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Vite in cammino
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E-book210 pagine2 ore

Vite in cammino

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Info su questo ebook

È il 2026. L’Italia, ormai non più una potenza industriale, è attraversata da povertà crescente e drammatici conflitti sociali. La tecnologia sta eliminando milioni di posti di lavoro e il passaggio di nuovi gasdotti rende invivibili interi territori della Penisola. In questo scenario, una storia di coraggio e resilienza si snoda tra Matera, Verona e l’Africa. Il falegname ed ex militante comunista Palmiro e sua moglie Lisa, cercano di tenere a bada il figlio Gildo, simpatizzante per l’estrema destra e incapace di tenersi qualsiasi impiego. La loro vita cambierà profondamente quando conosceranno un giovane emigrato dal Nord Africa, Prince, che porta sulle spalle il peso di un tragico passato.
LinguaItaliano
EditoreBookRoad
Data di uscita24 giu 2021
ISBN9788833226132
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    Anteprima del libro

    Vite in cammino - Rocco Faraone

    I

    Il flessibile squillò più volte prima che Palmiro decidesse di rispondere, per vedere chi fosse a chiamarlo alle sette di mattina.

    Quando sentì la voce del figlio, fece scena muta. Accennò un mezzo sorriso a denti stretti, scosse la testa più volte, ripose in tasca l’apparecchio e continuò a passare l’impregnante sul vecchio mobile. Perché lo stava chiamando? Cosa voleva? Cos’era successo?

    Dopo qualche minuto, il flessibile suonò di nuovo. Era Lisa che, furiosa, voleva sapere perché non avesse risposto al figlio.

    «Si ricorda solo adesso, dopo due anni, che ha un padre?» chiese Palmiro, ancora più furioso.

    «Palmì, non essere sempre testardo, rispondi. È urgente, se vuole parlare con te…» replicò Lisa. Poi chiuse subito la conversazione, senza lasciargli il tempo di risponderle.

    Palmiro si sedette sul solito sgabello e, con il flessibile in mano, pensò agli ultimi litigi e ai due anni passati, chiedendosi se avesse sbagliato qualcosa.

    Si scrollò di dosso quei pensieri e quel maledetto orgoglio, e aspettò che il figlio ritelefonasse. Quando sentì squillare di nuovo, Palmiro rispose, svogliato.

    Poche parole e sbatté il flessibile a terra tra la segatura. Poi, furioso come un cinghiale ferito, iniziò a sbraitare e a camminare avanti e indietro per la falegnameria, senza riuscire a darsi pace.

    Prince, imbarazzato oltre che preoccupato, lo guardava attonito.

    «Chi sucede… Palmiro?» gli domandò più volte in un italiano non proprio perfetto.

    L’uomo preferì non rispondere.

    I riflettori si erano spenti da tempo sulla Città dei sassi, da quell’ormai lontano 2019.

    Palmiro se lo ricordava bene, l’anno in cui Matera era rimasta accesa, illuminata in tutta la sua bellezza, arcaica e moderna allo stesso tempo. Era stata protagonista di set cinematografici, mostre, eventi culturali e sociali, nella prospettiva di opportunità economiche provenienti dal turismo, favorito dalla grande attenzione mediatica. Poi, nel corso degli anni successivi, tutto aveva iniziato a raffreddarsi, a oscurarsi; ogni sforzo profuso dalla città Unesco per ottenere il titolo di Capitale europea della cultura aveva finito per lasciare il posto a un grigio anonimato. A distanza di un decennio, le cose erano molto cambiate, non solo a Matera e al Sud, ma in tutta la penisola e oltre, e purtroppo non in meglio. Cosa non era accaduto in quel decennio…

    Prince ricordava bene il suo primo arrivo a Matera, dopo lo sbarco a Lampedusa, e poi i due mesi trascorsi nelle campagne di Palazzo San Gervasio per la raccolta dei pomodori. Ricordava ancora, a distanza di quasi tre anni, il sole rovente, il clima torrido e il terreno fumante nei pomeriggi d’estate. Ricordava la paura di arrendersi alla fatica, la paura di morire e soprattutto il kapò bianco con il collo taurino e il grosso naso adunco. Doveva tanto a Matera, dove Palmiro l’aveva accolto nella sua falegnameria. Certamente, qualcosa era accaduto nel conflitto con Gildo, ma forse era meglio non sapere cosa.

    Gildo non aveva dimenticato il suo passato a Matera. Con la testa tra le mani, appoggiato alla finestra sbarrata, continuava a ripetersi che avrebbe dovuto affogare quel bastardo di un negro prima di partire.

    È colpa sua, si ripeteva, e di chi ancora li accoglie, quei negri di merda. È per colpa sua se io mi trovo in questo casino. Non esiste che io mi trovi qua in questa merda, non esiste…

    Il 10 febbraio 2026, amici e parenti avevano festeggiato i settant’anni di Palmiro. Per lui era giunto il momento di tirare un bilancio della sua esistenza. Doveva fare i conti con il passato ma, soprattutto, con un presente ostile e insidioso, che metteva a dura prova i rapporti familiari e non solo.

    Quale dannata sorpresa gli avrebbe riservato ancora il futuro?

    Ogni giorno era sempre la stessa storia: Palmiro voleva che il figlio l’aiutasse in falegnameria, almeno quando c’erano da fare lavori pesanti. Se Gildo avesse continuato a rifiutarsi, lui avrebbe dovuto assumere qualcuno.

    Palmiro era stanco di quel rapporto conflittuale che aveva con il suo unico figlio. Non riusciva a farsene una ragione.

    «Quello sbandato di tuo figlio si è alzato?» borbottò per telefono alla moglie.

    «Palmì, dorme ancora. Lo sai, che stanotte è rientrato alle tre» rispose Lisa, infastidita.

    «Santo cielo, sono le dieci! Quando vuole venire a darmi una mano?» tuonò il marito.

    «Adesso lo chiamo di nuovo e lo faccio venire» replicò la donna.

    Ma Gildo proprio non ne voleva sapere di fare quel lavoro. Lo trovava retrogrado, arcaico. E poi lui aveva un diploma alberghiero; di fare il falegname, non se ne parlava nel modo più assoluto. Inoltre, non sopportava di lavorare con il padre e di sciropparsi le sue prediche da moralista.

    Alla fine del primo quarto di secolo del nuovo millennio, s’intravedeva una sola certezza all’orizzonte. Il mondo si stava evolvendo in modo frenetico.

    Profondi sconvolgimenti sociali, politici, antropologici e ambientali stavano cambiando la società nella forma e nella sostanza: i costumi e le relazioni sociali e familiari.

    In un mondo sempre più dominato dalla tecnologia digitale e robotica in ogni settore produttivo e non solo, erano cambiate le regole del lavoro, riducendo sempre più i già pochi posti disponibili. Ma, soprattutto, l’innovazione aveva reso difficile un rapido adeguamento delle competenze utili a inserirsi nei nuovi flussi produttivi.

    Il posto fisso e il contratto a tempo indeterminato erano solo un lontano ricordo. I giovani nati nel primo decennio del secondo millennio non sapevano neppure cosa volessero dire. Come negli anni Sessanta e Settanta, tanti erano partiti per il Nord Italia e per l’Europa in cerca di un lavoro, se non stabile, almeno dignitoso.

    In ogni parte del mondo si manifestavano conflitti per accaparrarsi gli ultimi lavori di un’economia globale fallimentare, in un susseguirsi inarrestabile di disordini, guerriglie urbane, manifestazioni e sit-in.

    Rifugiati climatici in fuga da territori roventi e inospitali, come Africa e Asia, cercavano rifugio nei Paesi del Nord del mondo: Scandinavia, Russia e Canada in testa.

    Da qualche anno era nato un nuovo terrorismo, detto economico, che aveva soppiantato quello religioso. Gruppi organizzati armati, appoggiati e finanziati da ricchi massoni, ostili alle politiche espansionistiche e predatorie occidentali, attaccavano giacimenti petroliferi, miniere, dighe e insediamenti industriali, facendo uso di esplosivi e di sostanze chimiche e tecnologie di ultima generazione. Gli attentati avevano provocato centinaia di morti e decine di migliaia di feriti in Europa, negli Stati Uniti, in Canada e in Australia. Il fenomeno era in espansione e preoccupava non poco i governi interessati e, soprattutto, la società civile.

    Nel frattempo, l’Italia stava diventando il Sud del mondo. Non era più tra i Paesi maggiormente industrializzati. Basava la sua debole, se non sterile, economia sul terziario, sull’agricoltura e sull’industria estrattiva di petrolio e gas. Era ormai diventata terra di passaggio per gasdotti provenienti dall’Est e dal Medio Oriente.

    L’Italia si era offerta come hub energetico europeo. Tutto passava dallo Stivale, lasciando all’economia locale solo le briciole. Interi territori apparivano feriti, devastati, inquinati, depauperati, sottratti a un’economia che solo fino a un decennio prima era sana e produttiva.

    Nella Città dei sassi restava ben poco da fare. Il fascino di Matera era rimasto inalterato; anzi, con il passare degli anni era diventata ancora più seducente. Ma non era più al centro del mondo come nel 2019.

    L’economia continuava a reggersi sul turismo, però i visitatori, sempre meno, rimanevano per pochissimo tempo, portando ben poca ricchezza al territorio. Inoltre, era come se la comunità avesse perduto lo smalto iniziale, sia nell’accoglienza che nella gestione dei flussi turistici. C’era bisogno di nuovi stimoli, di nuove idee e di una nuova filosofia.

    Matera sarebbe stata in grado di affrontare un cambio di paradigma?

    U Fasciust’, così etichettavano Gildo in città. Lui, che in passato aveva capeggiato una lista di estrema destra alle elezioni comunali, ci aveva provato.

    Aveva fatto il manovale, il pizzaiolo, il benzinaio. Sempre lavori precari, in nero e sottopagati. Certo, ‘u Fasciust’ non era tipo da farsi calpestare i piedi: rozzo nei modi, attaccabrighe, scontroso, non era in grado di controllare il suo impeto di fronte alle ingiustizie perpetrate verso di lui, tradito dal mondo, come andava dicendo. Non riusciva più a tradurre la rabbia pura in un discorso politico.

    Solo qualche giorno prima aveva mandato il suo ultimo datore di lavoro al pronto soccorso, lussandogli la spalla.

    «Ma che hai in testa, me lo dici?» gli chiese il padre, che aveva l’abitudine di rimproverarlo per la sua testa calda.

    «La prossima volta lo mando al cimitero, u’ c’m’taar’ nu’ man’ cud’ pizz’ d’ merd’» rispose Gildo, convinto.

    «Se non ti dai una calmata, finisci male!» lo rimproverò Palmiro, il quale poi, visto che le sue argomentazioni non trovavano mai ascolto, soleva spesso aggiungere: «Farai la fine d’ Chjtaridd».

    «Sì, perché fai così, a mam’, perché ci dai tutti questi pensieri?» intervenne Lisa, mentre con una mano si accarezzava le rughe sulla fronte e con l’altra lisciava l’incerata che copriva il tavolo nel salotto.

    «Ho lavorato due mesi e non mi ha dato un centesimo, gli dovevo fare una carezza?» protestò il figlio con aria orgogliosa.

    Per una volta la discussione sembrava pacata e, nonostante la durezza nelle parole di Gildo, anche razionale, nei limiti del possibile.

    L’unico momento che la famiglia passava insieme era il pranzo e di solito quei due testoni di padre e figlio lo passavano a litigare. Discutevano su tutto, ma, soprattutto, se iniziavano a parlare di politica.

    Quando il tg diede la notizia dell’ennesimo sbarco di migranti, quella calma apparente di colpo si trasformò in un’accesissima polemica.

    «Eccoli, arrivano ancora negri! Non è che in Africa sono finite le banane?» sbottò Gildo, scuotendo l’enorme testone rasato e abbozzando una risata ironica.

    «Per fortuna che arrivano, altrimenti chi farebbe i lavori che voi non volete più fare?» rispose il padre, per poi concludere altrettanto ironicamente: «Qualcuno dovrà pure raccogliere le banane che dici tu.»

    Intanto Lisa li osservava senza dire una parola; era stufa di sentire sempre i soliti battibecchi. Non era più sicura di riuscire a tenere a bada quelle due teste così diverse, ma anche così uguali.

    «È grazie ai politici e ai comunisti come te, se questi arrivano e ci rubano il lavoro.» Gildo alzò la voce all’improvviso, risentito, e si sporse in avanti con fare quasi minaccioso. «Avete portato questa regione alla fame! Non volete industrie, non volete il petrolio, però i negri sì! Senza sapere che quelli sono più sporchi e neri del petrolio. Non è possibile una situazione del genere, non esiste…»

    Palmiro scattò sulla punta dei piedi, ergendosi in tutto il suo metro e sessanta di altezza. «Di cosa dovrei vergognarmi? Di essere un comunista? Be’, sì, lo sono, e di certo non me ne vergogno. Piuttosto, voi giovani vi dovreste vergognare di non voler fare certi mestieri… E poi piangete che non c’è lavoro!»

    «Ma tu pensi ancora di vivere facendo il falegname come san Giuseppe e vuoi che anch’io viva così» obiettò Gildo, che nel frattempo aveva gonfiato il petto come un gorilla alfa.

    Lisa, la quale aveva iniziato a lavare i piatti in cucina, dovette correre in sala da pranzo per sedare gli animi, mentre si asciugava le mani con lo strofinaccio.

    «Basta! Sono stanca delle vostre discussioni!» Li fulminò con i suoi occhi di ghiaccio e puntò la stampella prima verso il figlio, poi verso il marito.

    Da qualche anno era costretta a camminare accompagnandosi con una gruccia, a causa di un problema all’anca. Aveva un bel caratterino quella donna smilza e austera, dallo sguardo spigoloso e con i capelli grigi. Non faceva sconti a nessuno, neppure al suo unico e adorato figlio.

    «Tu, piuttosto, invece di fare sempre polemica, perché non ti trovi una ragazza? Non vedi come sto messa? Io e tuo padre non ce la facciamo più, possibile che non te ne renda conto?» ringhiò al figlio.

    «Mi sbaglio o mi state dicendo che sono di troppo in questa casa?» domandò Gildo, ora con tono dimesso, guardando entrambi i genitori in attesa di una risposta.

    «Santo cielo, ti alzi tutti i giorni alle undici, non vieni ad aiutarmi in falegnameria, ogni volta a tavola inizi una nuova polemica! E ci chiedi se sei di troppo in questa casa?»

    «Ho capito» replicò il ragazzo in tono cupo.

    Poi, accigliato, si allontanò come un cane bastonato, lasciando i due genitori soli e sconfortati.

    Si erano guardati per qualche secondo in silenzio, poi Lisa esplose: «Palmì, anche tu sei sempre esagerato quando parli, non riesci proprio a contenerti!».

    «Tu hai iniziato e mo’ vuoi vedere che la colpa è mia!» L’uomo, con aria meravigliata, inarcò le sopracciglia.

    «Io gli ho detto solo che si deve trovare una ragazza, non che se ne deve andare di casa.»

    «Perché, io gli ho detto che se ne deve andare di casa?»

    Palmiro, seccato, si annodò al collo l’inseparabile foulard, un tempo di un bel rosso vivo, con entrambe le mani. Poi uscì di casa, sbattendo il portone.

    II

    Ora la falegnameria si trovava nel Sasso Caveoso; Palmiro vi si era trasferito in seguito all’ondata turistica di quando Matera era stata eletta Capitale della cultura, dopo aver sostato per un lungo periodo in via Casalnuovo, proprio sotto la sua abitazione.

    Camminava con passo rabbioso, come per calpestare il diverbio avuto prima con il figlio e poi con la moglie. Quando arrivò, trovò Orazio seduto sulla solita panchina all’ombra del vecchio salice piangente.

    «Professò, oggi sei arrivato prima?» chiese Palmiro.

    Il professore guardò l’ora sul suo vecchio orologio da taschino, per assicurarsi di non essersi rincoglionito. «Veramente, sei tu in ritardo.»

    «Hai ragione, professò.» Palmiro alzò la mano come per scusarsi, dopo aver visto l’ora sul display del flessibile.

    Ogni giorno Orazio, che in città tutti chiamavano il Professore per via della sua raffinata cultura, partiva dal Sasso Barisano per andare a trovare Palmiro. Erano amici di vecchia data, da quando da ragazzini andavano per i vigneti a rubare l’uva Mennadivacca, e in più condividevano la passione per la politica e per l’ormai estinto Partito comunista.

    Orazio era in pensione da quindici anni, dopo aver insegnato per una vita alle scuole elementari, quando ancora si chiamavano così. Alto e magro, sempre ben vestito con giacca e cravatta, barba e capelli bianchi ben lisciati e penna sempre nel taschino della giacca, ogni giorno Orazio passava dall’edicola per comprare Basilicata futura, come faceva da sempre tutte le mattine. In più una volta a settimana comprava il settimanale Il nuovo espresso. Appassionato e vorace lettore di saggi, aveva letto tutto di Marx, Gramsci, Scotellaro, Levi, De Martino, Banfield, Bauman, Chomsky e Gallino, per citare solo alcuni dei suoi scrittori preferiti.

    I due amici passavano ore a discutere. Al professore non mancavano gli argomenti, mentre

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