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Pane e Fichidindia
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E-book408 pagine6 ore

Pane e Fichidindia

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Info su questo ebook

«Piccino mio, non puoi sapere quale mondo difficile ti attende» sussurrò Bachis Pau al figlio Ignazio appena nato, nel silenzio della stanza filtrata da un raggio di luna che penetrava dalla finestra semichiusa. «Ma babbo ti promette di essere un bravo genitore, anche se in queste condizioni a esserlo veramente occorre tanta caparbietà, una buona dose d’ottimismo e un pizzico di fortuna» aggiunse percependo l’odore dell’alcol e del lume di candela, lasciati sul comò dalla levatrice. Inizia a narrare con queste inquietudini di Bachis Pau l’autore di Pane e fichidindia. Del parto doloroso della moglie Teresa Serra che diventa madre a metà degli anni Trenta, quando il fascismo a Bonarangiu, il loro paese all’estremità montuosa del Campidano, reprimeva qualsiasi azione divergente dal regime. In paese, Bachis Pau, che gestisce il Montegranatico e coltiva una preziosa amicizia con il minatore di Montibecciu Peppino Ardau, affronta il periodo con saggia prudenza: serbando nell’animo i valori della libertà e della democrazia e rinunciando ai tentativi lusinghieri di omologazione al sistema di potere controllato dal podestà e dai ricchi proprietari terrieri. I due, nella rischiosa intraprendenza politica clandestina organizzano la Lega, organismo embrionale di un soggetto social/politico originale fra contadini e minatori. Tra gli accadimenti sorprendenti della storia, Bachis Pau e Peppino Ardau sono vittime dei soprusi: il primo ordito da misteriosi mandanti che solo l’abilità e la tenacia dell’avvocato Ortu riesce a scoprire; il secondo della direzione mineraria di Montibecciu. Quantunque la pericolosità delle spie locali, alla Lega aderiscono altri contadini e gli intellettuali del paese che stanno a Cagliari e che poi assumono ruoli di grande importanza, come l’avvocato Libero Ortu e la studentessa universitaria Barbara Caria. I colpi di scena si susseguono dopo che Bachis Pau è vittima dell’attentato notturno, rischia di morire dissanguato. Dietro quell’attentato si celano gli interessi economici dei signorotti, in commistione con la politica. Da qui il teorema sostenuto in Tribunale dall’avvocato Libero Ortu, che attrae l’attenzione della stampa e preoccupa la gerarchia fascista provinciale. Il ritmo degli accadimenti non trascura gli scenari della povertà del periodo, le bellezze della natura, la genuinità del cibo, le festività religiose. E così, tra la fine della guerra in Abissinia, la Campagna del grano, la seconda guerra mondiale, la liberazione dal nazifascismo, s’intercalano scene di miserie e povertà, soprusi e privilegi. Tuttavia il sentimento dell’amore tra Bachis e Teresa rimane al centro della storia. Così come contrastato da Valerio Ollastu si sviluppa l’amore fra Barbara Caria e Libero Ortu. La rivelazione di come va a finire l’impresa della Lega sta nel finale sorprendente, giacché a guerra finita, i personaggi, dopo aver gioito per l’epilogo sperato, si accorgono che devono rincominciare la battaglia per acquisire una vera libertà.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2012
ISBN9788866189374
Pane e Fichidindia

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    Anteprima del libro

    Pane e Fichidindia - Sergio Pibiri

    libertà

    I

    La vita a Bonarangiu

    Per tutto il pomeriggio Teresa Serra lamentava dolori al ventre, ma non se ne curava più di tanto. Continuava tranquillamente a stirare i pantaloni del marito, Bachis Pau, gestore del Montegranatico e contadino di Bonarangiu. Ai dolori della fatica quotidiana s’era abituata fin da ragazzina, ma questi erano diversi. Erano attesi, scontati. Era la gestazione che giungeva al traguardo senza alcun problema. Aveva ormai la certezza che a provocarli fosse la creatura che stava per venire al mondo, a pochi giorni dal compimento del suo ventiquattresimo anno. Nell’ultimo mese di gravidanza la fatica l’aveva spossata. Riusciva a riposare poco e male. Le cose da fare erano tante: accudire agli animali in cortile, impastare la farina per fare il pane, pulire la casa e far da mangiare. Quel pomeriggio, proprio quando gli schiamazzi dei ragazzini del vicinato s’attenuavano e il sole calava lentamente dietro le guglie di Giarranas, allungandone le ombre sulle modeste case di S’Isch’e Bidda, i dolori e la stanchezza di Teresa si acuivano. Nel suo volto v’era un misto di letizia e di paura: la gioia di chi sta per diventare mamma, ma anche la paura di non partorire in grazia di Dio, come le aveva insegnato la madre.

    Uffa si diceva spostandosi in cortile con la scopa in mano devono essere i dolori del travaglio, molto diversi da quelli che mi mordono i lombi quando lavo i panni. E’ meglio che mi sieda e aspetti che si rompano le acque, come mi ha consigliato stamane comare Carminè.

    Entrò in cucina e s’adagiò sulla sedia, appoggiò le braccia sul tavolo e cercò di assumere la posizione che le consentisse di sopportare meglio le contrazioni. Si distese allungando le gambe sotto il tavolo. Pensava ai suggerimenti che le dava il marito quando lamentava la sofferenza ai lombi dopo una giornata di lavoro.

    Terè, guarda che quando ti senti spossata puoi riposare tranquilla, se ti metti a letto nessuno ti giudica male: ecco, la frase del marito che ripescò dalla memoria con tenerezza. Ma lei ai suggerimenti di Bachis rispondeva che "abarrai amandronada non seu bona.¹ Tanto la notte i dolori se li porta via e l’indomani ne procura di nuovi." Rammentando i consigli del marito e della comare, fra una fitta intensa e una pausa, si preparava all’evento.

    Uhm, ma allora significa che il parto non è questione di poche ore e chissà se stanotte, magari con una buona dormita, le doglie si calmeranno. Se Dio vuole domattina nascerà bene perché avrò più forze per spingere si augurava accarezzandosi il pancione.

    Con questo pensiero s’alzò lentamente, uscì in cortile a prendere una fascina di legna per ravvivare il fuoco nel camino. Furitu, il cane da caccia del marito che se ne stava accucciato sulla soglia, dapprima sollevò la testa e poi le andò incontro scodinzolando, ma Teresa non lo degnò neanche di uno sguardo, tirò dritta verso la legnaia. Appena si chinò per prendere in mano la fascina, un forte dolore le pervase il ventre. Lasciò cadere la legna e rientrò in cucina, preoccupata anche per l’insolito ritardo di Bachis. Chi correva al momento del bisogno era sempre comare Carminetta Usula, di una quindicina d’anni più grande di lei, quasi dirimpettaia alla sua casa. La cognata di Teresa Serra, Assunta Pilimedda, moglie del fratello Paolo, pastore, con cui si frequentava assiduamente, era morta dopo aver dato alla luce il figlio Efisio; e l’amica Anna Piras doveva badare alla figlia Angela Ardau, di pochi mesi.

    Che abbia avuto problemi al Montegranatico? s’interrogò con i brividi a fior di pelle. Ma forse è rimasto a fare qualche lavoro straordinario per aggiornare la contabilità.

    In quella vecchia struttura del XVIII secolo, sorta per lo svolgimento delle funzioni dei Monti frumentari e ora di quelle del Consorzio Agrario Provinciale fascista, Bachis Pau ci trascorreva anche dodici ore al giorno.

    Intanto Teresa Serra continuava a interrogarsi sul sesso del nascituro, sul nome da dargli, sul battesimo, sui padrini. S’adagiò sulla sedia di fronte al caminetto e, dopo un po’, col susseguirsi ravvicinato delle fitte, iniziò a lamentarsi. Furitu, percependo la sofferenza della padrona, prese a raschiare la porta con le zampe, come a voler girare la maniglia, ma dopo ripetuti tentativi rinunciò e incominciò a latrare. L’insolito fare del cane attirò l’attenzione di comare Carminetta Usula che, intuendo il motivo di tanta agitazione, si precipitò da Teresa Serra.

    «Comare Terè, sta per nascere, vero?» disse sfilandosi lesta lo scialle dalle spalle.

    «Pare proprio così. Mi dia una mano per stendermi sul letto e mi faccia il piacere di avvisare la levatrice.»

    «Dovere mio. Adesso stia coricata che faccio andare Pepedda ad avvisarla. Apustis atzìtzu su fogu e pongu s’acqua a calentai².»

    «Deus si ddu paghit gomai mia³.» Per fortuna che c’è lei e sa come si fa. Che paura stare sola! Oggi è giovedì e spero che Bachis rientri presto, vorrei tanto che ci fosse anche lui. Mi pare che l’ora tanto attesa stia arrivando davvero» confidò a comare Carminé che s’apprestava ad accendere la candela a olio appesa all’interno della cappa del camino. La presenza della comare la tranquillizzò al punto che si sentì rilassata e persino meno ansiosa per il ritardo del marito. Distesa si sentiva meglio e, nell’attesa che giungesse il marito, raccontava delle emozioni che provava nei momenti migliori trascorsi con lui nel breve periodo di fidanzamento.

    A quei tempi, come altri giovani che si corteggiavano, anche Bachis Pau e Teresa Serra si incontravano nello stretto vicolo che portava al lavatoio, approfittando dei momenti in cui s’interrompeva l’andirivieni delle donne con le brocche dell’acqua che riempivano alla fonte lì accanto. Si abbracciavano nascondendosi fra i rami di sambuco pendenti sulla Fluminera⁴. Lei gli portava qualche dolcetto di mandorle e lui le regalava frutta fresca che aveva raccolto poco prima nel minuscolo giardino del cugino. Era lì che si erano dati il primo bacio sulla bocca e che Teresa non dimenticò, perché rimase tutta intontita e voglia di tornare a casa non gliene veniva. Scoprivano la passione dell’amore Bachis Pau e Teresa Serra, ma proprio quando ne assaporavano il piacere profondo si dovettero separare giacché lui fu arruolato, insieme al suo caro amico Peppino Ardau, nel primo contingente di fanteria: partì dal porto di Messina l’ultima decade di febbraio del 1935, verso l’Africa Orientale. L’animo felice di Teresa conobbe la paura di poterlo perdere.

    «Sapevo che era il generale Emilio De Bono a comandare il contingente di cui facevano parte Bachis e Peppino Ardau; la gente diceva che era molto bravo sul fronte etiope. Ma era proprio il pensiero della sua bravura a terrorizzarmi», proseguiva Teresa sollevando gli occhi al cielo.

    «Già la conosco anch’io quella paura» disse Carminetta Usula.

    «Solo Dio sa quanto mi è mancato, pensando ai pericoli che correva in quella maledetta guerra africana. La paura che un giorno potesse giungermi la notizia di un suo ferimento o peggio ancora della sua morte, mi gelava il sangue. Certo, oggi, a differenza di tante altre donne, non mi devo lamentare: sto per avere un figlio, Bachis ha un lavoro, è sano e ha tanta voglia di fare.»

    «Beata lei, comare mia. Sa vida mia, comenti sciri fustei, est fata de tristura niedda⁵. A me sa gherra⁶ ha dato il lutto più doloroso: una granata austriaca mi ha squartato Antonicu. Pobiddu miu⁷ era bello e forte, lavorava come un bue e pure bravo a sparare era: la lepre non aveva scampo se si presentava nel mirino della sua scupeta⁸. Mi scriveva due righe solo se qualche soldato capace lo faceva al posto suo e solo per comunicarmi che al fronte ci sarebbe rimasto poco perché sa gherra l’avrebbe vinta e sarebbe tornato in paese, da me e dalle capre, a Magusu. A mimi sa timoria mi faiat su xiorbeddu coment’e una pingiada buddendu⁹. Mi trumbullat adaì e adènotti¹⁰, neppure i rosari recitati la sera me la toglievano di dosso. Facile non era, comare mia, accudire is pipius ¹¹ pensando che Antonicu rischiava la vita in ogni momento. Non ho avuto neppure il conforto di seppellirlo con un mazzo di crisantemi. In caserma mi dissero che l’avevano interrato come un eroe, nella collina di Redipuglia. Ma io alle loro parole non ho creduto mai. Credo che la bomba l’abbia fatto a pezzi. Oggi vivo con la pensione de pagu contu e tres picioccheddus chenza de crapitas¹². Abbiamo una Patria che non sa essere generosa né con gli orfani, né con le vedove: ci costringe a stare ancora in guerra in Africa e contro la miseria, forse per molto tempo ancora.»

    Teresa si morsicò la lingua, pentita di aver fatto quei riferimenti alla guerra, ma poi riprese a parlare perché s’accorgeva che a Carminetta Usula il suo raccontare piaceva e forse l’aiutava a scacciare le amarezze che le avvolgevano l’anima, come lo scialle nero che indossava, anche nelle belle giornate primaverili.

    La buona sorte volle che Bachis Pau tornasse vivo al suo paese: ferito da una scheggia in un conflitto a fuoco contro una formazione del Negus, presso Addis Abeba, evitò di morire dissanguato per il soccorso immediato che gli aveva prestato Peppino Ardau.

    «Doveva vederlo il giorno del congedo» confidava ancora Teresa a comare Carminetta Usula «quando si era presentato da me con il collo fasciato, spettinato e smagrito, cotto dal sole africano, ancora dentro la divisa sporca e le mostrine storte: più vecchio di almeno cinque anni mi era sembrato. Eh, ma apustis chi si fiat allìchidiu, ancora prus bello de prima fiada¹³. Mah, lasciamo stare i ricordi che altrimenti sembrano vanaglorie.»

    «No comare Terè, per carità di Dio, continui a raccontare che è così bello ascoltarla.»

    Teresa fece una pausa toccandosi l’addome e proseguì: «Tanto se i dolori non diventano troppo forti significa che la creatura non è ancora pronta e se, nel frattempo, l’aspettiamo chiacchierando, male non le facciamo.»

    Fece un lungo sospiro e riprese: «La spensieratezza che provavamo nelle feste paesane ballando e cantando con gli amici accompagnati dalla fisarmonica di Cicitu Scuau, non è cosa che dimenticherò facilmente. Il giorno del matrimonio, a cinque mesi del congedo, ai pochi invitati, perché soldi per fare cose larghe non ne avevamo, servimmo solo biscotti glassati da inzuppare nel caffè, gli amaretti e due liquorini fatti in casa.»

    L’argomento stimolò comare Carminetta che esclamò: «Ih! Se le raccontassi la cerimonia del mio sposalizio già farebbe ridere poco!»

    E Teresa riprese: «Non mi crederà, ma a fare all’amore il giorno che mi sono sposata non ci avevo neanche pensato, troppo presa dalle emozioni della cerimonia ero. Ma dopo che gli invitati andarono via, Bachis mi abbracciò forte da farmi capire il desiderio che aveva.»

    «Uhm! Già me ne tornano in mente di ricordi belli ascoltando queste cose» soggiunse Carminetta Usula.

    «Vergine ero, ma di quel dolore che sentii quando Bachis entrò dentro di me, non ne feci nemmeno cenno e lui continuava a baciarmi dappertutto.»

    «Avete fatto bene comare Terè, così anch’io avevo fatto la prima volta. L’uomo in quei momenti egoista è: gode e non pensa che la donna che sta perdendo la verginità prova meno piacere di lui.»

    «Eh, ma dopo, comare Carminè, la gioia di essere rimasta incinta dall’uomo che amavo tantissimo m’accompagnava notte e giorno. Credo sia stata la sensazione più intensa, più importante, ma anche più impegnativa della mia vita.»

    Carminetta Usula l’ascoltava dubbiosa e, con un po’ d’ironia, asserì: «E insana deu ca de impringiaduras ‘nd’hapu tentu cinqui, depia esseri sa femina prus cuntenta de su mundu¹⁴?»

    Teresa ridacchiò con gusto e comare Carminetta insisté con lo stesso tono: «Boh! Saranno stati i tre aborti a intristirmi? Lei non lo sa, ma quando mi ero accorta per la prima volta di essere rimasta incinta, non avevo manco compiuto i sedici anni; e se mi fosse successo com’è capitato a lei, sarei rimasta emozionata ininterrottamente per almeno quindici anni! Altro che emozionanti: dolorose e faticose sono state per me le gravidanze!»

    «Sì, la capisco comare» riprese Teresa, sperando che i dolori non tornassero come prima. «Però anch’io, con Bachis, di coraggio ne ho avuto tanto: ricorderà anche lei comare che mi sposai non appena lui compì venticinque anni. Io ne avevo quasi due in meno, ma avevo la forza di affrontare qualsiasi sacrificio. Ero contenta e guardavo al futuro con fiducia: la guerra era finita e lui poteva stare con me sotto lo stesso tetto.»

    Bachis Pau a Teresa Serra scriveva molte lettere, per tranquillizzarla, come se sapesse delle sue angosce. Erano belle e lei le aspettava con ansia e quando le leggeva il cuore le batteva come le campane a mezzogiorno. La gradevolezza delle parole, piene di speranza e d’ottimismo l’aiutavano a sperare e così le leggeva più di una volta. A lume di candela le ripassava nel silenzio della notte, bagnandole spesso con le lacrime, per la gioia di saperlo in vita. Ma il giorno dopo la tristezza le avviluppava l’anima di nuovo e svuotava la gioia della sera prima. Teresa gliene scriveva il doppio di quelle che riceveva, ma le rimaneva il dubbio sulla puntuale consegna, perché Bachis non sempre quando le scriveva faceva riferimento alle sue.

    «Certo è che a quei disgraziati del governo che decisero di mandare a combattere tutti quei giovani» proseguiva Teresa, girandosi di fianco «le orecchie saranno fischiate più di una volta per le imprecazioni rabbiose che urlavo, alzando gli occhi al cielo, per farmi capire e perdonare dal Padre eterno.»

    «A me» soggiunse comare Carminetta «certe volte, a forza di parlare male del governo, mi si seccava la bocca. E imoi, is arrexionis po’ ddus frastimai non mancant de tzertu: c’est puxi a tirai a marra in d’onnia dom’e pòburu!¹⁵»

    «Meno male che Bachis, quando fu congedato in seguito alla grave ferita che aveva riportato al collo, seppure in un mare di miseria e sudando le proverbiali sette camicie, è poi riuscito a rimettere a posto queste quattro mura che gli aveva lasciato il padre.»

    La cosa più importante per Teresa era che lui stesse in buona salute e avesse voglia di lavorare. E Bachis l’aveva dimostrato anche lavorando di domenica, in modo da rendere gli ambienti più spaziosi. Per la creatura che stava per venire al mondo aveva tanti progetti in testa, ma quello più importante era l’Università, tanto che alla moglie lo ricordava spesso. L’idea piaceva anche a lei, ma a differenza di Bachis, rimaneva con i piedi per terra. Bachis era convinto che chi crescesse ignorante era condannato a soffrire più degli altri. Per questo andava dicendo che i figli, con l’istruzione, dovevano riuscire meglio dei genitori. Si sentiva male solo a pensare che i figli suoi potessero diventare serbidoris¹⁶ come i suoi nonni.

    Furitu abbaiò di nuovo e Carminetta Usula si alzò per sbirciare sul cortile.

    «Pensavo fosse arrivato compare Bachis» proferì, sedendosi accanto a Teresa.

    «Non pensi che per noi sia stato tutto liscio: neanche un poco! ma bisogna avere fede» riprese Teresa. «Io ho la fortuna di avere un marito che riesce a trasmettermi il senso della serenità, nella semplicità di chi sa accontentarsi di poco. Queste cose possono apparire banali, ma in questa situazione di paura e d’incertezza, cara comare mia, riuscire a mantenere integra l’armonia tra marito e moglie dà forza e speranza.»

    «Eh, cose troppo belle sentono le mie orecchie» ribatté comare Carminetta, soffiandosi di nuovo il naso «se uno scrittore ascoltasse la sua storia, un bel romanzo scriverebbe. Sono contenta per lei e le auguro ogni bene. Non sono sangiosa,¹⁷ come quelle vecchie zitelle di s’Arrundò¹⁸ che quando, nei giorni di festa, mi vesto con la gonna plissettata, me la brucerebbero addosso! La contentezza, comare Terè, stampata nel viso ce l’ha. E’ davvero bello ascoltare quanto fa per suo marito e per la creatura che sta per nascere. Per me la paura chi i nebodeddus mius¹⁹ rimangano ignoranti troppo grande è, perché i miei figli lavorando solo qualche giornata alla settimana non ce la fanno a crescerli istruiti.»

    «Da come parla», si dolse Teresa accarezzandosi il pancione, «sembra che abbia voltato le spalle alla vita. Mi dia retta: è ancora una donna forte e alla sua età non bisogna sentirsi anziani. E’ un peccato rassegnarsi e guardare solo al passato che, per quanto drammatico, non può essere motivo per impedirle di rifarsi una vita con un uomo che le voglia bene e abbia il coraggio di affrontare la vita insieme. Mi creda comare mia: butti via lo scialle nero e vedrà che di anni ne dimostrerà anche meno. Ci pensi bene e poi ne riparleremo.»

    Carminetta Usula, pur lusingata dall’incoraggiamento a osare, rispose tuttavia con scetticismo: «Se venissero a sapere che mi sono messa in testa l’idea di frequentare un uomo, quelle malelingue del vicinato mi metterebbero subito in canzone, non me la perdonerebbero per tutto il resto della vita. Come minimo mi direbbero che sono una bagassa²⁰. Quelle vipere non tengono mutande per coprirsi il sedere, ma hanno una lingua chi sègat prup’e ossu²¹. Ad ogni buon conto ci penserò, anche se uomini disposti a prendersi una vedova con figli, non ne vedo farsi largo a gomitate, anche perché la guerra, di quella generazione, ne ha ammazzati troppi.»

    E prima che si riacutizzassero le fitte sul ventre di Teresa, tornando all’argomento di prima, fece in tempo a dire: «Invece io due bambini li partorii prima di sposarmi! Per punirmi di quegli sbagli, babbai²² mi prese a cinghiate più d’una volta e i segni lasciatimi sulla schiena me lo ricordano ogni volta che mi specchio. Quand’ero gravida di Pepedda di botte ne ricevetti a più non posso e neanche la preoccupazione di danneggiare la creatura che avevo in corpo frenava la furia delle sue mani.»

    «Però mi disse che in seguito suo padre si pentì e Pepedda la prendeva in braccio per addormentarla con le sue ninne nanne.»

    «Si vede che un cuore ce l’aveva pure lui» sospirò Carminetta Usula.

    Benché i dolori tornassero a intervalli sempre più ravvicinati, Teresa continuava a ricordare e a confidare le proprie paure alla comare: sapeva bene dei rischi di un matrimonio fra poveri, soprattutto in un paese di montagna, dove molta gente era costretta a mangiare ancora pane e fichidindia, e solo pochi riuscivano ad allevare un maiale in casa. Quando Bachis le parlava delle ingiustizie sociali, dei problemi nel lavoro, delle sue idee politiche ci metteva tanta passione e a Teresa piaceva lasciarsi coinvolgere, ascoltando attentamente i ragionamenti e le riflessioni critiche.

    «Per esempio» continuava Teresa «Bachis mi fa riflettere quando sostiene che noi donne sbagliamo a estraniarci dalla politica, dall’impegno a combattere le cause che ci condannano a vivere sopportando anche le umiliazioni. Lui è convinto che anche la nostra famiglia rischi molto e che se un giorno perdesse il lavoro ci ritroveremmo ai margini della società.»

    Comare Carminetta continuava ad ascoltare affascinata, rammentando la situazione di partenza di Bachis e Teresa, cresciuti nello stesso vecchio rione di Castangias, sulla parte alta di Bonarangiu. Un rione abitato da caprai, da servi pastori e da disoccupati in condizioni di estrema povertà. E sapeva pure che Teresa era la settima figlia di un servo pastore e di una serva a servizio dell’avvocato Orlando Ortu, nella bella casa al centro del paese. Rammentava il momento in cui aveva assistito, con un pizzico d’invidia, all’entusiasmo di Teresa mentre calzava le prime scarpe eleganti il giorno del fidanzamento. Di lei, in quel periodo, invidiava anche la passione che aveva per la lettura e la bella grafia, apprezzata dalle donne del vicinato che se ne servivano quando dovevano scrivere un biglietto d’auguri o una lettera a un parente lontano. Anche di Bachis Pau sapeva molte cose: che era figlio di padre molto povero e di una lavandaia che si recava a giorni alterni a lavare i panni dei benestanti, nelle acque del rio Narti e, successivamente, nel lavatoio pubblico che l’Amministrazione comunale di allora costruì bello ed imponente, a fianco della Fluminera; che Bachis, reduce di guerra, aveva maturato convinzioni politiche personali nell’esercito e che ora, in un certo qual modo, cercava di praticare da gestore del Montegranatico. Conosceva pure la lunga amicizia che lui coltivava con Peppino Ardau, iniziata sui banchi di scuola elementare e proseguita finanche con la divisa militare sul fronte etiope: un’amicizia solida, irrobustita dalla condivisione degli ideali di pace, libertà e democrazia. Le idee che Bachis esprimeva nei suoi discorsi le provocavano il desiderio di conoscerle meglio, visto che anche da Teresa erano apprezzate. In cuor suo desiderava essere coinvolta, ma lo celava per senso di vergogna, come se fosse materia a lei preclusa. Era convinta che fossero cose da lasciare alla gente istruita. Di Bachis, abitandoci di fronte, conosceva anche le abitudini quotidiane: che al Montegranatico ci andava mattina e sera, che la domenica inforcava la bicicletta o montava il baio Lestru per andare a caccia, oppure allo splendido agrumeto di Leni. Più o meno, anche il numero delle fascine che riusciva a portare a casa per l’inverno. Insomma, con la famiglia Pau Carminetta Usula era di casa: s’era instaurato un ottimo rapporto e tuttavia il ghiribizzo di scandagliare ancora più a fondo la vita sentimentale dei compari le tornava spesso. Per questa ragione le chiacchierate con Teresa talvolta scivolavano persino sulle cose più intime.

    Certo, anche loro hanno conosciuto una vita dura ragionava fra sé in un momento di pausa della lunga conversazione con Teresa "ma sempre migliore della mia, poiché da quando sono vedova, senza l’amore e la protezione di un uomo, con is picioccheddus²³ da aiutare, mi alzo tutte le mattine col pensiero di non riuscire ad affrontare il futuro che vedo sempre più incerto. Un brav’uomo capace di farsi avanti ci vorrebbe davvero, come dice comare Terè, allora sì che la situazione cambierebbe in meglio! Se capitasse non sarebbero certo quelle acide pettegole del lavatoio a tenermi ferma. Mah! Chi vivrà, vedrà."

    La sagoma del monte Omu si stagliava cupa nel crepuscolo. L’aria s’era fatta più fresca. Sul tratto di strada abitualmente percorso da Bachis, transitava lentamente un carro a buoi carico di legna, sollecitato abilmente dalle grida del carradore, anch’egli lento e sporco, sicuramente desideroso di lavarsi i piedi e sedersi a tavola e mangiare un piatto di minestra calda. Rasentando i muri, avvolte in scialli neri, alcune vecchie rincasavano mestamente dopo aver partecipato a una messa in suffragio di qualche parente. Nella curva dello stradone alcuni cani si contendevano un osso già rosicchiato, generosamente gettato in strada dal crannatzeri²⁴ che curiosava appoggiato alla porta, ma di Bachis Pau manco l’ombra, eppure sapeva che la moglie poteva partorire da un momento all’altro. La levatrice giunse trafelata, l’acqua aveva iniziato a bollire ed i panni puliti erano stati adagiati sul comò da Carminetta Usula. Teresa sudava come avesse la febbre alta, teneva i denti stretti e lo sguardo rivolto alla levatrice, per interpretarne le intenzioni o prevenirne le mosse.

    «Sta per nascere! Vedrai che tutto andrà bene» disse la levatrice, con un sorriso d’ottimismo.

    Il rumore inconfondibile del rocchetto della bicicletta di Bachis giunse alle orecchie di Carminetta Usula che corse immediatamente dalla comare.

    «Est’arrìbau gopai²⁵ Bachis!»

    Teresa abbozzò un sorriso di ringraziamento e raccomandò di non farlo entrare.

    Bachis, appena varcato il vecchio cancello a stecche di legno sentì le urla della moglie, poggiò sul muro la bicicletta e corse da lei, ma sulla porta della stanza da letto fu bloccato da Carminetta Usula.

    «La ragione per venire velocemente già c’è, bella e buona pure, vero? Lì dentro sta andando tutto bene: comare è pronta e c’è già la levatrice, è questione di qualche minuto e chi Deus bolidi ²⁶ la creatura nascerà bella e sana. A lei, che è arrivato, gliel’ho già detto» aggiunse, passandosi il fazzoletto sulle palpebre per asciugare le lacrime provocate dalla gioiosa commozione.

    «Che il cielo l’ascolti comare Carminè. Per tutto il giorno ho pensato che stasera sarebbe venuta al mondo la nostra creatura, purtroppo un carico di grano da imbarcare dopodomani mi ha trattenuto a lungo. Ma ora che sono qui, l’ansia di conoscere, di vedere, di toccare mio figlio, è troppo grande.»

    Seduto di fronte al caminetto, dove ardevano le braci di lentischio, Bachis fissava il riverbero delle fiamme cercando d’indovinare se il primogenito fosse maschio o femmina. Sarebbe meglio femmina ragionava secondo la mentalità contadina di quelle parti così da grandicella potrà, senza rinunciare allo studio, aiutare la madre a fare il pane, a portare l’acqua dalla fonte e accudire alle galline.

    Le sbuffate di Teresa, alternandosi alle grida, ripresero in simbiosi con le contrazioni. Ai dolori della moglie Bachis reagiva digrignando i denti e irrigidendo i muscoli del collo, tenendo i pugni chiusi e le orecchie tese in direzione della porta socchiusa della camera da letto, ansioso di sentire il primo vagito. Ci fu un attimo di silenzio: Bachis fece per alzarsi e, in quell’istante, all’ultimo urlo acuto della moglie seguirono gli strilli del neonato. Si era portato le mani sul viso e singhiozzava di gioia, sentendosi accapponare la pelle. Era diventato padre e già si domandava sulle sue capacità.

    «Auguri gopai, chi su Signori dd’aggiudidi e crèsciat sau e bonu²⁷» disse Carminetta Usula baciando la guancia di Bachis.

    Lui si alzò e corse nella stanza da letto, dove l’odore dell’alcol si mescolava a quello del lume a olio. Teresa lo accolse con un sorriso, gli occhi arrossati dal pianto del travaglio, la fronte perlata di sudore ma felice di aver dato alla luce la sua creatura e di lasciarsi alle spalle i dolori lancinanti.

    «Guardalo Bachis» gli sussurrò all’orecchio quand’egli si chinò a darle un bacio « è un maschio, sano, bello e grande. Contento?»

    Lo teneva adagiato al suo seno, come le aveva consigliato la levatrice, per abituarlo gradualmente al distacco ombelicale. Il bimbo era stato appena lavato e profumava di borotalco, i radi capelli scuri erano simili a quelli dei genitori.

    «E’ veramente bello e ti assomiglia. Speravo arrivasse femmina, ma va bene lo stesso. Gli auguro di crescere sano e di avere la fortuna che si merita. Tu come stai?» rispose Bachis giulivo.

    «Già sto bene, anche lui mi sembra stia bene, adesso che è venuto fuori della mia pancia voglio godermelo, ammirarlo, accarezzarlo. Vero che ho fatto una bella creatura?» chiese abbozzando un sorriso.

    «E’ un capolavoro, il nostro Ignazio».

    Lo chiamarono Ignazio, come il padre di Teresa: Nassiu Serra.

    «Dalla cucina sentivo le tue grida e mi mordevo le labbra, nervosamente, per non poterti essere d’aiuto. Spero che Ignazio cresca sano, che non conosca nessuna guerra e che abbia anche un po’ di fortuna».

    Si chinò di nuovo a baciare la moglie sulla fronte, dopodiché la lasciò sola col bambino a riposare. Tornò in cucina, si versò un bicchiere d’acqua fresca dalla brocca, uscì in cortile e si sedette allungando le gambe per rilassarsi e respirare l’aria fresca della sera.

    Erano trascorse alcune ore dalla nascita del figlio e nella stanza da letto l’atmosfera s’era fatta più dolce: Teresa si era assopita e respirava lieve, il viso rilassato. Bachis si sedette accanto e la accarezzò dolcemente, indugiando con lo sguardo sul viso delicato di suo figlio, beatamente addormentato. Avrebbe voluto prenderlo in braccio, ma ebbe paura che potesse prender freddo.

    «Piccino mio, non puoi sapere che mondo difficile ti attende» gli sussurrò, nel silenzio della stanza filtrata da un raggio di luna che penetrava dalla finestra semichiusa. «Ma babbo ti promette che cercherà di essere un buon genitore, anche se in queste condizioni a esserlo veramente occorre tanta caparbietà, una buona dose d’ottimismo e un pizzico di fortuna» aggiunse, e, allungando la mano sul lembo del lenzuolo che copriva il bambino, legò sulla culla unu pinnatzeddu²⁸.

    *

    La nascita di Ignazio coincise con la solenne cerimonia che si era svolta al Quirinale, dove Vittorio Emanuele III attestò la sua gratitudine a Mussolini assegnandogli la gran croce dell’ordine militare di Savoia poiché da Ministro delle forze armate preparò, condusse e vinse la più grande guerra coloniale. Guerra che egli, Capo del governo del Re, intuì e volle per il prestigio, la vita e la grandezza della Patria fascista.

    Bachis Pau seppe dell’evento storico leggendo, con un senso di irritazione, il giornale provinciale che arrivò da Cagliari col treno a scartamento ridotto. Nella sua mente tornarono le immagini delle decine di soldati che vide morire durante la guerra coloniale: E’ un’onorificenza che gronda sangue pensava rabbrividendo una concomitanza che, se avessi potuto, avrei evitato sicuramente. Da quel che ho letto mi convinco sempre di più che Mussolini sia un personaggio poco affidabile e, se continua ad agitare le masse dei giovani in quel modo, c’è solo da preoccuparci continuava a ragionare tra sé.

    Il coraggio e l’ottimismo a lui non mancavano, tuttavia, avvertendo che le cose potevano peggiorare, pensava che quelle sole virtù non sarebbero bastate a liberarlo dalle preoccupazioni che nutriva per il figlio. Al Montegranatico guadagnava un magro salario e benché Teresa lo amministrasse con gran parsimonia, non riusciva a metterne da parte un centesimo per ampliare la casa come avrebbe voluto. La domenica non lavorava più da un po’ di tempo, perché così avevano deciso in Municipio, senza una giustificazione plausibile e perciò nella paga venivano a mancare anche quelle poche lire di straordinario. E appunto per questo cercava di rimediare andando nel bosco di Narti a far le fascine che servivano per cuocere il pane e per il fuoco. L’idea che un giorno anche suo figlio dovesse andare per boschi a raccogliere legna, la esorcizzava concentrando la mente su altri progetti ambiziosi. Aveva giurato a se stesso che i soldi necessari per mandarlo a studiare a Cagliari li avrebbe messi da parte a ogni costo.

    Prima d’ogni altra cosa ripeteva a se stesso, come a voler rafforzare l’intendimento, per mio figlio ci dovrà essere la scuola, anche a costo di spaccarmi la schiena lavorando nei campi la domenica.

    Voleva che Ignazio diventasse persona colta, che acquisisse le conoscenze per vivere con dignità. Desiderava esser fiero di lui, come lo era della moglie.

    Se questo la sorte mi concederà, anche tutto il resto nella vita avrà maggior valore ripeteva nel silenzio della stanza.

    ¹ Restare a poltrire non sono capace

    ² Dopo attizzo il fuoco e metto l’acqua a scaldare

    ³ Dio gliene renda grazie comare mia

    ⁴ Ruscello

    ⁵ La vita mia, come lei sa, è fatta di tristezza nera

    ⁶ La guerra

    ⁷ Mio marito

    ⁸ Fucile

    ⁹ A me la paura mi faceva il cervello come una pentola in

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