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La pergamena dei segreti
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La pergamena dei segreti
E-book431 pagine5 ore

La pergamena dei segreti

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Info su questo ebook

Autore del bestseller La cospirazione degli Illuminati

Roma, 1763. La città è avvolta da neve e gelo come non avveniva da decenni. La popolazione è ridotta alla fame a causa di una lunga carestia e l’alba di ogni giorno restituisce cadaveri assiderati. Una mattina di gennaio, però, sui gradini di un palazzo nei pressi del Palatino viene ritrovato il corpo di un ecclesiastico eccellente: il cardinale Girolamo Colonna di Sciarra, camerlengo di Santa Romana Chiesa. Tutto farebbe pensare a una morte naturale, ma il bargello del Governatore, incaricato del caso, la pensa diversamente. Indagando sugli affari del cardinale, emergono rapporti poco chiari con Donato Aldobrandini di Carpi, cardinale protettore del Monte della Pietà. Ma aver ficcato il naso nei conti della neonata banca vaticana mette il funzionario pontificio in pericolo di vita. Costretto a fuggire, viene soccorso dalla baronessa d’Acoz, che grazie all’aiuto dell’Alchimista, un truffatore conosciuto in tutte le terre italiche, proverà a tirarlo fuori dai guai. Le forze in gioco sono però così potenti che della vicenda comincia a interessarsi anche il Sant’Uffizio. C’è qualcosa di poco chiaro nelle attività dell’enigmatica nobildonna. Qualcosa di cui il pontefice stesso deve essere informato…

L’indagine sulla morte di un cardinale porta alla luce oscuri segreti.
Chi tenta di scoprire la verità è in pericolo…

Hanno scritto di lui:
«Nel filone di Dan Brown si può iscrivere un fenomeno del selfpublishing italiano pescato da Newton Compton: G. L. Barone.»
La Lettura – Corriere della Sera

«L’evoluzione del genere più venduto da Le Carré a Dan Brown.»
Il Giornale

G.L. Barone
È nato a Varese nel 1974 e si è laureato in Giurisprudenza. Con la Newton Compton ha pubblicato La cospirazione degli Illuminati, Il sigillo dei tredici massoni, La chiave di Dante, I  manoscritti perduti degli Illuminati, la Codice Fenice saga, L’alchimista di Venezia e La pergamena dei segreti. È anche autore del serial ebook Il tesoro perduto dei templari e dell’ebook Reichland. L’aquila delle dodici stelle. I suoi libri sono tradotti nei Paesi di lingua anglosassone, portoghese e spagnola.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2020
ISBN9788822743411
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    Anteprima del libro

    La pergamena dei segreti - G. L. Barone

    Nota storica

    Nel novembre del 1762, l’allora camerlengo di Santa Romana Chiesa Girolamo Colonna di Sciarra confessò a papa Clemente

    XIII

    di avere scoperto una terribile congiura per rovesciare lo Stato pontificio. Rivelò anche di avere un piano per stanare i colpevoli. Non riuscì ad attuarlo, perché nel gennaio del 1763, solo due mesi dopo, morì all’improvviso.

    Prologo

    Venezia, mercoledì 22 luglio 1761.

    Tarda notte.

    Il primo a essere colpito fu il timoniere.

    La veloce bissona a otto remi, illuminata dalla luna al centro del Canal Grande, beccheggiò pericolosamente. Subito dopo, un ciuffo di schizzi d’acqua salmastra si sollevò a poppa.

    «Uomo in mare», urlò una voce. Ma non ci fu il tempo di soccorrerlo che una nuova gragnola di frecce sibilanti si abbatté sulla barca.

    Gli zaffi, i militari che la Repubblica destinava al contrasto del contrabbando, si abbassarono lungo il ponte. L’attacco proveniva dal buio, forse dalle finestre di uno dei palazzi o più probabilmente dalle fondamenta.

    «Mantenete la posizione», mormorò il capitano Lodovico Van Axel. La barca stava rallentando e rimanere al centro del canale significava essere alla mercé degli aggressori. E così accadde in effetti: nello stesso istante in cui impartiva l’ordine, un secondo uomo venne colpito al collo.

    I compagni lo videro contorcersi dal dolore. Il militare estrasse una piccola piuma insanguinata da sopra il colletto dell’uniforme e si accasciò sull’assito, esanime.

    La bissona si arrestò all’improvviso, accompagnata dai cigolii dei remi abbandonati sulle forcole. Il rimbombo della risacca sulle facciate di marmo per un attimo riempì il silenzio.

    Gli zaffi fecero balenare gli sguardi impauriti a destra e a manca. La notte veneziana conferiva agli edifici di marmo una sinistra colorazione bluastra. A prua, la sagoma del ponte di Rialto svettava oltre le peote ormeggiate alle briccole. Ma per quanto setacciassero il buio con lo sguardo, gli aggressori non si vedevano…

    E dire che doveva essere una missione semplice: scortare un carcerato da rio San Luca verso le Prigioni Nuove. Il tutto con il favore delle tenebre affinché non ci fossero imprevisti. Esattamente ciò che stava accadendo…

    Il capitano Van Axel si voltò di colpo verso il felze, al centro dell’imbarcazione. Il prigioniero sotto il cappuccio nero era immobile, le mani legate dietro la schiena e il respiro affannato. Non sembrava essersi mosso di un pollice.

    «Eccoli, a prua», avvisò uno dei suoi uomini. Aveva le mani protese oltre il ponte, con una pistola a pietra focaia saldamente in pugno. La stava puntando contro una gondola nera, che avanzava minacciosamente da volta de Canal. A bordo parevano esserci diversi ostili. Ma le frecce avvelenate non provenivano certamente da quella direzione, e ne ebbero la consapevolezza quando un altro zaffo venne colpito. Il timoniere che l’aveva preceduto emise un garrito acuto, simile a un gatto a cui viene pestata la coda.

    Van Axel scrutò prima il compagno ferito e poi ancora l’imbarcazione che si approssimava pericolosamente.

    «Fuoco. Fare fuoco», grugnì. Alla deriva al centro del canale, non avevano che pochi attimi prima di venire abbordati.

    Il boato dell’arma rimbombò sui marmi dei palazzi. Un ciuffo di fuoco divampò dalla canna, senza ottenere però un risultato apprezzabile. Schizzi di acqua si innalzarono lontani dalla monoreme degli assalitori, che ormai erano distanti non più di una decina di tese.

    Alla luce della polifora di uno degli edifici affacciati sul canale, Van Axel fece una veloce conta. Gli rimanevano solo tre zaffi, armati di moschetti e pistola. Gli aggressori invece erano almeno in cinque, parrucche bianche, mantelli e baute a celare il viso. Senza contare i complici nascosti nel buio, armati di chissà quale diavoleria che lanciava frecce avvelenate.

    Rimanendo acquattato, estrasse il coltello che teneva alla cintura. Ma che possibilità aveva con una tale disparità di forze?

    In quel momento, le onde smosse dall’altra imbarcazione investirono la sua bissona. Il risultato fu quello di farla roteare come una trottola, fino a che le due barche furono l’una di fronte all’altra.

    Van Axel, ora faccia a faccia con il drappello di criminali, deglutì, incrociando gli inconfondibili occhi di uno degli aggressori dietro la maschera. Doveva immaginarlo… Avrebbe dovuto immaginarlo.

    «Fermi. In nome della Repubblica», intimò, balzando in piedi. Ma fu del tutto inutile. I due natanti si sfiorarono, emettendo un cigolio sinistro. I marinai mascherati non attesero che i legni si fermassero e saltarono a bordo, avvicinandosi al prigioniero.

    «Fermi!», ruggì ancora Van Axel. Brandì il pugnale e colpì uno degli aggressori, che cadde di schiena, con l’effetto di far ondeggiare nuovamente la barca.

    Nel frattempo, il prigioniero con il cappuccio sul capo si era alzato, davanti al felze. Non era chiaro se aveva compreso ciò che stava accadendo. Di certo, le mani legate lo rendevano incerto nei movimenti.

    «Non ti muovere!», ordinò il capitano, cercando di afferrarne il mantello. Ma non fece in tempo. I beccheggi fecero sporgere in avanti il prigioniero. Rimase in equilibrio precario per qualche attimo e poi precipitò in acqua.

    Gli aggressori furono presi dal panico. Uno di loro si tuffò, nel tentativo di soccorrerlo. Ma il cappuccio nero si agitava come un pesce spiaggiato. Senza potersi muovere liberamente, stava andando a fondo.

    «Presto», strillò una voce in un veneziano stentato. «Sta affogando. Sta affogando».

    Il capitano Van Axel, impotente, si sporse a sua volta. E fu in quel momento che percepì un pizzicore al collo. Si bloccò immediatamente, tastando con la mano tra la parrucca e la marsina. Portò a favore di luce una piccola piuma, oblunga e affusolata. La poté osservare solo per pochi istanti, perché poi prese a dissolversi nella nebbia. Il suo sguardo divenne all’improvviso incerto e le forze cominciarono ad abbandonarlo.

    Senza sapere esattamente come, con una capriola oltre il ponte della barca si ritrovò nell’acqua fredda e nera. A poche braccia dal prigioniero incappucciato, anche lui stava affogando…

    L’ombra di un’aquila bicipite che volteggiava sopra il ponte di Rialto fu l’ultima cosa che vide.

    Diciotto mesi dopo

    Roma

    Mappa della città

    1. Piazza Navona e palazzo Madama

    2. Palazzo del Sacro Monte di Pietà

    3. Porto di Ripetta

    4. Palazzo d’Acoz a piazza Colonna

    5. Vigna Lanciotti al rione Ripa

    6. San Pietro

    7. Palazzo pontificio al Quirinale

    8. Anfiteatro Flavio detto il Colosseo

    Capitolo 1

    Piazza Navona, rione Parione, martedì 18 gennaio 1763.

    Prima mattina.

    La notte aveva portato con sé l’ennesima giornata grigia e gelida.

    Piazza Navona, coperta di neve, vibrava alle folate di vento, con l’obelisco al centro della fontana che ricordava l’albero di una nave fantasma. Non c’era anima viva. Anche le bancarelle del mercato, che in ogni periodo dell’anno affollavano il cuore della città, erano sparite da tempo. La merce da vendere scarseggiava a causa della carestia, e comunque un freddo così inusuale aveva convinto i romani a rimanersene in casa.

    Mastro Dario Della Valle, carbonaio del rione Campo Marzo, camminava svelto davanti alla facciata barocca della chiesa di Sant’Agnese. Sollevava i piedi goffamente, per cercare di non bagnarsi i mocassini dalla fibbia quadrata e le calze di seta. Ma era impresa ardua, visto che la coltre bianca aveva raggiunto quasi una spanna e il tempo non accennava a migliorare. L’inverno normalmente non gli piaceva. Soprattutto quell’inverno, rigido come non si ricordava da anni e che ogni mattina restituiva morti assiderati agli angoli delle strade. Tuttavia, per uno che si guadagnava da vivere vendendo prodotti da ardere, era una vera e propria manna, non poteva certo negarlo…

    Avvolto nel mantello, con solo il mento che sbucava dal colletto, di tanto in tanto si guardava le spalle.

    «Sta’ attento a non farti seguire», erano le uniche istruzioni che aveva ricevuto.

    Per quale ragione doveva stare attento? Qualcuno sapeva?

    Non era possibile, perché era stato ai patti. Aveva fatto quanto gli era stato chiesto: era andato dal vecchio in gonnella e gli aveva consegnato la borsa.

    Certo, forse avrebbe potuto fuggire con il contenuto. Quella, però, era gente con cui non si poteva scherzare. Che ne sarebbe stato di Rita, sua moglie, se lui fosse sparito con la borsa? No, aveva fatto la scelta giusta. La cosa più sensata era stare ai patti, così come gli era stato suggerito da quell’energumeno biondo.

    «Sei solo?».

    Ecco. Appunto. La voce gutturale del gigante biondo, lo stesso che gli aveva impartito le istruzioni, lo colse alle spalle.

    Mastro Della Valle si girò, e la vista della fontana dei Fiumi ammantata fu ostruita da un gigante dai denti marci. Ciocche di capelli color paglia sfuggivano dal cappuccio e le spalle erano coperte da un pesante cappa su cui turbinavano i fiocchi di neve. Era più alto di lui di tutta la testa e teneva per mano un bambino di dieci o undici anni.

    «Ho fatto come mi avete chiesto», rispose con protervia il carbonaio.

    L’uomo annuì, voltandosi con sguardo indagatore in direzione di palazzo Madama, oltre la chiesa di San Giacomo. Era da lì, dalla sede della Madama – i birri del governatore – che si aspettava intoppi. Ma non c’era nessuno e le impronte isolate del carbonaio sulla neve testimoniavano che in effetti era venuto da solo.

    «Seguitemi», decretò alla fine.

    Dieci minuti più tardi, il carbonaio era seduto al tavolone massiccio della taverna Maccaroni, non lontana dal Pantheon. L’avevano raggiunta con passo marziale, avventurandosi in un dedalo di viuzze anguste, rese scivolose dal maltempo.

    L’interno era riscaldato da un imponente camino in cui crepitava un fuoco rosso di legna. Nella penombra, rotta da lampade a olio che ciondolavano dal soffitto, non si notavano molti avventori. Quei pochi popolani presenti, in camicia e calzoni al ginocchio, non avevano oltretutto uno sguardo molto vigile. Al bancone da mescita c’era una donna, di spalle, in abito elegante e con la testa china su un bicchiere. Attese qualche istante e poi si avvicinò a Della Valle.

    «Sapete chi sono?»

    «La Madame che devo ringraziare per tutto questo». L’uomo la fissò: pur essendo un’apparizione bizzarra, considerato il luogo alquanto equivoco in cui si trovavano, non poteva negare che era attraente. Aveva le iridi nere che risaltavano sulla pelle incipriata e l’ovale del viso stretto nei boccoli di una parrucca candida. Sebbene indossasse un corpetto di broccato con pizzi di ottima fattura, qualcosa nel modo di parlare – forse l’accento del Nord? – tradiva origini tutt’altro che nobili. Poteva avere non più di venticinque anni. «Vi chiamate Lucia. O sbaglio?».

    Lei si limitò a sorridere. «Avete avuto problemi?».

    Il carbonaio fece cenno di no con il capo. «Sono certo che sapete che tutto è andato secondo i piani… Altrimenti non sareste qui».

    «Dov’è il bottino?»

    «Al sicuro alla legnara. Che m’avete pijato pe’ fesso?»

    «Non è quanto vi avevo chiesto…». La ragazza cominciò a tamburellare nervosamente con le dita sul tavolo.

    «So cosa mi avevate chiesto», la interruppe il carbonaio. «Ma mi dovete capire: prima di consegnarvelo voglio essere sicuro».

    Lucia sbuffò. Nonostante la sua speranza che il carbonaio eseguisse gli ordini alla lettera, aveva previsto che potesse agire in quel modo. Anche lei, probabilmente, al suo posto avrebbe fatto lo stesso… «Sapete perché ho scelto voi?»

    «Perché sono veloce di testa?»

    «Diciamo che a differenza di molti vostri concittadini riuscite a vedere le opportunità…».

    Della Valle si assestò sulla panca, irrequieto. Sentiva una vocina insistente che non gli permetteva di godersi la meritata ricompensa. «Appunto. Già che siamo in argomento, c’è una cosa che devo chiedervi».

    La ragazza sollevò lo sguardo quel tanto da riuscire a inquadrare l’espressione corrucciata del carbonaio. «Un’altra ragione per la quale vi ho scelto è che non dovevate fare domande. Nell’affare tutti hanno da guadagnare, vi basti sapere questo».

    L’uomo si grattò la fronte. «Tutti tranne uno… mi pare. La sorte di Gonnella porpora è proprio ciò che mi preoccupa. E non stiamo parlando di uno qualunque, se m’intendete».

    «Questo non è affar vostro. Appena sarà il momento sarete lontano e nessuno vi collegherà… all’accaduto. Se l’aveste portato, per voi la faccenda sarebbe finita oggi».

    Della Valle emise un grugnito.

    Non accettare. Non ti fidare. Quanno er diavolo te lecca è sségno che vvo’ l’anima.

    Le parole di Rita ricominciarono a tamburellargli nel cervello. «Quando il diavolo ti lecca», ripeteva sempre, «significa che vuole la tua anima». In parole povere, era tutto troppo bello per essere vero.

    «Quello che mi preoccupa…». Il carbonaio abbassò la voce, guardando l’oste che severo strofinava il bancone. «Lo sapete… Non fatemelo dire… è il Sant’Uffizio».

    Lucia scacciò quell’ultima affermazione con un gesto della mano. Così facendo richiamò l’attenzione dell’energumeno che era rimasto di guardia accanto all’ingresso. «Rudolf, la borsa».

    L’omone si avvicinò a grandi passi al tavolo, su cui poggiò una vistosa cartella di pelle.

    «Ormai non potete più tirarvi indietro, lo sapete anche voi». Lucia prese a frugare nella borsa e ne estrasse una penna d’oca e un calamaio. «Al momento giusto, prenderete armi e bagagli e vi toglierete di torno. Basta gabelle e fascinaroli di Ripetta». La ragazza fece una pausa, che nelle sue intenzioni voleva essere rassicurante. «Il lago di Vico, oltretutto, è un bel posto dove stare. Nessuno verrà mai a cercarvi».

    «E la ricompensa?»

    «Siamo gente di parola, sempre che mi consegnate il bottino».

    Della Valle si convinse, sospirando e pregustando la sua nuova vita. L’idillio durò però solo un istante: con un clangore fragoroso, la porta della bettola cigolò sui cardini e batté violentemente contro lo stipite. Un refolo d’aria, seguito da fiocchi neve congelata, si insinuò nel locale. Esattamente come tre uomini con sguardo truce e pistole alla mano.

    Rudolf, che era ancora accanto a Lucia, fu preso di sorpresa. Aveva lasciato il piccolo Domenico fuori, di guardia, ma evidentemente non aveva fatto in tempo a dare l’allarme. Con un passo veloce scavalcò una panca e andò incontro agli intrusi.

    Il carbonaio vide materializzarsi i suoi incubi e prese a tremare come una foglia.

    «Si alzi. Deve venire con…», udì da uno dei nuovi venuti. Ma il tizio non riuscì a finire la frase, perché Rudolf afferrò la canna della sua pistola con la mano nuda.

    «Mastro Della Valle, state calmo», provò a tranquillizzarlo Lucia. «Calmatevi, non sanno niente…».

    E a quel punto, sulla soglia, il semplice alterco divenne una vera e propria colluttazione. Volarono ceffoni e spintoni e uno degli uomini rotolò su un tavolo. La pistola gli sfuggì, ma appena si rialzò estrasse un coltello e corse verso Lucia.

    Nello stesso istante, il suo compare puntò l’arma e, sebbene Rudolf gli avesse strattonato il polso, partì un colpo. Un tuono assordante tagliò in due l’aria.

    Lucia si mise dinanzi all’altro birro con il coltello, ma questo, più alto e nettamente più forte, con un colpo ben assestato la spinse via. Un dolore lancinante allo stomaco la fece trasalire. Portò le mani insanguinate al volto: la lama le aveva trafitto il ventre.

    Incredula, si accasciò a terra, poco lontano dal carbonaio. Lui, immobile, stava seduto con la schiena ritta al muro e la bocca spalanca come per controbattere un’ultima volta agli improperi di Rita. Ma gli era andata decisamente peggio: l’unica palla di pistola sparata l’aveva trapassato proprio sotto un occhio.

    Capitolo 2

    Palazzo del Sacro Monte di Pietà, rione Regola, mercoledì 9 febbraio.

    Prima mattina.

    L’ultima cassa fu scaricata dal pianale di legno del calesse con un tonfo sordo.

    I facchini si fermarono a rifiatare. Sulla piazza semideserta, antistante all’austera facciata del banco, nevicava appena: fiocchi minuscoli e ghiacciati, simili a granelli di sale.

    «Piacere di fare la vostra conoscenza, padre Ruffo», esordì il mercante Ciro Ciriello, con un’aristocratica

    R

    moscia. La sua cadenza tradiva origini napoletane e gli abiti erano così pregiati da brillare come un’armatura.

    «La bolla di carico?». L’assistente del cardinal protettore del Sacro Monte di Pietà lo guardò appena, quasi con fastidio. Era ritto di fronte al portone aperto, stretto nel suo abito talare e coperto da un mantello che gli arrivava fino ai piedi. Teneva in mano una tavoletta di legno, a cui erano assicurati alcuni fogli di carta pergamena.

    «Eccovi servito, una bolla per forzieri pieni di sassi». Affabile, messer Ciriello porse il documento al prete e si lasciò andare a un’altra battuta di spirito: «E anche nu poco di piombo».

    Padre Ruffo afferrò il documento bagnato e lesse con calma.

    Messer Ciro Ciriello. Totale 168 pezzi.

    A quanto pareva, non mancava nulla. «Credo sia tutto in ordine», sentenziò. Poi si rivolse ai facchini: «Portate tutto dentro».

    I quattro uomini, che battevano i piedi per terra per difendersi dal freddo, si mossero sotto gli occhi vigili delle tre guardie armate che avevano scortato Ciriello. Sollevarono la prima cassa e forse a causa della neve, forse per il peso, uno di loro scivolò. Barcollò all’indietro e fece cadere il baule, che si aprì, riversando il suo contenuto sul selciato.

    Per un istante calò il silenzio. L’acqua della fontana, che fuoriusciva dalla bocca del mascherone, sembrò ghiacciarsi di colpo.

    I facchini rimasero sgomenti: tra le assi di legno sbucavano lingotti d’oro lucente, con il simbolo del Regno di Napoli inciso chiaramente sulla sommità.

    «Allontanatevi», ingiunse messer Ciriello. Batté il bastone da passeggio sul selciato e il suo cavallo, opportunamente addestrato, si avvicinò a lui. Anche le guardie si mossero verso i lingotti. «Allontanatevi. Via di qui. Non fatevi più vedere».

    Il prete non si scompose e prestò invece attenzione ai facchini. Se solo avesse saputo leggere nelle loro menti, avrebbe avuto la conferma di cosa stavano pensando: tutto quell’oro di quei tempi? La povera gente si cibava di cicorie cotte o di carrube da cavallo e i preti si spartivano l’oro?

    «Guardiamo il lato positivo… non dovrete aprire questo scrigno perché è già aperto». Per quanto volesse essere scherzoso, il tono di Ciriello adesso si era fatto allarmato. Il suo viso era segnato da una palpitante angoscia, la stessa che ricordava avere il birro Ennio Massimo Viviani all’inizio di quella storia. Era nello stesso identico luogo e sembrava trascorso un secolo. Eppure, dalla morte del carbonaio erano passate solo tre settimane…

    La mattina del 18 gennaio, poco dopo lo sparo che aveva strappato la vita a mastro Della Valle, i tre cavalieri in fuga si immisero al galoppo in piazza del Monte di Pietà. La percorsero tutta e si fermarono davanti al severo ingresso del Banco, i destrieri irrequieti che nitrivano nel freddo.

    Padre Ruffo li attendeva ritto di fronte al portone aperto, nel medesimo luogo dove si sarebbe trovato tre settimane più tardi. «Cosa è successo?», domandò, leggendo una forte angoscia nel volto di Ennio Massimo Viviani, il suo birro più fidato.

    «È capitata ’na rogna», bofonchiò quest’ultimo, aggrappato alla sella. Aveva un tono strascicato e le parole gli sfuggivano tra i denti come una sonata di fischi. Robusto e di mezz’età, i capelli rasati scemavano nella irsuta barba nera.

    «La taverna?», incalzò il prete.

    «Sì. C’è scappato er morto…». Di solito parlava poco ma quando lo faceva le sue parole avevano un tono lapidario. Come quella mattina: «Almeno mo’ non ce creerà più problemi».

    Pochi minuti dopo, padre Ruffo saliva la scalinata d’alabastro del vicino palazzo Barberini ai Giubbonari. I suoi uomini gli avevano spiegato l’accaduto per filo e per segno e toccava a lui cospargersi il capo di cenere.

    Giunto davanti a una porta smaltata di bianco con l’andatura di un condannato, bussò piano.

    «Avanti», udì distintamente.

    Ruffo abbassò la maniglia e mosse passi incerti all’interno della regale camera da letto. Il baldacchino imponente occupava la parte sinistra della stanza, un banchetto di stucchi, tendaggi, ori, mobilio laccato e quadri alle pareti. Dalla parte opposta era posizionato orizzontalmente uno scrittoio di radica ricoperto di carte.

    «Tutto bene con la contabilità?». Di spalle, affacciato alla grande finestra, il cardinale Donato Aldobrandini di Carpi si schiarì la voce. Indossava una vestaglia di broccato rossa e delle babbucce ricamate.

    «L’oro si accumula, come da vostro ordine…», si limitò a rispondere Ruffo.

    «Avete preparato le cartolarizzazioni?»

    «Sono quasi pronte».

    «Molto bene».

    Il protettore del Sacro Monte di Pietà, per i popolani più semplicemente l’uomo più potente della Curia, si voltò. Aveva la mandibola che sprofondava nel doppio mento e la pelle del viso lucida e senza rughe. Suscitava simpatia o paura, a seconda del momento. Mentre si avvicinava al letto, dove una figura voltata di spalle stava immobile sotto le lenzuola candide, tornò a rivolgersi a padre Ruffo. «E della questione di Girolamo Sciarra, avete saputo qualcosa?».

    Il prete si dondolò sulle gambe, guardando incerto il pavimento.

    «Era vera la storia del carbonaio?», insistette il cardinale. Si sedette sul bordo del materasso e prese ad accarezzare i lunghi capelli neri che sbucavano dalle lenzuola.

    «Temo ci sia stato un problema…», balbettò Ruffo, con un filo di voce. «Il carbonaio è morto».

    Donato Aldobrandini di Carpi inarcò un sopracciglio, più incuriosito che arrabbiato. Rimase in silenzio per alcuni istanti e poi socchiuse le labbra. «Se il tono non m’inganna, la vostra preoccupazione significa che era tutto vero».

    «Parrebbe proprio di sì, purtroppo. Le dicerie erano vere».

    Il protettore sembrava combattuto, come se volesse dire qualcos’altro. Il viso immobile sembrava quello di una statua. «Avevate un compito semplice: tutti smaniano per l’oro. Perché credete che lo danno a noi? Per la nostra bella faccia? Dovevate solo convincerlo».

    «C’è stata una rissa, pare…». Ruffo indugiò. Sapeva che fornire troppi dettagli poteva ritorcersi contro di lui. Con la vicenda del carbonaio era stato superficiale: sarebbe dovuto andare di persona a porre le giuste domande. Cos’altro poteva pretendere dagli uomini di Viviani, se non che ci scappasse il morto?

    «Non è necessario che vi dica io che un carbonaio non guadagna così tanto… neppure questo inverno». Aldobrandini si accigliò, come se stesse cercando di ricordare qualcosa. «Sapete almeno da chi aveva avuto l’oro?»

    «Purtroppo non lo so ancora. Ma conto di scoprirlo».

    Il cardinal protettore inspirò a fondo, intendendo così mostrare tutta la sua esasperazione. «Va bene, Prospero. Cioè, va molto male…». Scosse il capo come un pendolo. «Cercate di portarmi più informazioni. E a questo punto mi toccherà parlare di persona con quell’idiota di Sciarra, se non è già troppo tardi».

    Voltò le spalle e tornò accanto al letto. Significava che la conversazione era finita.

    Appena padre Ruffo fu uscito silenziosamente, Aldobrandini scostò le lenzuola e ne scoprì una bambola di ceramica delle dimensioni di un bambino. I capelli erano veri, neri e lucidi, e mentre la prendeva in braccio con la cura che avrebbe riservato a un neonato, scivolarono lisci lungo la camicia da notte di seta.

    Capitolo 3

    Vestigia del ponte Trionfale, rione Trastevere, martedì 18 gennaio 1763.

    Diverse ore dopo l’omicidio di Della Valle.

    Tarda mattinata.

    Il piccolo Domenico corse a testa bassa sulla neve.

    Intorno a lui i vicoli di Trastevere si erano animati di gente, uscita di casa appena aveva veduto i primi raggi di sole affacciarsi sul Cupolone. Lungo le strade tortuose e inzaccherate di fanghiglia ghiacciata erano allineati edifici bassi e casette popolari con la facciata dipinta. C’erano anche diversi negozi con insegne arrugginite, bettole, laboratori di artigiani dalle porte sbarrate e botteghe di ciarpame svenduto a poco prezzo. Tutto, dai banchi degli ortolani semivuoti alle popolane infreddolite negli scialli, odorava di povertà e stenti.

    Sbucato sulla strada della Longara, si ritrovò il Tevere alla sua destra. Gli edifici del centro svettavano oltre gli argini e le poche barche che scendevano verso l’isola Tiberina arrancavano nel ghiaccio. Di fronte a lui si ergeva l’imponente mole dell’ospedale del Santo Spirito.

    Che ironia, il luogo dove era cresciuto adesso rappresentava una svolta per la sua vita.

    «Va’… non ti fermare per niente al mondo», gli aveva ordinato la padrona di casa poco prima, dopo avergli consegnato la lettera. «È questione di vita o di morte».

    E così Domenico aveva fatto: aveva attraversato i rioni di Eustachio e Pigna, con le loro chiese, i loro palazzi e le loro casupole e poi, attraverso il ponte Sisto, era giunto a Trastevere.

    E ora era lì, dove i projetti come lui, i trovatelli, venivano abbandonati nella ruota degli esposti dell’ospedale. Come gli altri piccoli che avevano avuto la sua stessa sorte, era stato registrato come filius m. ignotae, dove la m. stava per matris, a significare appunto figlio di madre ignota. Spesso il punto veniva omesso e da lì era nato l’appellativo filius mignotae, da cui era derivato il termine mignotta.

    Domenico, undici anni e genitori sconosciuti, era quindi un figlio di mignotta, che a differenza di altri aveva però avuto un colpo di fortuna. Trovato pelle e ossa sul ciglio di una strada, la dama di compagnia di una nobildonna gli aveva offerto caciocavallo e pane. E da quella volta era stato il servitore più fedele di Lucia e di tutta la sua strana combriccola.

    «Eccoti finalmente». Rudolf, che parlava poco e quando lo faceva si esprimeva a monosillabi, gli andò incontro, affondando gli stivali nella poltiglia.

    Si trovavano sul ciglio di una spiaggetta, tra la porta di Santo Spirito e un attracco fluviale di fortuna. A tratti, nella neve, si affacciavano delle macchie d’erba d’un marrone sbiadito. Una cima da ormeggio era stata tesa tra le due rive del Tevere e alcuni barcaroli la sfruttavano per trasbordare passeggeri da una sponda all’altra.

    «Ho portato questa per te», sorrise Domenico, ansimante.

    Rudolf scoccò un’occhiata al sigillo di ceralacca e se la fece dare. Era stato lui, due ore prima, a rimandare a casa il bambino, per raccontare l’accaduto e riferirgli poi istruzioni. Lucia, ferita al ventre, era stata trasportata d’urgenza all’ospedale, e non potendo farsi vedere dai birri il gigante aveva deciso di attendere poco lontano. Anche se non ci sperava troppo, dopo averla vista svenuta e sanguinante nella taverna, era sempre possibile che uscisse con le sue gambe…

    «Dammi qua», esclamò Rudolf, aprendo l’involto. «Hai raccontato tutto come ti ho detto?».

    Domenico annuì.

    «Con chi hai parlato? Con la padrona?».

    Il bambino annuì di nuovo.

    «Poi hai aspettato?»

    «Sì».

    «Fino a che non ti ha dato questa?».

    Domenico continuò a muovere la testa su e giù. Anche lui aveva visto Lucia venire caricata su una portantina, ferita e priva di senno, ed era preoccupato. Gli era però stato insegnato a non fare domande e a parlare solo quando veniva interrogato. Quindi rimase muto, sperando di veder comparire il sorriso bianco della ragazza da uno dei finestroni dell’ospedale.

    Rudolf alzò lo sguardo dallo scritto e si concentrò sulle rovine del ponte Trionfale, poco più che sassi che si opponevano alla corrente del Tevere. Sapeva che era chiamato così perché in età imperiale era attraversato dagli eserciti romani di ritorno dalle campagne vittoriose.

    Campagne vittoriose.

    Se non avesse fatto ciò che chiedeva la lettera non ne avrebbe più viste per molto tempo, di sortite con quell’esito.

    Studiò nuovamente la lettera, che forniva un’indicazione per la strada delle Grazie e vicolo de’ Fenili. Non c’era mai stato ma sapeva che erano dalle parti della chiesa di San Teodoro, sul Palatino. Ciò che lo lasciò più perplesso fu però la parte finale del documento, che si concludeva con un lapidario

    UCCIDILA

    .

    Non era la prima volta che riceveva ordini simili, ma in quel frangente gli sembrò un’ingiustizia eccessiva. In ogni caso, non lasciava spazio per molte interpretazioni…

    Capitolo 4

    Ai piedi del Palatino, rione Campitelli. Più tardi.

    Poco prima di mezzodì.

    Rudolf smontò da cavallo all’imbocco della strada delle Grazie. Era un vicolo angusto, fiancheggiato da palazzi di due o tre piani che parevano sorreggersi a vicenda. Mentre il Foro, alle sue spalle, era ingombro di popolane, mendicanti e un paio di cantastorie, lì non c’era nessuno.

    Il gigante biondo si guardò attorno, cercando di orientarsi. Anche se la lettera con la quale

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