ma in quel momento ero fuori di me. Dovevo assolutamente guadagnare qualche secondo per Ekwon e non esitai neanche un momento prima di assestare il secondo colpo al naso dell’altro uomo che stava già legando i polsi del padre del ragazzo. Per il dolore, lasciò cadere il coltello e si portò le mani al viso. Un abbondante fiotto di sangue cominciò a fluire tra le sue dita. Usai quest’istante di tregua per cercare Ekwon con lo sguardo, e riuscii a vedere l’istante esatto in cui si nascondeva, senza essere visto, tra i rami di uno spesso arbusto vicino. Sollevato, e pregando gli spiriti affinché raggiungesse l’obiettivo, mi voltai verso la battaglia e notai che il cerchio si stava serrando. Praticamente, eravamo già circondati. Cercai mio fratello e lo vidi abbastanza lontano, stava lottando contro un tipo dall’espressione feroce. Cercai di avvicinarmi per aiutarlo, quando improvvisamente sentii un suono secco, come di qualcosa che si rompeva dentro di me, e tutto divenne nero. Caddi al suolo, mentre intorno alla mia testa si formava una grande pozza del mio stesso sangue.

    Quando rinvenni, lo spettacolo davanti ai miei occhi era il più desolante che avessi mai visto in vita mia. Più della metà degli abitanti del villaggio giacevano a terra, morti o gravemente feriti. Quelli che erano in condizioni migliori, anche se malridotti, avevano i piedi e le mani legati strettamente. Eravamo raggruppati, alcuni seduti, altri, come me, stesi in qualche modo a terra. Le corde erano spesse e ci fermavano la circolazione. Non sentivo più le estremità e un dolore tremendo mi trapanava il cervello. Cercai di riconoscere mio fratello Quacoe tra i visi contusi e gonfi che mi circondavano. Con un sospiro di sollievo, notai che, anche se malridotto, era ancora vivo. Mi confortò un po’ vedere che altri miei amici e familiari respiravano ancora, ma mi si strinse il cuore per il dolore quando, passando in rassegna i cadaveri sparsi al suolo, riconobbi molte persone che non avrei visto mai più.

    I nostri assalitori erano africani, Ashanti, della nostra stessa tribù, fratelli, sangue del mio sangue. Ci avevano venduto per una manciata di monete e qualche arma da fuoco. I superstiti furono uniti l’uno all’altro per il collo, per mezzo di tavole di legno e corde talmente ruvide che sembravano fatte di spine. I morti furono spinti e fatti rotolare giù da un terrapieno. Non c’era alcun rispetto, né per gli uni, né per gli altri. Ci fecero camminare per giorni, in una sorta di marcia forzata, fuori dai sentieri, attraverso la macchia della giungla. Eravamo completamente disorientati e, anche se cercavamo di seguire il ritmo imposto dai nostri rapitori, le gravi ferite, oltre alle corde, non ci permettevano di tenere un gran ritmo.

    Tuttavia, ai fratelli traditori non importavano le nostre sofferenze; se a causa di una scivolata o per sfinimento, qualcuno restava in ritardo, riceveva subito una tal pioggia di colpi che lo obbligava a continuare, oppure gli strappava quel poco di vita che gli restava.

    Eravamo inorriditi, non avevamo mai visto tanta crudeltà verso un essere umano e, anche se all’inizio imploravamo pietà, presto ci rendemmo conto che era completamente inutile. Quando i nostri occhi disperati li cercavano sperando in un briciolo di compassione, loro distoglievano lo sguardo. Quando li imploravamo di farci fare una pausa, il senso di colpa impediva loro di proferire parola. Quando alzavamo le mani in segno di supplica e libertà, ci assestavano colpi durissimi. Il rimorso alimentava una furia smisurata che riversavano sui nostri corpi doloranti e sulle nostre anime sconfitte. Il nostro destino era scritto. Ci chiedevamo cosa fosse successo alle nostre famiglie e anche se nessuno osava dar voce al pensiero, in fondo al cuore tutti noi ci chiedevamo se fossero ancora in vita.

    Assin Manso era un luogo macabro. Arrivammo al fiume esausti e con i piedi scuoiati, dopo averli trascinati un passo dopo l’altro, mentre le nostre speranze venivano cancellate a furia di frustate. Ci fecero fermare lì, tra il denso fogliame che cresceva lungo le sponde, sotto l’occhio vigile dei fieri guardiani. Nessuno si lamentò, quel riposo era quasi una benedizione. Durante le tristi giornate di cammino, fummo costretti ad assistere alla morte di molti dei nostri, che non avevano la forza sufficiente per sopportare le ferite o la tristezza. Le loro anime furono prese dagli spiriti, lasciando i sopravvissuti ancor più desolati. In quei giorni terribili, il dubbio di cosa fosse successo alla mia famiglia divenne il mio unico pensiero, un’ossessione che mi avvelenava dall’interno. Ogni secondo, la mia mente volava al villaggio e si disperava, non potendo ottenere risposta alla domanda che mi angosciava. La compagnia di mio fratello fu il mio unico conforto. Se non fosse stato per la sua presenza, sono sicuro che mi sarei lasciato morire anch’io.

    Siete degli stupidi! Un uomo grande come un gigante si diresse verso il gruppetto degli Ashanti. Vi ho chiesto degli uomini, e mi portate questo? Sono solo una quindicina, e sono ridotti da schifo! Saremo fortunati se ne sopravviverà la metà. Sei un incapace, Kobina.

    Quello che dici non è giusto, Akan, protestò con tono pietoso. Erano molti, e hanno opposto resistenza.

    Sei patetico! Eravate almeno il triplo, ed era ovvio che avrebbero opposto resistenza. O pensavate che vi avrebbero seguiti docilmente? Emise una sonora risata che ci fece gelare il sangue e che si arrestò tanto rapidamente come era iniziata. Chiaramente, non ho intenzione di pagarti nulla per questa feccia che mi hai portato.

    Presto te ne porterò degli altri. Ieri sera i miei uomini sono tornati a prendere quelli che erano rimasti al villaggio. Entro sera saranno qui. Le parole di Kobina mi fecero accapponare la pelle.

    "Lo spero bene. Se vuoi continuare a collaborare con me,

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