Volo di notte e L'aviatore
Di Antoine de Saint e Exupéry
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Edizioni integrali
Per combattere la concorrenza dei mezzi di trasporto terrestri, bisognava volare di notte e, nei tempi eroici dell’aviazione, non era difficile rimetterci la vita. E allora perché Fabien ha accettato di alzarsi in volo, in condizioni estreme, sapendo che potrebbe essere l’ultima volta, mentre chi lo aspetta muore d’angoscia? Per amore del prossimo? Per senso del dovere? Certo, sono motivazioni che possono smuovere le montagne, ma ce n’è un’altra, ancora più forte, che ha spinto l’uomo ad andare sempre oltre i suoi limiti: la sfida a questi limiti, all’ignoto, al mai tentato prima. Saint-Exupéry racconta una storia di cui tante volte era stato protagonista, perché anche lui volava di notte per portare la posta, prima e durante la guerra. Ma non si sentiva un eroe, non pensava di sacrificarsi per gli altri: semplicemente, non poteva sottrarsi alla sfida. Accettarla e andare “oltre” aveva forse più valore della vita stessa. Vol de nuit, scritto nel 1931, ottenne il premio Femina nello stesso anno e rese celebre il suo autore. L’aviatore, del 1926, è il primo racconto di Antoine de Saint-Exupéry e racconta la storia di Jacques Bernis, divenuto pilota di aerei per sfuggire al grigiore della vita in provincia.
Antoine de Saint-Exupéry
(Lione, 29 giugno 1900 – mar Mediterraneo, 31 luglio 1944), è stato uno scrittore e aviatore francese. Oltre a Il Piccolo Principe, uno dei libri più letti e amati nel mondo, è anche autore di Volo di notte e L’aviatore pubblicati in volume unico da Newton Compton editori.
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Anteprima del libro
Volo di notte e L'aviatore - Antoine de Saint
533
Titolo originale: Vol de nuit, L’aviateur
Traduzione di Fausta Cataldi Villari
Prima edizione ebook: gennaio 2015
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-7813-7
www.newtoncompton.com
Antoine De Saint Exupéry
Volo di notte
e
L’aviatore
Traduzione di Fausta Cataldi Villari
Edizioni integrali
Newton Compton editori
OMINO-OTTIMO.tifA Monsieur Didier Daurat*
*Pioniere del servizio aereo postale, direttore della compagnia L’Aéropostale
, per un certo periodo capo di Saint-Exupéry, che a lui si ispirò per il personaggio di Rivière in Vol de nuit.
Volo di notte
I
Le colline, sotto l’aereo, già solcavano d’ombra l’oro della sera. Le pianure divenivano luminose ma di una luminosità persistente: in quella regione non smettono mai di diffondere il loro colore d’oro, così come, finito l’inverno, trattengono a lungo la neve.
Il pilota Fabien stava riportando dall’estremo sud, verso Buenos Aires, la posta della Patagonia. Riconosceva l’approssimarsi della sera da segnali non diversi da quelli delle acque di un porto: dalla calma, da leggere increspature che nubi quiete a malapena disegnavano. Entrava in una rada immensa e accogliente.
In quella calma, gli sembrava di compiere una lenta passeggiata, quasi come un pastore. I pastori della Patagonia si spostano, senza fretta, da un armento all’altro. Lui si spostava da una città all’altra, era il pastore delle piccole città. Ogni due ore ne incontrava una, vicina alle rive di un fiume come ad abbeverarsi, o brucante l’erba della piana.
Talvolta dopo cento chilometri di distese incolte più deserte del mare, incrociava una fattoria isolata, che sembrava trascinare, nel mareggiare delle praterie, il suo fardello di vite umane, e allora con le ali salutava quel vascello.
«San Julian in vista; atterreremo tra dieci minuti».
Il marconista trasmetteva il messaggio a tutte le stazioni della linea.
Su duemilacinquecento chilometri, dallo stretto di Magellano a Buenos Aires, si susseguivano scali sempre uguali; ma questo si apriva sulle frontiere della notte come, in Africa, l’ultimo borgo conquistato si apre sul mistero.
Il marconista passò un foglio al pilota:
«Ci sono così tante tempeste in giro che le scariche disturbano i ricevitori. Pensa di dormire a San Julian?».
Fabien sorrise: il cielo era calmo come un acquario e tutti gli scali davanti a loro segnalavano: Cielo limpido, niente vento
.
Rispose:
«Andiamo avanti».
Il marconista però pensava che da qualche parte si celassero tempeste come vermi annidati in un frutto; la notte appariva bella e tuttavia guasta: gli ripugnava entrare in quell’ombra pronta a marcire.
Scendendo con il motore al minimo su San Julian, Fabien si sentì stanco. Tutto ciò che rende amabile la vita agli uomini gli si ingigantiva davanti: le case, i piccoli caffè, gli alberi dei viali. Era come un conquistatore che, scesa la sera sulle sue conquiste, si soffermi sulle terre dell’impero, e scopra l’umile felicità degli esseri umani. Fabien aveva bisogno di deporre le armi, di sentire la propria pesantezza, le ossa dolenti, si è ricchi anche delle proprie miserie, e dell’essere un uomo semplice, che attraverso la finestra guarda un paesaggio sempre uguale. Quel minuscolo paese gli sarebbe andato bene; dopo tante scelte ci si accontenta di quanto la vita offre e si arriva ad amarlo. È un limite come l’amore. Fabien avrebbe desiderato vivere qui a lungo, afferrare qui la propria parte di eternità, perché le piccole città, in cui si fermava per poco, gli orti cintati da vecchi muri che percorreva, gli sembravano eterni, tanto da durare oltre la sua esistenza. E il villaggio saliva verso l’aereo e verso di lui si apriva. E Fabien pensava alle amicizie, a ragazze affettuose, all’intimità di bianche coltri, a tutto quello che, lentamente, diventa intimo per sempre. E il villaggio già scivolava raso alle ali, dispiegando il mistero dei suoi orti chiusi non più protetti dai muri. Ma Fabien, toccata terra, fu consapevole di non aver visto nulla, a parte il movimento lento di alcuni uomini tra i sassi. Quel villaggio con la sua sola immobilità difendeva il segreto delle proprie passioni, quel villaggio non concedeva la propria dolcezza: si sarebbe dovuto rinunciare all’azione per conquistarla.
Passati i dieci minuti di scalo, Fabien dovette ripartire.
Si volse verso San Julian: non era più che una manciata di luci, poi di stelle, poi si dissipò la polvere che, ancora una volta, lo tentò.
«Non vedo più i quadranti: accendo».
Toccò gli interruttori, ma le lampade rosse della carlinga diffusero verso le lancette un chiarore ancora talmente sbiadito in quella luce bluastra da non colorarle. Passò le dita sopra un’ampolla: le sue dita a malapena si tinsero.
«Troppo presto».
Intanto la notte incalzava, simile a un fumo scuro, e già riempiva le vallate. Non si distinguevano più dalle pianure. I paesini si illuminavano, piccole costellazioni che sembravano chiamarsi a vicenda. Lui, a sua volta, con le dita faceva lampeggiare le luci di posizione, rispondeva ai villaggi. La terra era percorsa da richiami luminosi, ogni casa accendeva la propria stella di fronte alla notte immensa, come un faro che ruota verso il mare. Da ogni spazio in cui si celasse una vita saliva uno scintillio. Fabien godeva stupito di questo ingresso nella notte, simile stavolta a un ingresso in rada, lento e bello.
Ricacciò la testa nella carlinga. Il radio delle lancette iniziava a brillare. Una dopo l’altra il pilota verificò delle cifre, e restò soddisfatto. Sentiva di stare saldamente seduto nel cielo. Con un dito sfiorò un longherone di acciaio, e sentì la vita scorrere nel metallo: il metallo non vibrava, viveva. I cinquecento cavalli del motore facevano nascere nella materia una corrente sottile, che mutava il suo gelo in carne di velluto. Ancora una volta, in volo, il pilota non sentiva né stordimento né ebbrezza, ma il lavorio misterioso di una carne viva.
Adesso un mondo si era ricomposto, e lui a forza di gomiti cercava di mettersi comodo.
Batté leggermente sul quadro di distribuzione elettrica, toccò i contatti uno per uno, smosse qualcosa, si appoggiò meglio e cercò la posizione più adatta a sentire bene l’oscillazione di cinque tonnellate di metallo sospinte da una notte instabile. Poi si mosse a tastoni, mise in posizione la sua lampada di emergenza, la lasciò, la riprese, si assicurò che non scivolasse, la lasciò nuovamente per