Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Narrando sotto la pergola del glicine
Narrando sotto la pergola del glicine
Narrando sotto la pergola del glicine
E-book480 pagine6 ore

Narrando sotto la pergola del glicine

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Due anziani coniugi del Sud Sardegna narrano tre quarti del XX secolo da sotto una grande pergola del glicine dalla quale si ammira il Campidano di Cagliari, valutando ciò che è stato dell'autonomia speciale, del sardismo, del fascismo sardo, della guerra, della Rinascita tradita da una classe dirigente incapace. Di delusioni, gioie, dolori: delusioni per aver speso i soldi della Rinascita per favorire le industrie di base altamente energivore ed inquinanti, gioie per i figli laureati, dolori per la loro migrazione in cerca di lavoro. La bellezza dei paesaggi, la genuinità dei cibi e le tradizioni si intercalano nel racconto esprimendo ancora il sentimenti che li uniti fino alla fine.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2020
ISBN9791220301299
Narrando sotto la pergola del glicine

Leggi altro di Sergio Pibiri

Correlato a Narrando sotto la pergola del glicine

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Narrando sotto la pergola del glicine

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Narrando sotto la pergola del glicine - Sergio Pibiri

    anni.

    1922

    Arbus

    «Per i tanti scaramantici arburesi» iniziò a raccontare Sisinnio «anche se praticanti le liturgie della Chiesa, nascere nel pieno di un’abbondante nevicata del rigido inverno del 1922 era segno di una fortuna sfacciata. Non così per mia madre Filomena Muscas, che andò incontro all’evento senza provare alcuna gioia: partoriva il quarto figlio in condizione di difficoltà e, tirare a campare con una bocca in più da sfamare, la costringeva a centellinare le risorse già scarse. Fui dunque il quarto frutto dell’amore condiviso con mio padre Salvatore, probabilmente goduto durante la fase meno tragica della Prima guerra mondiale. Loro mi dissero che venni al mondo così minuto che stavo nei palmi delle mani. I miei genitori erano entrambi di Villacidro, ma risiedevano ad Arbus perché mio padre lavorava nella miniera di Montevecchio. Mia madre, con otto persone da sfamare, quando non sfaccendava nei lavori di casa, andava a far fascine nel bosco di Sibiri. Oggi, grazie a Dio, quel bambino così gracilino si è lasciato alle spalle ottantasei primavere.»

    «Giuro che gliene darei almeno otto di meno» dissi io.

    «Sono un po’ rallentato nei movimenti per via dell’artrosi ma, con l’aiuto del bastone, non rinuncio alla passeggiata mattutina dal giornalaio e a scambiare due chiacchiere con gli amici di piazza Frontera. Non leggere il giornale è come saltare la cena, peggio ancora ignorare quanto succede nel mondo» ripeté con convinzione Sisinnio.

    Mentre eravamo intenti al racconto, nel vicinato si portavano a termine i lavori della vendemmia, ogni tanto giungevano i ticchettii dei torchi e l’odore dolce del mosto che mi ricordava i tini della vecchia cantina di mio nonno Pietro Piras Burrasca.

    «Sono i miei vicini che pigiano l’uva acquistata altrove», mi disse Sisinnio «da quando le vigne di Sodd’e Pani, su Ciurexiu e Cortenussu sono state estirpate per fare spazio agli ulivi o per incassare contributi dell’Ue. Molti coltivatori, dopo la morte dei genitori, si sono pentiti, ora spero siano i figli ad avere voglia di ripiantare almeno i vitigni autoctoni: Bovale, Cannonau, Nuragus, Monica, dai quali si ottengono ottimi vini, apprezzati in tutto il mondo.»

    Sisinnio si sentiva a suo agio: aveva riposato un’oretta dopo pranzo ed era ben rilassato. Aveva posato sul tavolino il romanzo La signora De Winter, di Susan Hill, e avrebbe finito di leggerlo dopo cena.

    «Mi piace la narrativa» aggiunse, «per questo leggo almeno due libri ogni mese. La settimana scorsa, si è svolto la XXIV edizione del Premio letterario Giuseppe Dessì, con Maria Grazia abbiamo assistito a tutti gli incontri con i finalisti. E’ stato molto interessante, siamo soddisfatti anche delle scelte fatte dalla giuria, presieduta dalla dotta Anna Dolfi.»

    Maria Grazia e Sisinnio girarono la poltrona verso le montagne e mi suggerirono di fare altrettanto per guardare il crepuscolo dietro le guglie di Giarranas, spiluccando l’uva fresca che nel frattempo Consolata aveva posato sul tavolino. Li imitai, assaporando i grossi acini d’uva dolce e croccante.

    «Quest’uva di Mont’e Crabas, sa di moscato» disse Maria Grazia con un sorriso persuadente.

    Guardai il sole tramontare e notai nei loro volti un’espressione di serenità e tenerezza.

    «Sai, i tramonti infondono tranquillità, aiutando a rimuovere lo sdegno accumulato nell’apprendere di tanti scandali della mala politica, come quella riportata dai giornali in questi giorni» disse Sisinnio, alludendo ai parlamentari che sedevano negli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama nonostante le inquisizioni per peculato delle Procure.

    «E’ paradossale» aggiunse Maria Grazia «assegnare a questa gente, accusata di reato contro il patrimonio, il compito di redigere, votare e approvare la legge di contrasto alla corruzione! Non ho idea di cosa accadrà, ma il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo che riempie le piazze con i Vaffa Day, non mi pare sia solo populismo come scrive qualche giornale. Io apprezzo e condivido la loro battaglia contro la casta politica corrotta fino al midollo, ma ho forti dubbi sul fatto che riescano nel loro intento: molta gente teme il cambiamento.»

    L’idea che io raccogliessi in un libro la loro storia li entusiasmava, ma per un eccesso di realismo o per scaramanzia Sisinnio precisò: «Alla mia età il tempo per raccontarla potrebbe non bastare. Qualche decennio fa pensavo che dopo un’esistenza logorante sarei arrivato al terzo millennio rimbambito. Invece, grazie al cielo, ho ancora voglia di vivere e raccontare certe cose che la storia ufficiale non raccoglierebbe mai.»

    Dovendosi assentare, Maria Grazia si scusò: Consolata aveva preso un giorno di ferie e in cucina non c’era nessuno, perciò se ne andò a piccoli passi sulle morbide infradito e lasciò che marito proseguisse nel racconto.

    Il finestrone della cucina, spalancato sulla terrazza, mi permise di vedere che all’interno l’arredo era simile a un comodo soggiorno: due larghe poltrone accanto al camino, orientate sul televisore Led 28’ HD, con decoder Tv Sat, un tavolo con la fruttiera colma di pere e grappoli d’uva, una parete a libreria zeppa di volumi riposti disordinatamente, l’angolo cottura in maiolica viola e il vecchio pentolame di rame sullo scaffale. Vedendomi indugiare con lo sguardo sul vasto assortimento di pentole e padelle, lei si affacciò sulla terrazza e disse in lingua: «Sisinni bolìa chi bendessì s’arramini a is zingarus ma deu non fiat de acordiu a sperdiri s’arregord’e aiaia mia.¹»

    Sisinnio rispose con un pizzico d’ironia: «Lo so che in quelle pentole c’è parte della nostra storia, ma adesso non hai più le forze per lucidarle. Per fortuna Consolata è molto brava anche in quello e riesce a farti contenta. Quando ti ho proposto di venderle, era solo perché mi ricordavo la fatica da ragazzino, quando mia madre mi obbligava a sfregarle con la lana d’acciaio fino al luccichio, solo per farne sfoggio con i parenti. Vai a dirlo ora ai nipoti di fare certi lavori! Giustamente preferiscono smanettare con lo smartphone, filmare col tablet, ascoltare musica con i pad, navigare in Internet.

    A me, da giovane, il tempo per il divertimento e lo sport, è mancato. Ora da vecchio faccio la ginnastica per non anchilosarmi e, per non essere disconnesso dai figli e dai nipoti uso Skype, Internet e smartphone con facilità. Da pensionato ho frequentato un corso d’informatica e d’inglese, mentre al computer faccio tante cose e qualche volta con Maria Grazia ci divertiamo anche nel rivedere le vecchie foto. Qualcuno dei nostri nipoti sparsi per il mondo torna per san Sisinnio o per fare le vacanze al mare, ma penso che conoscano di noi solo pochissime cose: certo non i nostri pensieri, le idee, i valori o i sentimenti vissuti. Sono sicuro che quando leggeranno quanto stai registrando avranno l’opportunità di riflettere sulla vita dei loro nonni! Loro vivono all’estero, stanno per raggiungere l’età adulta, spero un giorno di poterli rivedere tutti assieme.

    La voglia di vivere mi pulsa nelle vene, ma potrebbe mancarmi da un momento all’altro e mi dispiacerebbe tanto morire senza aver lasciato traccia di me.»

    Dissi a Sisinnio che immaginavo la contentezza dei suoi nipoti per avere i nonni vogliosi d’imprimere in un libro la loro storia.

    Il display del suo smartphone posato sul tavolino iniziò a lampeggiare, Sisinnio allungò il braccio per spegnerlo, si scusò e riprese: «Di sicuro sarei stato contento anch’io se avessi conosciuto la storia dei miei antenati, nati ai tempi dei moti Angioini, invece mi sono dovuto accontentare delle poche cose raccontatemi dai miei genitori e immaginarli durante la ribellione popolare contro il viceré sabaudo. Per questo ai miei amatissimi nipoti e a quanti altri ancora verranno al mondo, non voglio celare nulla di quanto ritengo importante, a incominciare dal nome impostomi che, com’è noto, non può essere cambiato, anche se non piace.»

    Terminò con questa frase il primo giorno dei tanti racconti che sarebbero seguiti. Ci lasciammo con l’accordo di riprendere l’indomani pomeriggio, al calar del sole.

    ___________________

    ¹ Sisinni voleva che vendessi il rame agli zingari, ma io non ero d’accordo a disperdere i ricordi di mia nonna.

    1923

    Di nome Sisinnio

    «Il mio nome, Sisinnio, è lo stesso del martire di Leni, l’antico villaggio costruito dai Greci sulla riva del torrente omonimo, nel quale su uno slargo non lontano i Romani edificarono i bagni termali. Nonna Margherita Saiu mi diceva che, portando il nome del santo, sarei stato protetto dalle coghe² che a Villacidro, come si raccontava fino all’avvento della televisione, uscivano la notte per andare a succhiare il sangue dei bambini. Per questo motivo san Sisinnio è ancora speciale tra le donne che si fanno il segno della croce di fronte alla sua statua tarlata e lo implorano in sardo. Fino a qualche decennio fa, quando non bastava la preghiera, ignorando la stridente contraddizione con la religione cattolica, vi aggiungevano sa fatur’e sa bruscia³. Così, tra storia e leggenda, dedichiamo a san Sisinnio la festa grande. Il suo martirio, avvenuto per opera dei proconsoli romani, è ignorato dai non avvezzi ai libri di storia, giacché credono alla leggenda del santo paladino dei neonati contro coghe e serpenti. Della sua reliquia, dapprima custodita in Serramanna, si dice essere frammento di una sua costola, ma di scientifico non si è mai saputo nulla. Non si sa con esattezza quale fosse il compromesso tra i vescovi per trasferirla nella parrocchia di santa Barbara a Villacidro, in cui è rinchiusa all’interno di una teca con il simulacro del santo, dal XVII secolo. In quel periodo tra il vescovo del Capo di sopra e quello di sotto dell’isola vi fu una grande rivalità, forse non molto dissimile dal più moderno derby calcistico Cagliari – Torres, tra chi riusciva a rinvenire pietre sepolcrali romane o frammenti di esse contenenti la lettera maiuscola M, ritenuta iniziale della parola Martire. Quella lettera autorizzava l’inizio degli scavi per recuperare le ossa del presunto martirizzato quale prova per poi poterne rivendicarne la santificazione. Fino all’inizio del XX secolo i villacidresi difesero fieramente la reliquia del santo dalle pretese dei serramannesi, a volte anche con scontri armati in agguati tesi nello slargo de is Tres bias⁴. Penso che la credenza popolare, abbia costruito una leggenda che con la realtà storica non c’entri nulla. A quei tempi c’erano molte grassazioni e un abigeato diffuso, figuriamoci se si azzuffavano armati a contendersi un osso!»

    «In quei tempi» feci notare io, «le reliquie erano testimonianza materiale dei martirizzati, dunque tesori preziosi della Chiesa per attrarre folle di fedeli, inducendoli a donare l’obolo per purgare l’anima dai peccati.»

    «A quei tempi» riprese Sisinnio «poteva anche essere come dici tu, certo è che non era come i farabutti di oggi che assaltano i portavalori per rapinare le tredicesime dei pensionati! A ogni buon conto, per dare valenza storica alla reliquia del santo, essa è scortata da barracelli armati di fucile fino alla chiesa campestre dedicata al santo. Al popolo piace che la tradizione si perpetui nel tempo; e piace pregare e ballare negli spazi che circondano la chiesa del XII secolo. Lì i fedeli venerano le virtù protettive del santo e recitano is Coggius⁵, banchettando con maialetto allo spiedo, tracannando Cannonau e sghignazzano all’ascolto delle gag osé di Benito Urgu.»

    «Noto che racconta del santo suo omonimo senza orgoglio, anche se questo è venerato in tutta l’isola» dissi io.

    «L’orgoglio lo sento per i miei figli! Comunque, la festa di san Sisinnio mi è sempre piaciuta fin da ragazzino: occasioni bona po’ mi fairi una sazzad’e malloreddus e porceddu arrustu, turronis e carapigna⁶. Adesso basta parlare della festa di san Sisinnio, anche perché avremo occasione di riprenderla più avanti. C’è ancora tanto da raccontare. Se capiterà di saltare da un argomento a un altro o di accostare degli avvenimenti lontani, allora mi dovrai perdonare: la memoria alla mia età potrebbe giocare brutti scherzi.»

    Risposi di non preoccuparsi, anche perché non stavamo scrivendo un saggio che avrebbero analizzato gli storici, ma semplicemente un memorandum per i nipoti.

    «Bene, allora torniamo indietro al tempo di Arbus, sperando di riuscire a stare nei binari giusti. Quando sono nato, nel 1922, il paese contava poco più di tremila abitanti e, secondo il raccontare di mia madre, era un paese né bello né brutto, adagiato sul costone della montagna e declinante su un canalone, con alcune case arroccate nella parte più alta, a circa quattrocento metri sul livello del mare. I miei vi si trasferirono da Villacidro in seguito dell’assunzione di mio padre in miniera, stanco di andarci in bicicletta ogni settimana e di dormire nei cameroni ghiacciati di Montevecchio. Abitavamo vicino al canalone, dietro la chiesa parrocchiale, poco distante dal Municipio, in una viuzza larga abbastanza perché vi transitasse un carro a buoi. La casa era umile, composta di una stanza e cucina al pianterreno e altre due per trascorrervi la notte al piano di sopra, con un pavimento di tavolacci anneriti dal fumo. I segni di quella povertà sono visibili ancora oggi in alcune case del centro storico e molti aneddoti sono ancora impressi nella memoria degli anziani che andavo a trovare fino a qualche anno fa, la domenica pomeriggio.»

    Io dissi che sarebbe stato utile raccogliere anche la memoria storica dei suoi compagni di lavoro, perché patrimonio di grande valore, degno di essere registrato e conosciuto nelle scuole e nelle associazioni giovanili. Negli anni Ottanta proposi alla Cgil di istituire nella Camera del Lavoro di Guspini l’archivio della documentazione posseduta dai minatori (lettere, buste paga, volantini, giornali, fotografie). Mi risposero che era una buona idea, ma i problemi nelle fabbriche tessili di Cannamenda erano urgenti e avevano priorità assoluta. E così, la mia idea rimase nel cassetto della segretaria, Carmen Marongiu.

    ___________________

    ² Streghe

    ³ Il preparato della fattucchiera

    ⁴ delle tre vie

    ⁵ Preghiere in sardo

    ⁶ Occasione buona per saziarmi di malloreddus e maialino arrosto, torrone e gelato fatto col ghiaccio del Gennargentu.

    1934

    L’adolescenza

    «La mia nascita in quel posto così freddo» riprese Sisinnio, dopo una breve pausa per sorseggiare un succo di frutta portato da Consolata Deidda, «coincise con l’avvento del fascismo, in un passaggio storico che mi accompagnerà fino all’età adulta. E’ una coincidenza di cui non mi sono mai sentito fiero: infatti, quando mi resi conto che ero ostaggio del fascismo, finii per parlarne il meno possibile, ritenendo saggio dedicarmi al lavoro senza enfatizzare né banalizzare nulla delle vicende politiche. I miei genitori e i miei zii mi raccontarono alcuni degli episodi più espressivi della loro infanzia ed io stesso, in seguito, li riproposi ai miei figli per tenere allenata la memoria e insegnare loro ciò che di buono contenevano. Tuttavia, fissai alcuni miei ricordi nella memoria, poiché i miei tendevano a riferirmi solo quelli melensi. Ricordo che da ragazzino dormivo nella stessa stanza con altri due fratelli e tre sorelle: roba da non crederci, visto che dormivamo in sei in due soli letti! Per proteggerci dal freddo ci coprivamo con le coperte usate da mia madre per far lievitare il pane e, nelle notti più fredde, l’unico rimedio per non patire le gelate era stringerci l’uno all’altro. Non piangevo mai, per evitare di svegliare mio padre che faceva i turni in miniera. Quanti raffreddori, con tosse, tonsille infuocate e moccio che colava abbondante! A sette anni mi pareva di vivere in una famiglia bellissima, perché tutti erano sempre contenti: i sorrisi di mia madre bastavano a rasserenare l’atmosfera cupa che talvolta si creava quando mio padre tardava a tornare dal lavoro.»

    Seguivo con attenzione la descrizione dell’infanzia di Sisinnio che mi consentiva di riflettere su quanto gli stati d’animo degli anni passati fossero profondamente differenti da quelli attuali, influenzati dalla crisi contemporanea. Pensavo alla difficoltà che si proverebbe oggi nel condividere uno spazio tanto ridotto con otto persone, mentre lui raccontava di una bellissima famiglia contenta nonostante il lavoro pericoloso di suo padre in miniera.

    «Tra tanta povertà, a quei tempi la mia famiglia era una delle più fortunate: la paga della miniera e le quattro stanze facevano la differenza con altre in cui il capofamiglia era disoccupato. Certo, i miei genitori aspiravano ad avere più comodità, ma intanto ci tiravano su senza patemi d’animo, insegnandoci a rispettare l’ordine di età tra fratelli e sorelle. Assunta, che aveva tre anni, era la più coccolata; Mario, di cinque, stava senza scarpe per sei mesi l’anno; Giuseppe, di otto, era aiutato da Giulia, che invece ne aveva dieci, a fare i compiti; Giovanna, di nove, veniva con me e Giulia ad aiutare mia madre a far fascine nel bosco. Il mangiare non era molto, ma a differenza di quanto accadeva negli altri paesi vicini, non mancava mai il latte di capra per la colazione, la ricotta in primavera, il lardo con qualche fettina di salsiccia in inverno e il brodo di gallina nei giorni di festa.»

    Dissi che per i bambini di oggi, cresciuti nel consumismo sfrenato, sarebbe invece impossibile vivere nelle condizioni che lui raccontava. Neanche i protagonisti dei reality televisivi, in cui si cerca di sopravvivere con poco cibo, sopporterebbero la dieta che la povertà imponeva a quei tempi!

    Sisinnio sogghignò e proseguì: «Nonostante avessimo le toppe ai pantaloni, tranne i raffreddori che ricordavo prima, non ci venivano brutti malanni neppure quando gelava il tetto. Ci colava continuamente il naso e i talloni diventavano viola per i geloni che pungevano come aghi, fino ai tepori della primavera. Anche la scuola era fredda e umida come casa nostra. Mia madre accendeva il fuoco per cucinare più che per riscaldare l’ambiente e la fiamma era sempre misurata, per non bruciare troppa legna. Il freddo che ho sofferto da bambino è un ricordo sgradevole, rimastomi nitido nella memoria più di tante altre cose. Se oggi un bambino uscisse da casa in pieno inverno vestito come lo ero io allora, di sicuro si prenderebbe un malanno. Chi non ha provato quel genere di freddo, difficilmente può apprezzare, come faccio io, il riscaldamento di oggi. La mia famiglia era povera già prima che nascessi: mio padre portava a casa un magro salario che mia madre amministrava con parsimonia. Fin da ragazzino, con i miei fratelli mettevamo insieme le poche forze e aiutavamo nostra madre nei lavori di casa e a spaccare mandorle per avere le bucce come compenso che bruciavamo nel camino.

    Per racimolare qualche centesimo da spendere in ceci tostati alla festa di sant’Antonio di Santadi, andavamo a raccogliere fichidindia per ingrassare il maiale che tenevamo accanto al letamaio. Quando la natura usciva dal letargo dei rigori invernali, andavamo a cercare asparagi lungo le siepi della strada che portava a Perd’e Pibera o a raccogliere cicoria ai bordi dei pascoli. In un’annata di carica delle olive ripassavamo le cime degli alberi con pertiche lunghissime, alla ricerca di quelle poche lasciate dai padroni, per venderle poi al frantoiano e averne in cambio qualche soldo per il Natale. Insomma, per necessità, fin da piccoli imparavamo ad avere un rapporto diretto con la natura che, col tempo, per me si rivelerà virtuoso.»

    «Quel suo rapporto virtuoso con la natura, utile nella conservazione del bene comune, dovrebbe essere favorito dalle leggi ed essere deterrente all’abbandono delle campagne e al vandalismo urbano.» Dissi io.

    «Penso che la natura stessa ci imporrà il suo rispetto, quando le ferite inferte diventeranno insopportabili e causeranno danni irreparabili per l’intera umanità. Purtroppo non abbiamo saputo valorizzare e comprendere la saggezza nel rapporto uomo-natura, così come scritto nella Carta De Logu di Eleonora D’arborea. Comunque confido sul buon senso delle nuove generazioni che, a differenza della mia e fatta eccezione per qualche stupido balordo, amano la pace, la genuinità del cibo, l’ambiente pulito.»

    Con questa ventata di ottimismo Sisinnio mi propose di interrompere per fare due passi in terrazza e prendere, in compagnia della moglie, il tè che Consolata ci aveva appena portato. Ci alzammo a sgranchirci le gambe vicino ai gerani rossi e al grande glicine potato a mo’ di pergola mentre le campane della chiesa di santa Barbara rintoccavano le diciotto. Chiesi la loro disponibilità a proseguire per un’altra oretta, invece nulla ci impedì di continuare fino alle venti e trenta.

    Maria Grazia disse: «Fare una pausa ogni tanto è buona cosa. Sisinnio, tu parlavi della natura con entusiasmo, io che sono Ogliastrina, nata sulle sponde del Flumendosa e cresciuta circondata da boschi di sughere, lecci e roverelle, ho ancora impresso nella mente i pendii verdeggianti che vedevo dal costone di Gadoni. Mio padre, che allora era già un tecnico del bosco, mi aiutò a conoscere quasi tutte le essenze di quella terra meravigliosa: mi affascinavano le trote che mi mostrava mentre sguazzavano nelle anse del fiume presso su Stamp’e su turru⁷ di Seulo. Quando venni a Villacidro, avevo dieci anni ed ero felice che d’estate mio padre mi portasse alla caserma della forestale di Monti Mannu, addossata alla sorgente e immersa nel bosco di lecci. Oggi, invece, provo grande dispiacere nel vedere il degrado lungo le siepi di campagna e nei viali del paese. Sono costretta a subire con amarezza la violenza gratuita sferrata all’ambiente: neppure i parchi urbani sono immuni dal vandalismo che si abbatte durante le notti del sabato; per non dire di ciò che subiscono gli olivastri centenari di san Sisinnio!»

    Maria Grazia, dopo aver confabulato un attimo con Consolata, si sedette nuovamente con noi e aggiunse: «Ho profondo rispetto e considerazione per Villacidro e per i suoi contadini, perché loro sono i veri custodi della natura! Gli orti che cingono il paese a valle, sono il frutto della fatica, della dedizione e dell’amore che gli agricoltori mostrano nel mantenerli sani. M’indigno per ciò che il sistema di mercato odierno, cinico e ingannevole, lucra lasciando loro solo le briciole!»

    Prima che fermassi il registratore, Sisinnio volle dire la sua sul mandato amministrativo che portava a termine Franco Sedda, il sindaco indipendente scelto da Siro Marroccu: «Un professore di Lettere, poco esperto per districarsi tra le trame della politica, per questo non assolutamente autonomo nel suo ruolo e quindi talvolta accondiscendente ai voleri di Marroccu. Mi dispiace che un uomo di grande cultura si sia concesso, sia pure in buona fede, a una logica politica lontana dal suo stile di vita.»

    ___________________

    ⁷ Cascata che esce da un buco nella roccia

    1936

    Villacidro

    Riprendemmo a registrare il pomeriggio del giorno seguente, non prima che Consolata Deidda portasse il vassoio dei biscotti con il tè e allontanasse dalla poltrona di Sisinnio la gatta Volpona, da lei regalata pochi giorni prima a Maria Grazia.

    «Mia madre» riattaccò Sisinnio «mi disse di voler tornare a Villacidro per stare vicino ai genitori, ai parenti e alle amiche. Lo disse timidamente, quasi temesse di contrariare in qualche modo mio padre.

    Mia nonna materna,Margherita Saiu aveva sessantanove anni, costretta dal bisogno a servire in casa di una famiglia benestante fin da ragazzina. Si ammalò di artrosi da non riuscire più a raddrizzare la schiena. Tuttavia accudiva con amore il marito Agostino Frigau, invalido alla gamba destra dall’età di ventiquattro anni, feritosi durante le manovre di occupazione delle truppe italiane nel porto Assab, nel golfo del Mar Rosso in Eritrea.

    Mio padre, anche se non lo diceva apertamente, sarebbe stato contento di tornare a Villacidro, perché avrebbe seminato il grano per il pane nel comunale di Turrighedda e fatto la provvista dell’olio con le olive di Arruinas, raccolte a mezzadria.

    Nonno Chicchino Pittau invece faceva il capraio nei canaloni di Banarba: di lui ricordo poco, anche perché ebbi occasione di vederlo pochissime volte. Dal caprile si staccava solo per andare a seppellire i parenti stretti e per partecipare ai matrimoni di cui non poteva fare a meno. Nonna Giuseppina Fanari, la moglie di nonno Chicchino, quando ci trasferimmo a Villacidro la trovai agile come una puledrina, nelle sere di lucore canticchiava a mutetus⁸. Quando andavo a trovarla mi offriva mandorle tostate, miele e fichi secchi.

    Mia madre diceva che ad Arbus la vita era diversa, ancorata a usi che a lei stavano stretti e a ritmi di vita dettati dalla miniera, tra timorias e atzichidus⁹, e forse anche per questo non era riuscita a farsi le amiche come a Villacidro. Con le amiche cidrese cantava i trallallero¹⁰ sciacquando i panni al lavatoio, raccogliendo le mandorle di Cortenussu, ricamando sotto il grande castagno a casa di suo padre. Le mancavano le fioriture dei mandorli di Seddus e degli agrumi di s’Isch’e Bidda, ma soprattutto la pineta del Carmine, che conosceva bene perché l’aveva fatta crescere andando a innaffiarla, quand’era scolaretta, assieme alle sue coetanee.»

    «Allora è merito anche di sua madre se la pineta ancora oggi ci incanta!». Mi complimentai con Sisinnio per aver fatto rivivere nel ricordo le passioni dei suoi antenati e aggiunsi: «Nei libri su Villacidro si narra degli scolari del 1893 che ripulivano la pineta dalle sterpaglie. per salvarla dagli incendi.»

    Sisinnio rispose: «Purtroppo neanche la letteratura è riuscita a fermare i piromani, che a più riprese la stanno distruggendo. E non mi divertono per niente le foto degli incendi che pubblicano sul social network come prova di balentia¹¹.»

    Ribattei che quei piromani mentecatti erano, però, banditi dalla comunità e che diffondendo una sana coscienza ambientale scomparirebbero dalla circolazione.

    «Eh… campa cavallo!» sbuffò scettico Sisinnio.

    Si alzò, fece alcuni passi, bevve un sorso d’acqua e riattaccò: «Tornando al desiderio di andare via da Arbus, ricordo che un giorno, verso sera, al rientro dalla miniera mio padre radunò la famiglia attorno alla tavola di cucina e disse felice e sogghignando: Sono stato trasferito alla miniera di Monti Mannu di Villacidro. Mia madre fece salti di gioia, mi prese in braccio, mi strinse forte e disse che mi avrebbe portato nel paese delle arance, delle ciliegie e delle cascate. Stupito e incuriosito le domandai se in quel paese facesse freddo come ad Arbus. MI rispose di sì, ma che era diverso, con più vento e meno umidità.

    Ci trasferimmo al paese delle cascate nell’estate del 1932: avevo appena gustato il piacere della licenza elementare e già pensavo alle cascate di Sa Spendula, Piscin’Irgas e Muru Mannu, le quali nei racconti di mia madre le immaginavo come cartoline. Con i miei fratelli aiutai a caricare coperte, materassi e pentolame sul carro a buoi noleggiato per il trasloco del mobilio. La casa dove andammo ad abitare era umile e di modeste dimensioni, con il pavimento di mattonelle e un sottotetto di canne a reggere le tegole. Era quasi simile a quella che lasciammo ad Arbus, anch’essa incapace di proteggerci da intemperie invernali e calure estive!

    Per tranquillizzarmi mi spiegarono che Villacidro era quasi città, più grande di tutti gli altri paesi del circondario, perfino residenza prefettizia nel 1807; luogo salubre per vescovi, uomini di cultura, politici ed economisti. Tra i più illustri visitatori il poeta Gabriele D’Annunzio, ospitato dai noti politici locali, il quale in segno di gratitudine dedicò la poesia Sa Spendula, incastonata con lettere d’acciaio sulla parete rocciosa dall’amministrazione comunale.

    L’impatto con il nuovo paese fu sorprendente: mi piacque subito la pineta che lo avvolgeva nella parte alta e la Fluminera che lo percorreva in tutta la sua lunghezza. Anche se all’inizio mi mancavano gli amici dei viottoli arburesi, con i quali giocavo a banditi e carabinieri, in poche settimane mi affezionai alla cascata di Sa Spendula, allo Zampillo, al lavatoio, al muraglione del Municipio, alle chiese e alle cime rocciose di Giarranas. Mi ambientai presto nel nuovo vicinato, popolato da vecchi e ragazzini. Mia madre, forse credendo provassi delusione per la nuova abitazione, mi confortò dicendomi che a Villacidro c'erano altre famiglie che stavano peggio della nostra. Da un certo punto di vista mi sentii privilegiato: la casa dove andammo ad abitare stava nella parte alta del paese, quasi a ridosso della pineta in cui stava la chiesa dedicata alla Madonna del Carmine, ancora oggi meta di tanti visitatori che si recano per respirare l'aria profumata di resina e per partecipare alle funzioni religiose. Dopo alcuni mesi la mia impressione iniziale fu confermata dal panorama di Cuccureddu, da dove vedevo Villacidro distendersi come un’aquila con le ali spiegate, l’abitato circondato dal verde cupo dei frutteti.

    Nonna Margherita mi portò alla chiesetta per assistere alla liturgia per la Madonna del Carmine, mi disse che partecipava tanta gente e che la festa sarebbe durata fino alla vigilia della festa di san Sisinnio. In quanto al vento di Villacidro, ebbe ragione mia madre, perché il maestrale soffiò per tutta la durata delle celebrazioni. Grazie al cielo provo ancora oggi quelle belle sensazioni nel rileggere le pagine degli scrittori villacidresi che descrivono la pineta di Cucureddu e la sua chiesa come luogo ideale per le meditazioni e per godere le sue fresche ombre profumate di resina.»

    Rammaricato, intervenni per dire che quel patrimonio ambientale e paesaggistico era ancora nel mirino degli incendiari, purtroppo aiutati dalla negligenza dell’amministrazione comunale.

    «Il mio rapporto con gli alberi» riprese Maria Grazia «è improntato al rispetto delle leggi della natura, così come mi è stato insegnato dai nonni e da mio padre. Il rispetto dell’ambiente dovrebbe accomunare tutti, invece, pure la lotta agli incendiari ha un retroscena d’interessi opaco. Spesso l’interesse pubblico è contrastato dal comportamento del privato: più si spende per il sistema antincendio più gravi sono i danni alla fine dell’estate! Allora vuol dire che c’è qualcosa che non funziona: basta guardare le ferite inferte al Monte Omu dai soliti ignoti, per capire l’urgenza per la prevenzione, iniziando fin dalla scuola dell’infanzia per far maturare una cultura ambientale, responsabilizzando di più i cittadini al rispetto del bene comune. Bisogna organizzare meglio il pattugliamento di quanti, pagati dalla Regione, devono intervenire già prima che il fuoco divampa e imponga l’arrivo dei Canadair.»

    «E’ un sistema molto dispendioso, per certi versi paradossale.» Riprese Sisinnio «Mentre s’investe per educare al rispetto per la natura, la situazione rimane alquanto rischiosa: ci indigniamo per i danni, imprechiamo contro il piromane di turno, ma appena spente le fiamme, anziché agire con comportamenti virtuosi, ricadiamo nell’indifferenza e dimentichiamo l’etica del cittadino responsabile. Manca una politica organica, che curi l’educazione e la prevenzione, come accade in Giappone sul fenomeno terremoti. Per questo non bisogna tacere sul comportamento di alcuni proprietari dei campi che non puliscono le siepi dalle sterpaglie. Negli ultimi anni ho assistito ai comportamenti ipocriti di assessori e giornalisti che, anziché indagare sulle cause degli incendi, raccontano, con banale retorica, di provvidenziali interventi di volontari, forestali, vigili, carabinieri e barracelli.»

    Proposi di chiudere la digressione sugli incendi e fare una pausa per sgranchirci le gambe. Sisinnio fece cenno di sì con il capo e mi tese la mano perché lo aiutassi ad alzarsi. Nello stesso tempo Maria Grazia, che ascoltava assorta, approfittò per recuperare con Consolata la biancheria stesa.

    «Ancora continuate qui fuori?» domandò con il cesto colmo di panni poggiato sull’anca.

    «Sì, tanto non c’è freddo, il pomeriggio è lungo e la temperatura gradevole. Poggia i panni e torna a sedere con noi» rispose Sisinnio.

    «Nella nuova residenza villacidrese» proseguì Sisinnio «le novità non tardarono ad arrivare: mio padre pensò che, presa la licenza di quinta elementare, fosse tempo imparassi un mestiere. A quei tempi le attività artigianali erano diffuse in tutto il paese: barbieri, calzolai, fabbri, falegnami, mugnai, sarti, macellai erano sempre affiancati da giovanissimi apprendisti. Bene, mia madre al compimento del mio dodicesimo anno, tenendo conto della mia esile costituzione pensò di indirizzarmi a un mestiere che non richiedesse prestanza fisica e mi accompagnò dal sarto Efisio Sanneris, un anziano molto noto per la buona fattura degli abiti da festa. Il sarto lavorava in una stanza poco illuminata all’ombra del palazzo vescovile, la residenza spagnola appartenuta al marchese Brondo. Un’ombra cupa la avvolgeva già dal primo pomeriggio tanto che non era facile infilare l’ago. Dopo due anni, nella primavera del 1936, quando già sapevo fare le asole a pantaloni e corpetti di fustagno, mio padre decise che era giunto il momento che apprendessi un mestiere da uomo.»

    «Non le sembrò esagerato indirizzarla, ad appena tredici anni, a un mestiere da uomo?» Domandai.

    «A quell’età, dove mi dicevano di andare andavo e stavo zitto.»

    «Fermatevi un momento per prendere il tè» disse Maria Grazia con Consolata accanto, pronta a versare. Io mi sposto perché non voglio perdermi il dibattito su Rai 2, sul discorso di papa Ratzinger tenuto al sinodo dei vescovi in merito al relativismo. Io non pratico la religione cattolica e quindi nel relativismo si svolgono le mie azioni, perciò non posso condividere il suo assolutismo. Nella vita non c’è nulla di assolutamente definito: tutto è in mutamento, dalle lingue parlate al colore della pelle. E’ troppo conservatore Benedetto XVI! Chissà quali compromessi ci saranno stati tra cardinali per aver scelto un pontefice tedesco e conservatore. Comunque gli auguro di proseguire il suo pontificato con maggiore attenzione e comprensione della realtà che sta fuori le mura del Vaticano.»

    ___________________

    ⁸ Strofe in sardo

    ⁹ Paure e spaventi

    ¹⁰ Stornelli improvvisati in sardo

    ¹¹ coraggio

    1939

    Monti Mannu

    Erano trascorsi tre giorni quando riprendemmo la registrazione pomeridiana. Sisinnio assestò la poltrona sul cono di sole che filtrava il glicine e riprese: «Mio padre, con le conoscenze che aveva alla miniera di Monti Mannu, riuscì a persuadere i dirigenti ad assumermi come garzone, sotto la sua tutela. Inizialmente si presentò qualche difficoltà burocratica per la giovanissima età, ma poiché lui si assumeva ogni responsabilità, mi presero come cernitore di minerale, mansione che avrei svolto con le donne sotto un’ampia tettoia di lamiere. Iniziai quel lavoro un poco preoccupato per il forte odore di zolfo che si diffondeva fino alla vallata. Mi ritrovai così a svolgere il mestiere di mio padre, lo stesso che pensavo non avrei fatto mai, perché vedevo lui più vecchio di altri, sporco, impregnato di sudore e puzzante di carburo. Mia madre aveva sempre il timore che gli accadesse un incidente in galleria. E che potevo fare di diverso a tredici anni appena compiuti? Dovevo ubbidire e basta.»

    «Molto audace, suo padre.» Dissi.

    «Capisco che ti possa sembrare surreale che un bambino di tredici anni lavorasse in miniera, invece accadeva che il lunedì, prima dell’alba, partissi a piedi con mio padre per raggiungere la miniera distante tredici chilometri, per rientrare il sabato pomeriggio stanco e desideroso di un piatto di minestra calda. In miniera ci portavamo lo zaino carico di viveri e il fiasco del vino. Mangiavamo pane e formaggio, olive, cipolle e lardo. A cena qualche volta tziu Bissenti Sanneris, il minatore più anziano, cucinava la fregola con l’olio d'oliva, il pomodoro secco, le ossa di maiale salate o la cotenna per mangiarla inzuppandoci il pane duro. La mattina presto

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1