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Un paradigma per essere al mondo in armonia con gli altri
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Un paradigma per essere al mondo in armonia con gli altri
E-book221 pagine2 ore

Un paradigma per essere al mondo in armonia con gli altri

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Info su questo ebook

Sei giovani frequentatori del pub Tengusidi, località del Sud Sardegna, sentendosi ostaggio del sistema consumistico esclusivo trovano la forza di ribellarsi mettendo in pratica un originale progetto. Gli sviluppi di esso avvengono a Sinnibiri toponimo della Costa Verde sulla costa occidentale dell'isola non antropizzata come in altre parti. tra i sei giovani, di cui tre donne, spicca la sagacia di Imo il quale oltre a persuadere gli amici coinvolge nonni e genitori in un interessate rapporto intergenerazionale, sul nuovo paradigma con cui si ostinano a costruirsi il futuro. Sebbene le insidie degli invidiosi e gli ostacoli burocratici siano seri deterrenti, i personaggi vivono l'ardua esperienza sentendosi gioiosamente liberi, creativi e protagonisti autonomi del nuovo modo di essere imprenditori in armonia con gli altri.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mag 2019
ISBN9788831618243
Un paradigma per essere al mondo in armonia con gli altri

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    Anteprima del libro

    Un paradigma per essere al mondo in armonia con gli altri - Sergio Pibiri

    Carlo.

    Croigas

    Nella piana di Croigas, centro agricolo del Medio Campidano, allo svanire dell’agognata prosperosa industrializzazione, tentata con i soldi del Piano di Rinascita, s’aggiungeva una preoccupante siccità. Gli agrumicoltori lamentavano il razionamento dell’acqua imposto dal Consorzio di bonifica che invece tollerava lo spreco con cui ne facevano uso gli allevatori di bovini gettandola a cannonate sugli erbai. L’agrumicoltore Salvatore Argiolas, con l’acqua così razionata, si dannava l’anima per evitare che le foglie dei mandarini di Bangiu¹ si accartocciassero. Spese quindici milioni di lire per trovare il prezioso liquido trivellando a ottanta metri di profondità. E l’allevatore di capre Francesco Nieddu abbeverava le sue bestie con l’acqua acquistata da un autotrasportatore: il livello del pozzo nel suo  caprile di Sinnibiri², si era abbassato a tal punto che l’acqua bastava appena per il fabbisogno della fattoria. Francesco Nieddu e Salvatore Argiolas erano i padri della coppia di fidanzati Donato Nieddu e Bruna Argiolas, i quali non volendo lavorare la campagna in quelle condizioni, aspiravano a un’occupazione che non li obbligasse a vivere con il patema d’animo dei genitori. Erano fidanzati da alcuni anni, ogni tanto sfogliavano il calendario per simulare scherzosamente la data del loro matrimonio, ma non avendo l’idea che in quel tempo stimolava i loro coetanei a sposarsi, lasciavano trascorrere il tempo in attesa della buona annata agraria. Da fidanzati stavano bene, andavano d’accordo, condividevano letture, cinema, musica, perciò posticipare il lieto evento serviva a preparare le cose con calma.

    «Giugno sarebbe il mese ideale per sposarci in chiesa» disse Bruna, mentre mangiavano un gelato sotto il platano di piazza Zampillo.

    «Per me il periodo non fa alcuna differenza, l’importante è volerci bene e condividere ciò che dobbiamo realizzare.»

    Tredici mesi passarono in fretta ma al giorno delle nozze ci arrivarono con tutto a posto: casa in affitto nella zona di espansione urbanistica, mobilio moderno con gli elettrodomestici incorporati, la Cinquecento, e un po’ di rate da pagare senza affanni.

    Quel mattino di metà giugno 1987, il termometro segnava trentadue gradi all’ombra, per la gioia delle ragazze ospiti che sfoggiavano vestiti scollati da far strabuzzare gli occhi al vecchio parroco don Vittorio che le giudicò irriverenti verso il Tempio del Signore.

    Formavano una bella coppia Bruna e Donato: lui venticinque anni operaio alla Stilgomme di Macchiareddu³, lei ventidue col diploma in Ragioneria che, nell’attesa di un lavoro stabile, si accontentava di quelli saltuari. Tuttavia fiduciosa che la domanda di lavoro inviata al market Nonna Isa avrebbe avuto riscontro positivo. Il reddito consentiva di tirare avanti senza scantonare nelle spese settimanali, ma il loro amore era così radicato che non richiedeva sfarzi o vanaglorie da ostentare.

    Da quell’amore sincero, sereno e fiducioso, dopo due anni e mezzo, nacque Cosimo ma che chiamavano Imo. Avevano atteso il nascituro con l’enfasi di chi ha la certezza che una creatura renda ancora più felice l’unione di coppia. Al piccolo, nel corso della prima infanzia non facevano mancare nulla e lui cresceva sano e bello. Al tempo dell’asilo, nonno Francesco Nieddu gli portava la ricotta fresca delle sue capre selvatiche di Sinnibiri, che solo con l’aiuto dei cani Fonnesi riusciva a riportarle nel caprile per la mungitura.

    La felicità in casa Nieddu fu però offuscata dalla lettera raccomandata inviata a Donato da Stilgomme, in cui gli comunicò la cassa integrazione per problemi di mercato.

    «Vai a capirlo il mercato» ragionò sconsolato Donato, seduto di fronte alla moglie a far colazione con il caffellatte e is pistocus de capa.⁴ «Ormai, con questa logica di mercato sempre più impietosa, le piccole aziende non riusciranno a stare in vita. Senz’altro reggerà la Saras di Sarroch che in quella logica ci è nata: raffina petrolio mica macina grano della Trexenta. Quell’azienda sì che fa salire il PIL e gratifica i politicanti che credono nel mercato globale, ma i danni ambientali a persone e territorio se ne guardano bene dal quantificarli!»

    «Una logica che il lavoratore subisce senza potersi difendere» convenne Bruna e aggiunse: «La Regione, con il Piano di Rinascita, avrebbe dovuto innescare una diversa strategia di sviluppo, anziché assecondare la petrolchimica.»

    «Infatti, è paradossale che la crisi economica nell’isola si acuisca dopo aver speso tutti quei miliardi!»

    Lo stimolo ad andare via Donato lo avvertiva più forte ogni giorno; tuttavia a Croigas ci rimase ancora due anni, mitigando le amarezze da cassintegrato con alcuni lavori nel caprile del padre e gli ammiccanti sorrisini di Imo.

    La motivazione con cui Stilgomme lo cacciò in cassa integrazione pesò come un macigno sull’umore di Donato. Non aveva alcuna responsabilità sulle macchine obsolete che ricostruivano il battistrada agli pneumatici, non più competitivi con la concorrenza cinese e thailandese che invadeva l’Europa a prezzi inferiori del quaranta per cento.

    Troppa l’umiliazione che aveva accumulato e tanta l’invidia che avvertiva negli sguardi di chi il lavoro non riusciva a trovarlo. Da taluni era stato considerato addirittura fortunato d’incassare l’assegno di Stato stando comodamente in casa a grattarsi l’ombelico. Capiva che l’ignoranza della gente induceva a sciorinare coglionate, ma la capienza della tolleranza si colmava in fretta, specie quando si sentiva offeso. Considerandosi cittadino onesto, non provava alcun senso di colpa per la cassa integrazione, non era stata scelta sua ma di politici e sindacati, i quali non facevano altro che firmare, al ministero per lo Sviluppo, protocolli di buoni propositi infarciti di cassa integrazione, mobilità lunga e riduzione solidale dell’orario di lavoro. Erano accordi a perdere posti di lavoro nelle fabbriche costruite con i soldi pubblici.

    In Donato maturava il convincimento che le fabbriche della Sardegna non avrebbero retto alle ventate della globalizzazione che già avanzava impetuosa come orda barbarica, spazzando via l’assetto produttivo tradizionale. Processo rivoluzionario che, al contrario di quella guevarista, cambiava le sembianze delle economie nazionali violentando i diritti dei lavoratori arricchendo le holding libere da vincoli di legge. Non aveva la sfera di cristallo per comprendere bene cosa stesse accadendo esattamente e cosa succedesse con tutti quei lavoratori in cassa integrazione, ma come il segugio che fiuta la preda rintanata, percepì che il peggio stava arrivando. Quell’indole lo indusse a riflettere e a cercarsi una via d’uscita.

    Miniere chiuse, fabbriche già vecchie prima del tempo, agricoltura perennemente in crisi ragionava tra sé. Non promettono nulla di buono per il futuro.

    Per confermare gli impegni che condivise con Bruna per la nuova casa in costruzione, la scuola per Imo, la sostituzione dell’automobile, i soldi della cassa integrazione non bastavano.

    Finché avrò fiato nei polmoni, non smetterò di cercare il lavoro che mi consenta di portarli a termine si disse determinato.

    La coscienza proletaria, maturata con le lotte operaie nelle imprese d’appalto di Portovesme, lo induceva a dubitare sulla reale efficacia delle leggi sui diritti acquisiti in quei tempi. Anche la democrazia sfumava di significato a fronte delle enormi disuguaglianze che stavano emergendo.

    A ragionarci con la dovuta attenzione si disse prima di prendere una decisione definitiva, la gente non ha torto a prendersela con i sindacati, avvezzi come sono a tutelare gli iscritti della Pubblica Amministrazione che hanno il posto sicuro, e fregarsene degli altri che non fanno la tessera per timore di essere licenziati.

    E poi non gli piaceva per niente passare il giorno leggendo il giornale o a guardare la TV mentre la moglie sfaccendava la casa e, per poche migliaia di lire, lavava e stirava la biancheria di una coppia anziana che abitava nel vicinato.

    Fu così che, tra una riflessione angosciante e un ragionato confronto con la moglie, una sera mentre finivano di cenare con i resti del pranzo, Donato tornò sull’argomento: «Meglio far la valigia, piuttosto che stare qui a lasciarmi corrodere il fegato dalla bile.»

    Bruna non rispose, prese la sua mano sulle sue, lo guardò negli occhi e posò la fronte sulla sua spalla. Il proposito del marito glielo leggeva nell’umore tutti i giorni, compreso il dolore che già provava per il distacco dalla famiglia e dalla sua terra. Condivideva quel suo dolore silente ma denso di significato, che anche in lei sarebbe durato a lungo, ma non lo dissuase. Era giusto che andasse e ritrovasse la dignità che aveva perduto con la cassa integrazione. Quella sera pregna di malinconia Donato sedette accanto a Imo per aiutarlo a colorare il sole su un foglio di disegno e gli sussurrò: «Quando sarai più grande, capirai quanto fosse giusto che papà non restasse con te a disegnare il cane di Topolino» e gli carezzò il viso paffutello.

    Berlino

    Inevitabile che accadesse pensò Donato trascinando il trolley sui marmi lucidi dell’aeroporto di Elmas. Abbiamo eletto una classe politica ignorante, capace solo ad autocelebrarsi, elargirsi privilegi e creare enti funzionali al clientelismo.

    E mentre si apprestava alla sala d’imbarco, il suo sguardo seguiva la sfilza di gigantografie dei paesaggi sardi più rinomati, targati Regione Autonoma della Sardegna.

    Figuriamoci quanto si svilupperà il turismo con il sistema dei trasporti inadeguato e troppo caro continuò a pensare apprestandosi al controllo del metal detector.

    Sorvolando l’incantevole Golfo degli Angeli, il migrante di Croigas, pensando a Bruna e a Imo con una commozione da serrargli la gola, si disse: Spero di riabbracciarvi presto, in terra mia.

    La fabbrica di pneumatici tedesca nell’hinterland di Berlino, indicatagli da un amico che ci lavorava da alcuni anni, rispose positivamente alla sua offerta di lavoratore specializzato.

    Le ragioni che indussero Donato a migrare in Germania erano state pienamente comprese da Bruna, nonostante la tenera età di Imo rappresentasse un valido deterrente. Nella mente le tornava spesso la frase pronunciata dal marito prima della partenza, mentre gli stirava i pantaloni: Mi sono rotto le palle di tirare a campare con l’assegno della cassa integrazione!

    Abituato al cibo saporito e alla luminosità di Criogas, faticò ad abituarsi al mangiare tedesco e all’ambiente cupo di Berlino. Per imparare la lingua tedesca frequentò un corso che la stessa azienda organizzò per gli immigrati. La retribuzione era discreta, al conto corrente bancario del suo paese bonificava buona parte di essa. La sera, prima che la stanchezza lo avvolgesse nel sonno, pensava a Bruna, a Imo, al padre nel caprile di Sinnibiri, alle cascate di Croigas. In paese sarebbe tornato per i pochi giorni di ferie maturate, pensava di trascorrerle con moglie e figlio, magari pendolando con la Cinquecento sulle spiagge della vicina Costa Verde.

    Ormai Imo frequentava le scuole elementari, cresceva sano, educato prevalentemente dai nonni materni Salvatore Argiolas e Antonia Bullita con cui trascorreva buona parte del tempo extrascolastico. Bruna aveva trovato lavoro da cassiera in uno dei supermercati "Nonna Isa" e aveva poco tempo da dedicargli: a casa rientrava stanca e non poteva goderselo come desiderava. Sentiva il bisogno di fare un po’ di moto, stando molto in piedi al lavoro le procurava dolori alle gambe. Per questo il sabato pomeriggio se ne andava in palestra a sudare pedalando sulla cyclette o correndo sul tappeto mobile. Aveva ventinove anni ma ne dimostrava alcuni di meno: l’attività sportiva la rendeva anche meno melanconica. A Donato telefonava la sera tardi quando lui non era impegnato nel turno di lavoro. La lontananza non aveva affievolito il loro amore, anzi ne parlavano con tenerezza anche al telefono, come quando erano fidanzati.

    Il padre di Donato, Francesco Nieddu, ancorché avesse compreso le ragioni che indussero il figlio a migrare in Berlino, provava ancora dispiacere. Non la madre Emma Ferrau che il giorno della partenza, mentre spargeva il becchime alle galline nell’aia di Sinnibiri, affermò decisa: «At essiri fatu su propriu, poita a campai di assistentzia est umiliati meda po unu chi scì traballai.⁵»

    Francesco ed Emma tenevano il caprile nei duecento ettari di Sinnibiri, distante circa mille metri dal mare turchese di Piscinas. Ricordavano con nostalgia il tempo che Donato vi trascorre nel caprile fino al conseguimento della terza media. Poi accadde che, finito il servizio militare, a custodire capre sui monti di Arbus non ci volle tornare. Scelse di lavorare in un’impresa di appalti a Portovesme e, quattro anni dopo, alla Stilgomme di Macchiareddu.

    Donato si dispiacque assai del rammarico del padre, ma da efficace lavoratore guardava al futuro industriale con fiducia, ideando progetti con la bella morettina Bruna Argiolas. Tant’è che dopo la nascita di Imo diede inizio ai lavori per la costruzione della casa di proprietà, con mutuo bancario. Da realista irrideva alcuni scaramantici che lo ritenevano fortunato giacché immune dalla crisi che incominciava a farsi sentire nelle industrie di Portovesme. Vedendo altri lavoratori scioperare per conservare il posto di lavoro mentre lui continuava a percepire puntualmente il salario, finì per pensare fosse baciato davvero dalla buona sorte. Invece, s’avverava il presagio che ebbe qualche anno prima sugli effetti della globalizzazione: la crisi penetrò anche alla Stilgomme, coinvolgendolo similmente ai colleghi delle grandi aziende di Ottana, Porto Torres, Villacidro.

    Lo scossone subito dall’imposizione a stare in cassa integrazione dal primo agosto 1993 fu perciò terribile.

    Il giorno che, al posto delle ferie, iniziò l’indefinito periodo d’assistenza di Stato: da cassa integrato fu accolto dalla madre con un forte abbraccio, con il cane Mandroni⁶ che gli scodinzolava sui piedi.

    Era accaduto che l’azienda lo classificasse "esubero" assieme ad altri ventidue colleghi, non più necessario nelle macchine che ricostruivano il battistrada agli pneumatici usurati. Cinesi e tailandesi producevano meglio a costi inferiori del quaranta per cento.

    Quel giorno, sotto il loggiato, maledisse insieme alla madre il governo cinese e il suo modello economico, imposto ai lavoratori senza tutela sindacale.

    «Mamma, mi hanno costretto a ingoiare quest’amaro calice che mi provoca fastidiosi rigurgiti di bile» aveva detto serrando i pugni.

    Mamma Emma aveva capito che suo figlio insieme ai compagni di lavoro espulsi come lui, con una giunta regionale servile col governo centrale e con i razziatori di ricchezza, poteva solo rassegnarsi e riflettere in che modo ricostruire una prospettiva.

    «Lo sconforto degli esclusi è pesante, anche perché si somma all’arroganza dei politici incompetenti» aggiunse Donato mentre aiutava i genitori a riempire d’acqua i truogoli delle scrofe.

    Buona parte del tempo così liberato Donato lo passava cercando funghi, asparagi, lumache, cicoria, tronchetti secchi per accendere il fuoco. Al caprile del padre ci andava per qualche lavoretto ricompensato generosamente con ricotte, formaggi e capretti, ma l’umiliazione di provvedere ai bisogni del figlio con il magro salario della moglie, peraltro assillato dalle scadenze per il fitto di casa, la rata dell’auto e le bollette, era sempre più difficile da metabolizzare. La difficile situazione lo aveva costretto a interrompere i lavori per la nuova casa, ma le rate del mutuo bancario andavano comunque a scadenza e bisognava pagarle!

    Lo sconforto che accumulava percependo i giudizi della gente sul suo stato di cassintegrato era pesante e, paradossalmente invidiato da chi il lavoro non riusciva a trovarlo, pesino fortunato d’incassarsi l’assegno di Stato, stando comodamente in casa a oziare.

    Si rendeva conto che l’ignoranza della gente

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