Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Avevo 20 anni nel '68
Avevo 20 anni nel '68
Avevo 20 anni nel '68
E-book297 pagine4 ore

Avevo 20 anni nel '68

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Aver avuto 20 anni nel 1968 per molti di noi ha significato crescere respirando speranza.
 Non la stessa speranza uguale per tutti ma speranze diverse, fluide e meno fluide, collettive e individuali, sentimentali oppure ideologiche, politiche come lavorative. Ho voluto ricordarlo in questi piccoli racconti personali, ma credo, a modo loro, anche simbolici, perché hanno rappresentato momenti importanti della mia vita dove ho sempre mescolato il pubblico col privato, il mestiere di giornalista con quello di madre, figlia perfino moglie da 50 anni dello stesso marito.
La speranza, per la nostra generazione, anche di fronte ai continui disastri, battaglie, stragi, terremoti e alluvioni, diverse sconfitte e qualche vittoria civile, soprattutto per noi donne, è stata il tesoretto cui spesso abbiamo fatto ricorso. Conserviamola bene.
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2021
ISBN9791280184658
Avevo 20 anni nel '68

Correlato a Avevo 20 anni nel '68

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Avevo 20 anni nel '68

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Avevo 20 anni nel '68 - Simonetta Robiony

    www.edizioniallaround.it

    Alla generazione futura

    Ci hanno chiamato baby boomers perché tanti di noi siamo nati nel dopo-guerra, ricevendo l’energia di padri e madri che erano sopravvissuti a quello sfacelo.

    Vero, l’Italia cresceva economicamente ma noi volevamo anche altro. E protestando, contestando, rivoltandoci in famiglia, scendendo in piazza, non tutti, ma molti, abbiamo ottenuto una svolta nella società che ne ha cambiato i costumi.

    Il divorzio che ha messo fine all’ipocrisia di matrimoni finiti, contestatissimo e solo dopo un referendum confermativo diventato legge.

    Lo Statuto dei lavoratori, il riconoscimento che la sessualità fosse esercitata da maschi e femmine e non solo dai maschi, la fine della prostituzione controllata dallo Stato, l’obbligo scolastico esteso ai 14 anni in una scuola media uguale per tutti, l’apertura dell’università agli studenti di ogni corso, il nuovo diritto di famiglia che ha rappresentato un passo avanti per la dignità femminile, la possibilità per la donna di interrompere, per sua scelta, una gravidanza indesiderata, il servizio civile che cancellava quello militare obbligatorio riservato agli uomini, molte carriere aperte, piano piano, anche alle donne, la facoltà di trovare un lavoro speso dignitoso.

    Siamo stati una generazione fortunata, nonostante tutto, terrorismo compreso.

    Vero. Molto resta da fare e ora tocca a chi è venuto dopo, anche se, perfino oggi, noi nati allora, non abbiamo mai smesso di sognare un mondo migliore.

    Introduzione

    Il primo segno fu l’addio ai linotipisti, un gruppo di uomini che trasformava i nostri articoli battuti a macchina in schede perforate da mandare alla sede centrale. Erano arrivati i computer. Il loro lavoro non serviva più, anche se erano bravissimi a decifrare le nostre correzioni scritte a mano, cosa che con il computer dovevamo provvedere a far da soli perdendoci tempo.

    La Stampa è stato il primo quotidiano italiano a installare i computer. Una scelta ovvia visto che l’avvocato Agnelli aveva una madre americana e spesso si trasferiva da Torino nel suo appartamento di New York: il giornale era il suo giocattolone e lo voleva alla moda. In principio fu un po’ faticoso, poi scoprimmo che era un vantaggio: cancellare tutto senza lasciare traccia e ricominciare con una frase più corretta può essere fonte di soddisfazione.

    Lentamente, molto lentamente, cominciammo anche noi ad accorgerci che il mondo si stava globalizzando. Eravamo sempre più connessi. La finanza lavorava a ritmi da forsennati. Nascevano i social, i giornali on line, le chat, video di ogni genere, rassegne di film: arrivarono poi gli acquisti via internet, un vero miracolo. Potevi comprare il caviale in Iran, i cannoli in Sicilia, i libri dalle case editrici, la carta per la stampante in Germania, le camicie negli Stati Uniti e tutto ti arrivava a casa risparmiando e in tempi rapidissimi. Non che prima non ci fossero scambi tra paesi lontanissimi, ma adesso tutto si era avvicinato e le novità si susseguivano alle novità.

    L’archivista fu spedito a casa: non serviva più collezionare articoli che lui trovava in pochi minuti: si consultava wikipedia e via. Ma anche questo comportava per noi giornalisti tempo aggiuntivo. Intanto cominciavano a calare le vendite dei giornali e la pubblicità finiva su internet. Le fabbriche, anche quelle che come la Fiat facevano auto, iniziarono a essere robotizzate: meno fatica di braccia, più turni di lavorazione, ma posti persi: chi andava in pensione non veniva sostituito da un giovane. Il sindacato si indeboliva: i contratti diventavano a tempo variabile, si moltiplicavano i lavoretti: portare le pizze o i kebab in bici ai clienti che li avevano ordinati, abbandonare il ristorante familiare per sceglierne uno più originale, più chic, che provvedeva a farti arrivare a casa la cena, uscire di meno perché i canali e le piattaforme trasmettevano sempre più serie internazionali ricche e fascinose.

    Solo i ragazzi abbandonavano di notte la famiglia per andarsene a bere birre e a fumare spinelli nei tanti localini che si moltiplicavano come funghi, creando infinite vie della movida in ogni città. Eppure si continuava a credere nelle magnifiche forze e progressive che lo sviluppo inarrestabile avrebbe portato in mezzo mondo. Su noi umani, però, si affacciavano nuovi rischi inattesi: il clima con i suoi mutamenti, le bombe d’acqua, le frane, il buco nell’ozono, l’inquinamento dei fiumi e dei mari, gli allevamenti di suini che incattivivano l’aria, la carne bovina gonfiata con gli ormoni, la frutta raccolta non matura o peggio lasciata marcire sui rami, i pomodori che non sapevano di niente perché venivano da lontano, l’incremento delle malattie polmonari.

    Cresceva il bisogno di energia parallelamente alla crescita che tutta questa energia potesse nuocere alla nostra salute. Il carbone no, chiudiamo le miniere. Il nucleare no: dopo Chernobyl non se ne parla. L’eolico con le sue enormi pale no: deturpa il paesaggio. Il solare va bene ma è insufficiente per la grande industria. Il movimento delle onde del mare va studiato. Il petrolio, che comunque inquina, potrebbe perfino finire a meno che non lo si cerchi nei fondali più profondi mettendo in crisi l’ecosistema. Gli scienziati lanciavano e lanciano tuttora allarmi inascoltati, ma la soluzione non c’è. Nonostante Greta, la piccola Greta che ha scosso le coscienze ma non ha smosso Trump, il presidente degli Stati Uniti. Sulla terra siamo diventati 8 miliardi, veramente tanti. Si fanno meno figli ma alcuni, non pochi, soffrono ancora la fame, le città sono diventate megalopoli con periferie arrampicate su montagne di spazzatura, ma è cresciuto il volontariato, la medicina fa continui progressi, perfino in Africa si aprono ospedali. Il Pil, il maledetto Pil dei Paesi più disagiati cresce, il nostro, quello italiano specialmente, no. Cresce, però il debito pubblico.

    La Cina che 50 anni fa era agricola e disgraziata, si avvia a diventare la nazione più avanzata, sempre ufficialmente comunista ma con molti miliardari in giro e un partito unico di stampo dittatoriale. L’Europa, il grande sogno dell’Europa unita, sembra spegnersi tra egoismi e miserie nazionaliste. L’Italia, la nostra Italia, occupa posti sempre più bassi nelle classifiche internazionali. Ha punte di eccellenza ma la pubblica amministrazione agonizza, la modernizzazione portata dai computer è disfunzionale, nessuno sa o vuole un termovalorizzatore per bruciare la spazzatura vicino al suo paese, le strade sono sconnesse e poco curate, i treni ad alta velocità scarsi e contestati perché mutano il paesaggio, quelli a bassa velocità sono carrozze sporche, affollate, imprecise, lente. L’Europa dice che abbiamo pochi laureati ma i laureati non trovano facilmente un posto. Molti giovani emigrano. Le donne, soprattutto al sud, sono disoccupate. Il lavoro nero dilaga. Non vogliamo gli emigranti ma senza di loro l’agricoltura, l’edilizia, il piccolissimo commercio vanno in malora.

    Si moltiplicano i lussuosi centri commerciali dal gusto pacchiano alla texana e si moltiplicano i mercatini di quartiere con bancarelle che vendono cose alla moda arrivate dall’Asia a prezzi stracciati cui è difficile resistere. La delinquenza organizzata si infiltra dappertutto: compra da negozianti in crisi, ripulisce il denaro sporco, rivende a chi si illude di poter fare il commerciante. Nuove leggi si sovrappongono a vecchie leggi rendendo sempre meno appetibile agli stranieri investire in Italia dove una causa civile dura anni, anche decenni. La crisi finanziaria che ha colpito il mondo a partire dai Lehman-Brothers a New York trascinando ovunque nel fallimento banche e investitori, ha fatto crescere la disoccupazione giovanile e la disaffezione verso la scuola.

    L’epidemia di Coronavirus ci ha dato un colpo ulteriore. Facciamo pochissimi figli, non crediamo più in una unione sentimentale stabile, i nipoti vivono con gli aiuti dei nonni: ma se diminuisce il numero di chi versa i contributi come verranno pagate le pensioni future?

    Mi sembra di vivere nell’Inghilterra del settecento quando arrivarono le prime macchine a vapore e dilagarono povertà, delinquenza, miseria. Improvvisamente mi sono sentita molto fortunata. Ho vissuto senza avere una guerra in casa, anche se nel mondo, a partire dal Vietnam, guerre ce n’erano. Ho superato il terrorismo con le sue decine di morti e mantenuto la libertà. Ho trovato un lavoro senza neanche cercarlo. Ho conosciuto una Roma bellissima ricca di fervore creativo. Ho constatato che i diritti delle donne potevano allargarsi nonostante non siano cessati né le molestie, né i femminicidi e anche gli stereotipi intorno alla figura femminile. Ho potuto avere due figli senza affrontare sacrifici insormontabili. Ho comprato due appartamenti e una villa al mare. Non ho conosciuto la paura. Ho partecipato a marce e proteste per cause che credevo giuste. Era un paradiso? No.

    Ho scoperto il dilagare della corruzione politica e non. Ho tifato per i processi di Mani Pulite conclusi senza mutare il costume del Paese. Ho sofferto per l’assassinio dei due fratelli Kennedy. Ho visto il presidente del Consiglio Craxi fuggire in Tunisia per non finire in carcere, ho visto il presidente della Repubblica Leone costretto a dare le dimissioni per una corruzione che non c’era, ho visto Aldo Moro che avrebbe voluto un paese capace di alternare al governo oggi la Dc domani il Pci di Berlinguer rapito e trucidato dalle Brigate rosse e non solo da loro. Ho visto Andreotti, nel governo dai tempi di De Gasperi, non condannato ma riconosciuto colpevole in anni ormai lontani di partecipazione esterna alla mafia. Ho visto le stragi neofasciste con l’appoggio dei servizi segreti da piazza Fontana in avanti, la fine tragica di Falcone, Borsellino e di tanti altri servitori dello Stato che provavano a combattere il malaffare. Ho visto l’alluvione di Firenze, il terremoto in Sicilia, il disfacimento di L’Aquila. È caduta perfino la grande Urss permettendo alla Germania di tornare unita, è rinato il conflitto tra cristiani i islamisti o meglio tra fondamentalisti arabi e europei laici. Eppure in me c’era sempre l’idea di un domani.

    Un domani che mi facesse coltivare la speranza che le cose, perfino in Italia, potessero migliorare. Non ho mai smesso di sperare. È per questa ragione, credo, che ho scritto alcuni raccontini in prima persona, mescolando ricordi del mio lavoro da giornalista a ricordi della mia vita in famiglia perché, come dicevamo nel ’68, il privato è politico. Non li ho scritti certo per fare la mia biografia che non interessa e non deve interessare nessuno. Ma per lasciare la testimonianza di una vita comune che fino all’arrivo di questo nuovo millennio mi aveva fatto credere che se si desidera qualcosa, si studia per ottenerla, ci si sacrifica per mantenere fisso l’obiettivo, è possibile riuscirci. Io volevo fare la giornalista e l’ho fatto.

    Oggi intorno a me vedo solo precari pagati poco o niente, a casa con i genitori, disillusi, stanchi, frustrati. Qualcuno riesce a emergere ma molti si arrendono o scappano all’estero. Forse oggi direi che quello in cui ho creduto era possibile allora ma non lo è più possibile oggi. Non voglio, però, scrivere questo verbo al passato. Mi mette tristezza. In fondo sono sempre una ragazza degli anni Sessanta. E mi immagino, in un futuro lontano, lontanissimo, un mondo in cui tutte le etnie per via delle migrazioni, della globalizzazione, delle connessioni, dei viaggi, tanti viaggi, saranno mescolate: avremo tutti la pelle dello stesso colore, un marroncino chiaro perché gli indiani e gli svedesi, gli africani e gli asiatici, gli australiani e i latini ormai saranno diventati tutti uguali. Il Brasile, in fondo, è già questo. Potrebbe accadere dappertutto.

    Le origini

    Sono nata con la Costituzione repubblicana il 10 gennaio del 1948 a Napoli e forse sarà per questo che, pur divertendomi molto alle vicende dei pochi reali rimasti in Europa, non ho mai avuto tentazioni monarchiche. Se poi penso che un nostro ipotetico re avrebbe dovuto essere uno di Casa Savoia, l’idea mi appare perfino ridicola.

    La guerra non l’ho vista, è vero, ma ho visto le conseguenze della guerra e quelle me le ricordo. Mio padre e mia madre appartenevano alla così detta buona borghesia napoletana ma per ragioni diverse, in parte personali e in parte collettive, da agiati che erano, divennero poveri o comunque senza più una lira da spendere. Mio padre era figlio di un importante notaio, francese per parte di padre e tedesco da parte di madre, un nonno che è morto poco dopo la mia nascita, quando aveva appena riaperto lo studio e ricominciato e ricevere qualche cliente. Aveva investito il suo capitale in titoli di Stato che furono azzerati dopo la guerra e in quadri della Scuola di Posillipo, molti dei quali venduti negli anni in cui era stato sfollato con la famiglia a Gesualdo, un paesino dell’avellinese. Possedeva un bell’appartamento a piazza Amedeo, nella zona elegante di Napoli, ma lo aveva dato in dote alla figlia per il suo matrimonio, quindi mio padre e suo fratello, alla sua morte, si erano potuti spartire solo il mobilio.

    Mio padre, che era stato ufficiale nell’artiglieria, si era laureato in agraria all’università di Portici con l’ambizione di andare nelle colonie africane del nostro impero a sperimentare nuove forme di coltivazione adatte a quei terreni aridi. Persa la guerra aveva tentato la carriera universitaria ma, nonostante fosse uno specialista in microbiologia, il suo professore l’aveva dissuaso spiegandogli che il posto di assistente l’avrebbe dato al fidanzato della figlia: «Capiscimi! Una figlia tengo e fino a oggi non se l’è presa nessuno».

    Mia madre aveva studiato pianoforte al conservatorio San Pietro a Maiella vincendo i Littoriali istituiti dal fascismo come migliore pianista di Italia e cominciando subito a dare concerti. Sognava una carriera internazionale che le avrebbe procurato soddisfazioni e successo: i figli, se fossero nati dal suo matrimonio con mio padre, li avrebbe cresciuti una bambinaia che, chissà perché, mia madre aveva deciso sarebbe stata svizzera. Si sposarono come due studenti, senza un lavoro né lui né lei, e andarono a vivere nella grande casa del Vomero con la mia nonna materna che ormai possedeva solo un pezzetto di terra a Ponticelli.

    In casa con la nonna c’era il nonno che era stato avvocato ma si era ammalato e aveva perso il senno, la sorella della mamma, una zia rimasta sempre nubile che insegnava ed era l’unica ad avere uno stipendio, più il fratello della mamma, partito volontario come paracadutista per l’Africa, rimasto prigioniero degli inglesi fino al 1946 dopo la battaglia di El Alamein, ancora studente di legge.

    Il nonno stava sempre seduto in poltrona e urlando chiedeva: «Che si mangia oggi?». Questo era tutto.

    Io sono nata in una casa dove aleggiavano speranze giovanili di grandezza ma dove si faceva fatica a mettere a tavola un pranzo completo. Di tutto quello che era stato in passato rimaneva solo lo stile. La casa, una casa comprata e mai usata dal nonno per andarci un paio di mesi l’anno, quando il caldo nel centro di Napoli dove abitavano si faceva più intenso, essendo vuota era stata occupata dalle truppe americane che si erano comportate come fanno i soldati sotto una tenda. I pavimenti erano dissestati e dalle mattonelle sbreccate uscivano grossi scarafaggi che la nonna combatteva col Ddt, prima che fosse tolto dal commercio perché nocivo. Il riscaldamento centralizzato era fuori uso da tempo: ci si arrangiava con le stufe elettriche e con antichi ferri da stiro pesanti messi sul fuoco a riscaldarsi e poi infilati tra le lenzuola che sembravano sempre umide. Le finestre avevano pezzi dei vetri saltati via per qualche bombardamento nelle vicinanze: a sostituirli pagine di giornali attaccati col nastro adesivo.

    Prima di finire sfollati a Striano, un paese dell’area vesuviana in cui mia nonna aveva dei lontani cugini, il ricco arredo della casa di piazza Municipio dove vivevano era stato imballato dalla Gondrand per essere seppellito nel giardino del cugino notaio, nel centro del paese. A guerra finita alcuni mobili erano stati ritrovati e sistemati nell’appartamento del Vomero, altri no perché rubati dai contadini che avevano assistito allo scavo. I divani non c’erano più: da un saponaro, ovvero un robivecchi, ne avevano comprato un paio con le molle a terra: ci si sedeva mettendoci sopra dei cuscini. La cucina era scomparsa, sostituita da mensole e pensili raccattati e ridipinti da mia zia in bianco e rosso per fingere una omogeneità inesistente: anche il sopravvissuto frigorifero, unico pezzo superstite, aveva subito lo stesso trattamento.

    Si aspettavano i soldi dei danni di guerra per risistemare l’appartamento. Mia nonna non ne poteva più di attendere: «Ma quando arriva ’sto rimborso per i danni di guerra?», ripeteva ogni anno delusa dal non riceverlo. Era una casa disastrata ma affacciava sul giardino di villa Maio dagli alberi alti e verdissimi, prima che anche quello non diventasse preda della speculazione edilizia cancellando il panorama. Spesso a casa mancava l’acqua corrente perché i bombardamenti avevano danneggiato i condotti. Allora si doveva scendere in strada e mettersi in fila con fiaschi e bottiglie davanti a una fontanella dove le litigate tra le donne del popolo finivano a capelli e perfino con i fiaschi impagliati rotti in testa per conquistare un posto più avanzato.

    No. La guerra non l’ho vista ma ho visto tutto il resto. Anche i miglioramenti. Mio padre che trovò un modesto impiego. Mio zio che diventò avvocato e si sposò lasciando la famiglia. Mia madre che mise al mondo mio fratello. Mia nonna che a forza di urla e strepiti, in un napoletano dai suoni gutturali e incomprensibili, riusciva a farsi dare a Natale e a Pasqua l’affitto dai mezzadri che ogni volta si lamentavano o perché era piovuto troppo o perché era piovuto troppo poco e il raccolto, comunque, era stato scarso. Nonostante tutto sono stata cresciuta con grandissima cura e attenzione: mia madre, che aveva rinunciato al pianoforte perché, diceva: «O ci si esercita sette ore al giorno oppure suonare è strimpellare» ma che piangeva quando sentiva un concerto alla radio, aveva preso il posto della bonne svizzera che avrebbe voluto avere. Per di più si era messa a studiare manuali divulgativi di psicologia infantile, pedagogia, pediatria, per essere all’altezza del suo nuovo ruolo. Pappe e sonno a orari fissi. Passeggiate quotidiane dentro la Floridiana, la splendida villa che il re Ferdinando di Borbone aveva regalato alla moglie morganatica Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia.

    Regolari visite dallo zio di mio padre che era un grande pediatra ed era convinto che per crescere in salute ai bambini servisse aria aperta, abiti leggeri, molto mare. E quindi, appena cominciava l’estate, dal Vomero che è in collina, mia madre e mia zia, a piedi, si precipitavano per vicoli e scalette alla Pignasecca, nel cuore di Napoli, per prendere un trenino che si chiamava Cumana e arrivare sulla spiaggia di Lucrino, la vera prima grande spiaggia vicino Napoli, visto che quella di Coroglio, sotto Posillipo, era occupata dall’Ilva di Bagnoli e da altra aziende. Tuttora la bonifica di Coroglio, nonostante non ci sia più alcuna traccia di industrializzazione, non è stata completata.

    A cinque anni sono arrivata a Roma con la mia famiglia. Papà, grazie a un parente medico, era stato assunto all’Inail, l’istituto che assicura i lavoratori colpiti da infortuni, come esperto in agraria: aveva uno stipendio fisso e un appartamentino in un quartiere in tumultuosa crescita vicino a via Nomentana, una casa che l’ente affittava a due lire ai dipendenti. Oggi si chiamerebbe un fringe benefit.

    Roma era ed è assai diversa da Napoli. A Roma ho avuto il primo cappotto della mia vita e il primo cappello di lana perché l’umidità si faceva sentire la mattina, quando andavo all’asilo. L’appartamento, pur avendo quattro stanze, mi appariva piccolissimo rispetto a quella della nonna. Era in una periferia vicina al fiume Aniene dove crescevano palazzi e palazzoni per rispondere al bisogno di alloggi dovuto all’aumento disordinato della popolazione. Fiaccati dalla guerra, impoveriti dai bombardamenti, privati di un lavoro, migliaia di italiani si riversavano a Roma, la capitale, sperando in un destino migliore.

    Anche Napoli fu sottoposta a uno sfruttamento edilizio dissennato, ma mentre Roma si allargava in cerchi perché intorno aveva la campagna, Napoli si affollava sulle colline costruendo palazzi uno appiccicato all’altro, quasi a formare un muraglione. Per strada, a Roma, specie nelle vie del centro, si vedevano frotte di preti e di suore, alcuni con la tunica rossa, quelli che a me piacevano di più: la presenza del Vaticano e delle sue tante università si avvertiva in maniera prepotente. A Napoli, per strada, si vedevano, invece, militari americani in divisa e grossi poliziotti, spesso di pelle nera, della Military police che giravano con uno sfollagente in mano per controllare i loro soldati. Aver fatto di Napoli la base della Nato era talmente evidente che un intero quartiere di Posillipo aveva negozi con l’insegna in americano che vendevano merci provenienti dagli Stati Uniti, in più c’era la porta-aerei Enterprise, fissa al largo nel golfo, che faceva ormai parte del paesaggio come il Vesuvio.

    Roma era piena di alberi e di ville ma buia perché le lampadine stradali, poche e fioche, finivano nascoste dal fogliame. Napoli aveva pochissimo verde ma le vie luccicavano di luci rosse e gialle accese sopra l’ingresso delle botteghe. A Napoli non vedevo mai mio padre perché tornava dal lavoro quando già noi bambini eravamo a letto a dormire. A Roma ho cominciato a conoscerlo e a uscire con lui che, conquistato dalla bellezza monumentale della città, ci portava in giro per farcela ammirare. Ai musei, allora, andava pochissima gente, non come oggi che per entrare si fa la fila, tanto che alla Galleria Borghese mio fratello e io giocavamo a nascondino. La mia passione per gallerie, chiese e musei la devo a lui. A Roma avevamo una cameriera che dormiva con noi bambini e dopo pranzo ci portava al parco ma mia madre, che pure si concedeva questo piccolo lusso, metteva una cartolina nelle scarpe per non doverle portare dal calzolaio a risuolarle. Il consumismo non era ancora arrivato, i vestiti e le scarpe costavano molto, le vetrine offrivano pochi abiti in mostra e i capi belli si potevano vedere solo nelle vie intorno a piazza di Spagna.

    I supermercati non esistevano: per far la spesa c’erano i banchi dei mercatini rionali, mentre a Napoli c’erano le botteghe con la merce esposta fuori. Roma era una città di colore arancio, una tonalità voluta dai Savoia in ricordo della Roma antica fatta di mattoni, con qualche palazzo moderno grigio chiaro e sopra molti portoni scritte in latino volute dal fascismo in segno di trionfo. Napoli era una città un po’ grigia e un po’ gialla, con alcune case rosa, verdine, celesti e qualche palazzo aristocratico dipinto in rosso pompeiano in memoria del regno borbonico. A Napoli i palazzi bombardati vuoti o puntellati erano ancora molti, a Roma no, i segni dei bombardamenti bisognava cercarli.

    A Roma mia madre mi aveva iscritto a una scuola di suore inglesi perché imparassi subito la lingua, ma a me quella scuola non piaceva affatto. Si andava in chiesa tre volte al giorno: all’ingresso, alla ricreazione, all’uscita, troppe per me. Per di più, durante l’intervallo, giocavamo con la sabbia che mi entrava nei calzini creando un insostenibile prurito e, dal momento che mi toglievo scarpe e calze ma non le sapevo rimettere, le suore mi lasciavano a piedi nudi finché non arrivava mia madre a rivestirmi. L’odio per quella scuola fu talmente violento che mamma dovette mandarmi a una pubblica. Fu la mia fortuna: la mia maestra era stata una allieva di Maria Montessori e mi ha insegnato ad aver fiducia nelle mie capacità creative, incoraggiandomi sempre e usando un metodo didattico che non annoiava mai. Del resto perché avrei dovuto andare a scuola dalle suore solo perché mia madre ai suoi tempi c’era andata?

    Noi eravamo una famiglia laica. Papà era socialista, prestava la sua competenza alla commissione Nocività e Ambiente della Cgil, cominciava ad andare in Svizzera, a Ginevra, al Bureau International du Travail dell’Onu in rappresentanza dell’Italia, era un consulente agronomo nelle cause che la magistratura doveva affrontare in quello specifico settore, dava lezioni all’Istituto tecnico di agraria, godeva di una grande libertà dall’Inail e il nostro benessere in famiglia cominciava ad aumentare. Dalla Svizzera ci portava grosse tavolette di cioccolata e qualche volta un orologio, dalla Calabria, dove era amministratore giudiziario di una azienda agricola, ottimi fichi secchi infilzati su spiedini di legno.

    Restava un problema: la mamma faceva fatica a cambiare le abitudini con cui era stata cresciuta e quindi, anche se la ricchezza di cui aveva goduto era sparita, pur essendo una donna all’avanguardia, non riusciva a rinunciare a certe prerogative di classe. Le lezioni private di inglese per noi bambini, la palestra altrettanto privata sempre per noi, pochissimi abiti per lei ma di gran qualità, una o due belle borse di Fendi, occhiali da sole alla moda. Non aveva più i lunghi capelli neri intrecciati a nodo sulla nuca, ma li portava corti come aveva visto fare a Audrey Hepburn in Vacanze romane. Frequentava poche coppie di amici, mai invitati a pranzo, però, ma solo nel dopocena in cui offriva cioccolatini e liquori. La televisione si iniziava a vedere nelle vetrine dei negozi di elettrodomestici davanti ai quali si formava una piccola folla attratta da quelle

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1