Santa pirateria
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Anteprima del libro
Santa pirateria - Enrico Novelli
Santa pirateria
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1939, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728411124
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
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This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
I
come l’Ignoto divenne comandante dell’Asgard
Nella notte fonda, l’Asgard,guidato dall’infallibile mano di Corrado Velebit, riuscì a passare davanti alle navi italiane ancorate a Zara e a imboccare senza guai il Canale di Mezzo. Soffiava un po’ di bora e il piccolo vapore ballava su le vaste ondate come un sughero: ma nessuno si inquietava di questa danza, a bordo. L’equipaggio, composto di tre vecchi marinai croati, di un fuochista dàlmata e di un macchinista sloveno, ne aveva viste ben altre, durante la guerra!… Perché il mare, grosso che fosse, non poteva nulla contro quello scafo ben sagomato e saldo, leggero e tagliente: e nemmeno le cannonate lo avevano mai còlto: forse per la estrema rapidità della sua macchina, per la grande docilità del suo timone, e, molto, per la fortuna che lo proteggeva. La fortuna era rappresentata dalla signorina Vila Velebit, che, dopo la morte della madre, la rispettabile signora Serena, aveva preso risolutamente domicilio a bordo, nonostante le proteste del padre e di alcuni marinai brontoloni. Vila era una ragazza alta e robusta, bionda, con il viso un po’ duro, ma bello, con gli occhi grandi e chiari, che, a volte, mandavan faville. Più tenace e fiera del padre, era cresciuta quasi come una selvaggia, lontana dalle amiche, dagli svaghi, dalle cose inutili: aveva studiato, ma il maggior tempo l’aveva trascorso sul mare e nel mare era divenuta una nuotatrice perfetta, una marinaia ardita e sicura, e una appassionata pescatrice. Le sue mani, lunghe e agili, erano un po’ ruvide e qua e là segnate di calli. Non si radeva le ciglia e non si tingeva le labbra. (Forse non ne aveva bisogno). Quando le accadde, come abbiamo detto, la disgrazia della madre, non rimase in forse a lungo: disse al padre che ormai lo avrebbe seguito a bordo dell’Asgard e sarebbe stata la indivisibile compagna dei suoi viaggi e delle sue avventure. Il buon Corrado trasportava la cellulosa, il legname, il vino di Vòdice nella Dalmazia meridionale: a volte (questo non è certo: ma le male lingue, chi le frena?) accettava qualche incarico pericoloso: quello del trasporto di merce di contrabbando, per spiegarsi. E però il degno uomo, che adorava la figliuola, torse il naso brontolando:
— Tu, su la mia barca? Sei pazza. Non ne parliamo più: resterai a Bùccari.
Glie lo disse nel suo orribile dialetto sloveno, ma glie lo disse in tono perentorio: e Vila sbottò in una gran risata.
Il giorno dopo, Corrado se la trovò sul minuscolo ponte di comando, che guardava gli strumenti di navigazione; non ebbe il coraggio di cacciarla: e, da allora, Vila fece di una cabina dell’Asgard la sua minuscola casa: vi mise perfino la gabbia del merlo, e il vasetto dei gerani. Naturalmente, tanto il padrone della nave come la ragazza detestavano teoricamente gli italiani. Corrado aveva lasciato da poco la marina imperiale, e rammentava sempre con orgoglio che suo padre, il valoroso Francesco Velebit (medaglia d’argento), era stato pilota a bordo dell’Imperatore, al tempo dell’ammiraglio Tegethoff: e nella battaglia di Lissa aveva contribuito validamente alle manovre del commodoro Petz, dirigendo la prua della nave contro il fianco del Re di Portogallo. Nelle sere di calma, Corrado raccoglieva l’equipaggio su la prua, e si sfogava a raccontare le vicende della battaglia di Lissa, le grandi gesta paterne, le avventure iniziali della sua vita di marinaio-soldato e tante altre cose.
Gli ascoltatori sonnecchiavano, perché quelle storie le avevano sentite altre mille volte: ma fingevano di accoglierle con grande interesse, per non offendere il capitano, uomo molto suscettibile. In un angolo, seduta su un rotolo di cordami, Vila lisciava la testa del micio di bordo, e guardava le stelle che palpitavano su la immensa quiete del Carnaro. A un tratto mugolava l’organetto di Assirto, secondo di bordo: e gli altri due cominciavano a cantare la storia del rapimento delle trecento spose veneziane, che i pirati condussero a Zengg, la città degli Uscocchi, per tenerle come ostaggio e raccogliere, dai riscatti, sterminate ricchezze. Erano ormai quattro anni, fin dall’inizio della guerra, che navigavano così, rasente la costa, a fuochi spenti, per cacciarsi ad ogni apparire di navi sospette in qualche spaccatura profonda della gran parete di roccia. Anche adesso, con la pace, bisognava seguitare quello strano Viaggiare tra scoglio, e scoglio, da rifugio a rifugio, come animali inseguiti.
La Dalmazia era sempre occupata dagli Italiani. A Fiume, c’era Gabriele d’Annunzio. Il Governo di Roma aveva disposto il blocco intorno a Fiume. Per non interrompere il suo traffico, Corrado Velebit s’era dovuto rassegnare a far della graziosa Asgard una specie di nave corsara. Per questo scopo aveva cambiato le caldaie e certe parti dell’apparato motore, in modo da poter imprimere al battello, in caso di bisogno, una velocità notevolissima per quel tempo: venti miglia l’ora.
Il padre di Vila temeva adesso, in modo particolare, i violatori del blocco fiumano: quelli cioè che fermavano e sequestravano i battelli, carichi di merci e di derrate e riuscivano, con prodigi d’astuzie e di ardimenti, a condurle nel porto della città assediata. Era così inferocito contro quei misteriosi amici del Comandante d’Annunzio,che si sarebbe volentieri scontrato con qualcuno di loro, per impegnare una vera battaglia. Ma purtroppo, l’Asgard era armato di un solo fucile-cannoncino e non avrebbe potuto resistere a lungo ad un serio attacco. E proprio la certezza di questa inferiorità materiale metteva al colmo lo sdegno del vecchio marinaro contro i suoi ipotetici assalitori.
Vila un giorno gli aveva detto placidamente:
— Perché, babbo, non compri un «305»?
Il buon Corrado aveva risposto fra i ruggiti:
— Bastasse, un «305», contro quei diavoli scatenati!… Per loro ci vorrebbe una corazzata come quella che affondò… a Premuda… l’anno scorso! Già: la Szent Istvàn. Era la più bella nave della flotta…! Eppure…
In fondo, il suo odio si concentrava tutto sul più terribile, più ardito, più fortunato di quei corsari: l’Ignoto. Molti dicevano che fosse un fiumano, già ufficiale della Marina austro-ungarica. Certo, era un uomo prodigioso: con il suo Mas aveva compiuto imprese inverosimili: si era impadronito di grossi piroscafi da carico, che aveva poi condotto a Fiume, si era spinto nel fondo dei più misteriosi golfi della Dalmazia, facendo man bassa di materiali e di viveri, aveva osato assalire anche navi da guerra e far prigionieri personaggi molto importanti nella politica internazionale: un banchiere americano seguace del signor Wilson, il presidente di una repubblichetta sud-americana, e perfino un ambasciatore della Russia Bianca. Nessuno era mai riuscito a metterlo nel sacco, quel demonio: e per questo tutti i navigatori dell’Adriatico di qualunque razza e bandiera lo temevano (eccettuati i marinai italiani, che per mostrarsi disciplinati ai comandi dei superiori fingevano di dargli la caccia, ma segretamente facevan voti per il buon esito delle sue scorrerie audacissime).
Quella notte però, arrivato, come abbiamo detto, al Canale di Mezzo, e tutto occupato a tener la sua nave ben diritta contro le ondate che diventavano sempre più grosse e minacciose, Corrado Velebit stimò inutile di pensare all’Ignoto. Anzi, dopo una certa manovra alquanto difficile per entrare fra due isolette, egli mormorò nelle orecchie del secondo, Assirto Prilovich:
— Puoi andare a dormire: fino all’alba ci sto io qui. Possiamo filare tranquilli…
— Padron Corrado: non credete che sarebbe meglio infilarsi in qualche buca, al riparo del vento e delle insidie?
Assirto era un bravo marinaio, ma fin dalla prima giovinezza aveva imparato a temere i pericoli più imprecisati e meno probabili, come, ad esempio, l’incontro col serpente di mare o col vascello fantasma. Adesso, poi, da che era cominciato il blocco di Fiume, l’ottimo figliolo non aveva che un pensiero: cercar di sfuggire ad un assalto di un qualunque corsaro della Reggenza. L’Ignoto era divenuto per lui una cosa simile al polipo gigante o al battello comandato dai fantasmi, ossia una minaccia ipotetica, misteriosa, ma continua e tremenda, che poteva diventare una realtà da un momento all’altro.
Corrado Velebit, per puro spirito di contraddizione, sentendo il secondo parlare di rifugi e di insidie, aveva picchiato un pugno su la ruota del timone e aveva ripetuto:
—Ti ho detto di andare a dormire, Assirto! Se io non mi sento inquieto, è segno che tutto va bene. Obbedisci!….
Proprio in quel punto, un’ombra nera saltò a bordo, e una voce squillante ordinò:
— Un po’ più a destra, capitano!… Ordinate marcia indietro alla macchina!
Assirto emise un grido e si lasciò cadere sul pavimento, accanto a Corrado, che era rimasto come folgorato dallo stupore.
— Chi siete? — dopo una pausa interminabile, il capitano dell’Asgard poté alla meglio formulare questa domanda.
— Oh! che vi importa sapere chi sono? — E il nuovo venuto si fece avanti: era un uomo alto, snello, vestito di una stretta tuta nera: aveva il viso giovanile, molto pallido, ma ben disegnato, con due grandi occhi che lampeggiavano: qualche cosa fra il pensatore e il marinaio.
Il