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101 modi per liberare il genio che è in te
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101 modi per liberare il genio che è in te
E-book375 pagine6 ore

101 modi per liberare il genio che è in te

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Info su questo ebook

Lasciati andare e riconquista il genio che è in te!

Scatena la tua creatività!

Genio non è solo chi firma un capolavoro, ma anche chi, giorno dopo giorno, sa ridare colore e vivacità alla propria vita. Non è una questione di Quoziente Intellettivo ma di Quoziente Innovativo: imparare a guardare a concetti noti con uno sguardo aperto e curioso ci avvicina al “genio” più di quanto crediamo. I bambini su questo tema hanno molto da insegnare a noi adulti che nel tempo disimpariamo a rischiare e a esplorare. 101 modi per liberare il genio che è in te è un prezioso manuale dedicato a tutti coloro che vogliono riscoprire il proprio talento, sommerso sotto strati di rinunce e giudizi, e desiderano ricominciare a giocare come si faceva da piccoli: molto seriamente!

Carlotta Rizzo
nata a Napoli, vive a Roma dal 1990. Laureata in Psicologia clinica, è specializzata in Psicoterapia, Psicodiagnostica, Coaching e Psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Dal 1995 ha collaborato con l’Università “La Sapienza”, occupandosi di formazione, diagnosi e ricerca in campo psicosociale. Dal 2006 è docente alla Scuola Romana di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni. È membro della SCP Italy (Society for Coaching Psycology Italy).
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2014
ISBN9788854166554
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    101 modi per liberare il genio che è in te - Carlotta Rizzo

    PARTE PRIMA

    Individuare gli ostacoli

    a25

    1. Incompetenza socratica

    L’esperienza è il tipo di insegnante più difficile.

    Prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione.

    OSCAR WILDE

    «So di non sapere», diceva Socrate. Questa frase, attribuita a uno dei più grandi filosofi e pensatori della nostra civiltà, ergeva la consapevolezza della nostra estrema ignoranza a massima di vita. Essere coscienti di sapere pochissimo, rispetto a ciò che ogni uomo potrebbe conoscere è, insieme, bagno di umiltà e motore di conoscenza. La sottoscritta, nella certezza di essere in buona compagnia, pensa che questa frase sia un invito a progredire sul cammino della conoscenza e dell’esplorazione ben sapendo che più conosciamo, più comprendiamo quante cose ancora dovremmo apprendere…

    Ci sono poi alcuni personaggi assurti agli onori della cronaca i quali si fermano volentieri alla soglia della non conoscenza perché si sono seduti sulla prima panchina incontrata nel giardino della scoperta. Più impegnati a riposare che a esplorare i prati che li circondano pensano: Perché iniziare a esplorare se tanto comunque il giardino nella sua interezza non lo conosceremo mai?.

    Questo atteggiamento è particolarmente diffuso quando entrano in gioco i comportamenti. Siccome apprendere nuovi comportamenti, o cambiare atteggiamenti che ci appiano disfunzionali, è un lavoro difficile che richiede molta pazienza e tenacia, si tende a fermarsi ancor prima di partire con motivazioni tipiche: «è il mio carattere», «sono fatto così». In tal modo si evita qualunque tentativo di lavorare su se stessi.

    Vale, forse, la pena di ricordare quali sono le modalità di apprendimento di ogni nuovo comportamento. Ogniqualvolta ci accingiamo ad acquisire un nuovo atteggiamento percorriamo dei gradini sequenziali. Torniamo con il pensiero a quando siamo nati, e la nostra incompetenza iniziale, non solo veniva pienamente giustificata, ma addirittura c’era chi si prendeva cura di noi al punto tale da non farci nemmeno percepire questo gap. C’era chi ci nutriva, lavava, vestiva, cullava e noi (quale beatitudine!) non venivamo confrontati con i nostri limiti. Non sapevamo di non sapere… Eravamo nello stadio dell’incompetenza inconsapevole.

    Cresciuti un po’, iniziavamo a misurarci con la necessità e spesso anche la voglia di apprendere nuovi modi che, anche quando molto semplici (ad esempio allacciarsi le scarpe o imparare a leggere le lancette dell’orologio) richiedevano un po’ di impegno per essere acquisiti. Eravamo entrati nello stadio dell’incompetenza consapevole. Ormai consci dei nostri limiti sapevamo di non sapere. Alcune persone si fermano a questo stadio anche in età adulta. Pensiamo, ad esempio, ad alcuni personaggi da reality che fanno della propria incompetenza motivo di vanto. Soprattutto quando riguarda la possibile acquisizione di nuovi comportamenti: «Io sono me stesso», è una frase ripetuta fino allo sfinimento da persone che, così dicendo, intendono, con orgoglio un po’ ottuso, che essere così come sono, indipendentemente da persone e contesti, sia un valore. Un inno alla staticità e al primato dell’Io che non si occupa del mondo esterno. Un po’ come andare in autostrada contromano deridendo tutti coloro che dal nostro punto di vista vanno al contrario!

    Torneremo sul sestessismo come valore assoluto in un secondo momento (è un fenomeno che vale la pena esplorare con maggiore attenzione) per limitarci ora a constatarne (ahinoi!) l’esistenza.

    Passiamo quindi al terzo stadio evolutivo dell’apprendimento di nuove competenze. A meno che non decidiamo di furoreggiare in un reality o fondare un gruppo che proponga il bullismo come modalità di interazione prevalente con il prossimo, abbiamo buone possibilità di incontrare il terzo livello: competenza consapevole. È lo stadio nel quale, mentre apprendiamo un nuovo comportamento, ci osserviamo dall’esterno. Quando impariamo a guidare l’automobile o a suonare uno strumento musicale, siamo assolutamente concentrati sui nostri movimenti e consapevoli di ciò che accade mentre produciamo alcuni gesti. Guai a interromperci durante una manovra o l’esecuzione di un accordo! Prima che quell’abilità divenga naturale siamo totalmente concentrati sull’azione. Ora, proviamo a pensare questo tipo di concentrazione applicata all’acquisizione di un nuovo comportamento: diciamo la verità, ci si sente un po’ ridicoli! La prima volta che mi propongo di lavorare sulle mie modalità di comunicazione e mi scopro a pensare prima di parlare censurando la frase: «non sono d’accordo con te» a vantaggio della più utile: «non sono d’accordo con ciò che hai detto» mi sento un po’ sciocca e mi verrebbe da rifugiarmi nel così tanto amato spontaneismo. Mi giustificherei da sola, dicendomi che cambiare atteggiamento è difficile, che ci vuole troppo tempo, che tanto sono fatta così ma in realtà il motivo principale è che scoprirmi a pensare di comunicare in modo diverso dal solito, mi fa sentire un po’ stupida!

    2. Dall’incompetenza socratica alla competenza

    Il vero viaggio di scoperta,

    non consiste nel cercare nuove terre,

    ma nell’avere nuovi occhi.

    VOLTAIRE

    È a questo punto che la maggior parte delle persone si arena; se lavorate sullo sviluppo dei vostri collaboratori, colleghi, amici, figli, preparatevi a fronteggiare fiumi di: «Ma non è che così perdo la mia spontaneità?», «Il carattere non si modifica», «Ma perché poi uno dovrebbe essere diverso da quello che è?».

    Di volta in volta cercherete di far riflettere il vostro interlocutore circa il fatto che spontaneità non vuol dire spontaneismo e che essere se stessi, vuol dire anche e soprattutto, crescere, cambiare, apprendere nuove cose. Essere diversi da ciò che si è diventa un valore nel momento in cui ampliamo il nostro raggio d’azione. Se la natura ci avesse voluti sempre uguali a noi stessi non ci avrebbe concesso così tanti anni di vita (78 per gli uomini e 83 per le donne in media) «Diventa ciò che sei», la magnifica frase di Nietzsche è una sintesi eccezionale di una realtà: la vita è un lungo percorso teso a realizzare ciò che siamo. Raggiungiamo la nostra vera essenza alla fine, non all’inizio del nostro percorso. Essere se stessi vuol dire diventare, quindi cambiare. Le persone, spesso, hanno paura di cambiare. Soprattutto quando si tratta di mettere in atto nuovi modi di agire. Quei comportamenti disfunzionali tanto a lungo coltivati spesso rappresentano il passaggio a livello chiuso sui propri desideri. Spesso si ha paura di cambiare, si teme di scoprire che, nonostante le barriere possano essere superate, non si riuscirà comunque a raggiungere la meta agognata. Meglio restare fermi e inveire contro una barra a righe abbassata, ma conosciuta, anziché rischiare nuove modalità

    E ora, passiamo alla quarta fase dell’apprendimento. Ci eravamo lasciati impegnati durante le manovre di parcheggio di un’automobile o durante l’esecuzione di un accordo musicale di un brano, ad esempio, al pianoforte. La fase tre, quella della competenza consapevole, prevede un’attenzione focalizzata sul processo di apprendimento: sto attenta a ciò che faccio mentre lo faccio.

    Ripetendo più e più volte lo stesso processo arriverò finalmente allo stadio della Competenza Inconsapevole. A questo punto il nuovo comportamento sarà appreso al punto tale da divenire spontaneo. Posso guidare la macchina mentre parlo, ascolto musica, penso ad altro… Posso suonare uno strumento e, contemporaneamente, cantare una canzone. A questo livello la competenza non ha più bisogno di essere l’unica cosa sulla quale sono focalizzata, ma posso realizzare altre azioni in contemporanea.

    Nella interazione con l’altro, è il momento in cui non ho più bisogno di utilizzare un certo tipo di linguaggio o curare la scelta dei termini perché mi verrà naturale esprimermi nel modo più appropriato al contesto. Se non andiamo ad una serata di gala con le pantofole è perché lo abbiamo appreso e non perché lo abbiamo sempre saputo. La maggior parte delle cose che oggi ci sembra del tutto scontata un tempo non lo era affatto.

    Perché, invece, su linguaggio e comportamenti siamo sempre così pronti a giustificarci per non voler progredire? Perché in questo ambito spontaneità e spontaneismo sembrano essere la stessa cosa? Forse perché apparentemente lo scotto della nostra incompetenza relazionale lo pagano gli altri: i nostri interlocutori. È loro l’irritazione per la nostra mancanza di ascolto, è loro la scelta su come reagire alla nostra arroganza, è loro il problema di come ammorbidire la nostra rigidità. Il prezzo che paghiamo per le nostre incompetenze relazionali è un dazio sommerso del quale spesso non ci accorgiamo, a meno che qualcuno non ce lo faccia notare. La maggior parte dei conflitti e delle incomprensioni restano nascoste, a meno che non si tratti di relazioni davvero importanti; solo nel caso in cui l’altro tiene così tanto a noi da affrontare un discorso su temi così scivolosi saremo confrontati con i nostri limiti. In molti casi si parlerà del nostro cattivo comportamento con un terzo che mostrerà comprensione per l’accaduto e noi non avremo l’occasione di migliorare.

    Nel mondo del lavoro, molte relazioni sono fatte di momenti e non sempre sono costituite da rapporti profondi e duraturi. Quasi mai ci si è scelti, quindi le occasioni di incomprensione sono tante e di vario tipo. Aumentare il numero e la tipologia di attrezzi nella nostra cassetta da lavoro da artigiani delle relazioni può rappresentare un investimento che vale la pena di fare. Il punto è che finché si tratta di aumentare il nostro livello di abilità su questioni di tipo tecnico (come guidare la macchina o suonare uno strumento) la sfida appare piuttosto semplice anche perché più diffusa: tutti o quasi siamo spinti a guidare l’auto o motivati dal piacere di produrre buona musica. Quando si passa ad apprendere comportamenti, la tentazione di lasciar perdere è molto più forte. Cui prodest? A chi giova il cambiamento? Non sarà un investimento troppo costoso e dagli esiti troppo incerti? Nello stadio della competenza consapevole potrei avvertire il senso del ridicolo mentre mi osservo nel mettere in atto un comportamento mai sperimentato. È in quel momento che dovremmo porci una domanda: Siamo disposti a salire tutti e quattro i gradini della scala?.

    3. Nessuno ti può giudicare. Nemmeno tu!

    Non vale la pena avere la libertà

    se questo non implica avere la libertà di sbagliare.

    GANDHI

    Alzi la mano chi di noi, ai tempi della scuola, ha evitato di rispondere a una domanda dell’insegnante nel timore di sbagliare e poi, mentre era impegnato a guardarsi le scarpe, ha sentito la voce di un compagno di classe, forse più vivace e disinibito, che ha alzato (lui sì!) la mano e ha ripetuto la stessa risposta (esatta!) che avremmo dato noi, se avessimo avuto coraggio? Lo sapevo anch’io!, questo il nostro amaro pensiero o il sussurro al compagno di banco. La rinuncia alla partecipazione, al momentaneo cono di luce (rappresentato dagli occhi dell’insegnante e dei nostri compagni di classe) spesso ci ha fatto pentire di non esserci esposti.

    Ma da dove nasce questa ritrosia? Perché pur avendo tutte le carte in regola decidiamo di passare la mano? Il giudizio è uno degli ostacoli più difficili da superare. Nel viaggio verso l’espressione di ciò che siamo è una montagna da scalare, la più alta e impervia. Sotto questa mole possiamo riuscire a seppellire molte nostre caratteristiche: la nostra allegria, la voglia di esplorare, il gioco, l’inventiva e molte relazioni positive.

    Una delle tecniche utilizzate dai pubblicitari per favorire l’espressione della creatività è il brainstorming, letteralmente tempesta di cervelli. Con questa tecnica un gruppo di persone viene riunito e spronato a produrre più idee possibili intorno a un argomento. Un esempio potrebbe essere: trovare il nome di un profumo da donna diretto a un target di popolazione tra i venticinque e i quarant’anni, attento alle tendenze di moda e desideroso di trasmettere un’immagine raffinata. Il gruppo creativo viene riunito intorno a questo obiettivo e inizia a produrre idee in modo libero, procedendo per libere associazioni. Tra le prime regole del brainstorming c’è il tenere a freno il giudizio. All’inizio delle sessioni di lavoro infatti, è vietato esprimere pareri sulle proposte dei partecipanti al team. Ognuno propone delle idee, le informazioni circolano e, a mano a mano che si procede, il fiocco di neve iniziale può trasformarsi in una valanga… di creatività, naturalmente!

    Mentre scrivo anche io devo tenere a freno la tentazione di cancellare tre righe su cinque perché… sono troppo complicate… No! Troppo semplici… No! Poco chiare! No! Insomma ci siamo capiti?! Se entriamo nella logica del giudizio rischiamo di inibire sul nascere ogni nostra espressione. Altro discorso vale per la nostra capacità di riflettere sulle cose che facciamo, per aggiustare il tiro e raggiungere meglio il risultato auspicato. Ma se ogni volta che proviamo a esprimerci, il nostro giudice interno scuote la testa, la nostra maratona rischia di fermarsi dopo i primi passi. Se ci pensiamo bene, la censura più ostile non sempre arriva dagli altri, dal mondo esterno, bensì il giudice più severo è nascosto al nostro interno. È lui che tende a selezionare opportunamente le informazioni che ci giocano contro in modo tale da confermare la sua ipotesi di partenza: il nostro valore è scarso o comunque non abbastanza adeguato. A cosa? A chi? Di solito alle nostre aspettative di partenza; quelle alle quali dovremmo adeguarci. Come? Essendo più belli, più bravi, più buoni… Quando ero bambina e tornavo a casa, magari con un bel voto, e tutta speranzosa correvo a dirlo ai miei genitori, l’immancabile risposta era: «Hai fatto la metà del tuo dovere». Ho passato metà della mia vita (più di vent’anni ormai!) a cercare l’altra metà. L’ho fatto affannosamente, senza accontentarmi e rilassarmi mai. È il mai la parola chiave, piuttosto che tutti gli avverbi che lo precedono. Anche se i termini sempre-mai, tutto-niente, dovrebbero essere aboliti dal nostro vocabolario, quando siamo nella posizione Censore mode ON l’assolutismo regna sovrano!

    I termini assoluti inibiscono le possibilità di cambiamento perché non permettono mediazioni e chiudono ogni possibilità di dialogo: «Sei sempre il solito», «Non cambierai mai», «Ho sbagliato tutto» sono formulazioni tipiche di chi usa il giudizio come forma di comunicazione e di pensiero precludendo a se stesso e all’altro una via d’uscita sulla trasformazione. Da un certo punto in poi ho capito che l’unico modo per evitare che il giudizio avesse la meglio su tutto il resto era provare a farci amicizia evitando che mi tiranneggiasse troppo. Com’è un censore amico? È uno di cui conosci il carattere, i rischi e anche le fragilità. Il senso di inadeguatezza che alimenta il censore può essere anche uno sprone importante. In una certa misura (come per il sale QB: quanto basta) può spingerci a migliorare e a raggiungere traguardi importanti. È necessario che non sia il solista del nostro coro interno, ma una delle tante voci che accompagnano il nostro agire: la voce che ci sostiene, quella che ci spinge a osare, quella che si diverte a esplorare e non demonizza ogni errore… in questo coro il giudice può fare da guardalinee segnalandoci quando rischiamo di superare il confine da noi stesso assegnatoci. In tal caso il censore può svolgere una funzione positiva perché ci aiuta a equilibrare le nostre azioni riallineandole alle nostre intenzioni.

    Un consiglio? La prossima volta che qualcuno pronuncia la fatidica frase: «Hai fatto la metà del tuo dovere», allontanatevi a grandi passi rispondendo con un sorriso: «Corro a cercare l’altra metà!».

    4. Saltare gli ostacoli con pre-visioni

    Giudicate un uomo dalle sue domande

    più che dalle sue risposte.

    VOLTAIRE

    «Senti il bisogno di piacere e di essere ammirato, ma allo stesso tempo hai la tendenza a essere troppo autocritico. Il tuo carattere presenta alcune debolezze, ma in genere sei capace di compensarle. Hai delle notevoli potenzialità che non hai ancora sfruttato a tuo vantaggio. Nonostante esteriormente mostri disciplina e autocontrollo, dentro di te tendi a essere inquieto e insicuro. A volte ti chiedi seriamente se hai fatto la scelta o la cosa giusta. Preferisci i cambiamenti e la varietà e sei insoddisfatto quando ti senti costretto e limitato. Ti dichiari orgoglioso di essere un libero pensatore, e non accetti le idee degli altri finché non ti vengono portate prove sufficienti in loro favore. Hai scoperto che non è intelligente rivelarsi troppo agli altri. A volte sei estroverso, affabile e socievole, mentre altre volte sei introverso, chiuso e riservato. Alcune tue aspirazioni sembrano irrealizzabili».

    Bene. Ora che hai terminato di leggere, valuta quanto questo profilo ti somiglia utilizzando la seguente scala di valutazione: moltissimo (5), molto (4), abbastanza (3), poco (2), niente (1).

    Nel 1948 per la prima volta, un campione di studenti universitari fu coinvolto in un esperimento di massa. Ai partecipanti veniva somministrato un test di personalità e gli veniva poi fornito un profilo facendogli credere che fosse il risultato emerso delle loro risposte. Ognuno credeva di aver ricevuto un profilo personalizzato, ma in realtà veniva dato a tutti lo stesso testo! (Il testo che leggiamo all’inizio del paragrafo). Quando gli veniva chiesto in che misura la descrizione emersa dal test corrispondesse a come loro fossero in realtà, la maggior parte del campione, valutando l’aderenza del risultato su una scala da 1 a 5, si riconosceva molto (punteggio 4) o, addirittura moltissimo (punteggio5). Cosa vuol dire? Che, nonostante la nostra universale aspirazione all’unicità siamo più simili di quanto pensiamo! Questa elementare verità, ben prima di noi cosiddetti esperti del settore (psicologi, psichiatri, psicoterapeuti e via psiando) l’hanno scoperta i maghi, gli astrologi e i venditori di prodotti che spaziano dai beni materiali alle idee (merce ben più delicata e pericolosa da trattare). L’effetto Forer, ideatore di questo esperimento, è in agguato a ogni angolo! B.R. Forer, psicologo sociale, ha dimostrato che gran parte delle persone tende a leggere il mondo e le cose che vengono dette/scritte in maniera autoreferenziale. Attraverso questa prova ha infatti dimostrato che ognuno di noi tende a adeguare la lettura della realtà alle proprie aspettative. Se ho compilato un test che mi darà una descrizione personalizzata di come sono, tenderò a leggere il risultato partendo da quella premessa. Non importa se alcune informazioni appariranno discordanti, tenderò a leggerle in modo tale che anche aspetti ambigui o contrastanti non mettano in discussione la premessa. Il profilo, tra l’altro, dice una cosa e il suo contrario. Infatti chi di noi non sente «il bisogno di essere ammirato»? Chi non è «a volte introverso e altre estroverso»? Se si vuole dar prova di capire chi si ha di fronte, spesso basta fare affermazioni sufficientemente generiche per fare in modo che l’altro ci si riveda come in uno specchio! Come mai? Credo che una possibile risposta risieda nel fatto che la lente attraverso la quale osserviamo e leggiamo il mondo non può prescindere dal modo in cui siamo fatti. Per questo semplice ma radicatissimo motivo (!) meno esploriamo, leggiamo, ci confrontiamo e apriamo la mente, più l’effetto specchio (anche se appannato) sarà forte e difficile da sradicare. In questo modo siamo più manipolabili e, in ultima analisi, creduloni. Ci piace pensare che chi abbiamo di fronte abbia capito qualcosa di noi… anzi, ci piace pensare che quel qualcuno abbia, più che capito, carpito aspetti a noi sconosciuti o che magari abbiamo dimenticato, e che ce li restituisca con lo scopo di aumentare la consapevolezza di ciò che siamo.

    In realtà, il mago di turno (indipendentemente dalla professione, l’approccio magico può essere utilizzato da chiunque) sta cercando di fare una mossa a effetto per guadagnare la nostra fiducia e renderci più manipolabili. Ciò allo scopo di aumentare la sua influenza su di noi. Il potere è un aspetto imprescindibile nelle relazioni, bisogna però capire come viene utilizzato e a quale scopo, e soprattutto se può vigere il principio di reciprocità. Prendiamo, a esempio, una relazione di tipo sentimentale: il potere è un elemento centrale, ma diventa gestibile se ognuno concede all’altro aree di prevalenza in cui riconosce e permette di esercitare una determinata influenza, altrimenti quell’esercizio può trasformarsi in un abuso di autorità! Nel marketing o nella vendita in generale, la legge dell’effetto Barnum (o Forer) serve ad aumentare l’influenza dell’uno sull’altro/altri, allo scopo di poter manipolare le loro scelte e inclinazioni favorendo la nascita di un pensiero conformista che tende a rinforzarsi sempre più con l’andare del tempo… Come difendersi da tutto ciò? Bella domanda! Un antidoto a questa narcotizzazione del pensiero, a mio avviso, può essere ricercato in alcuni modelli che, udite udite, risalgono alla nostra infanzia. In quel tempo eravamo certamente più ingenui, ma anche molto meno condizionati e quindi più liberi. I messaggi, subliminali e non, non avevano ancora avuto tempo per colonizzare le nostre coscienze e pur essendo noi alla ricerca di un rassicurante conformismo (del tipo: «Voglio anche io la Barbie perché ce l’hanno tutte le mie amiche!») se non volevamo indossare quel certo vestito in quella determinata mattina di novembre non c’era verso di farcelo indossare! Nemmeno con la promessa di quella Barbie tanto a lungo negata!

    Cercheremo insieme, perciò, dei modelli cari al mondo dell’infanzia, unico e colorato baluardo contro il conformismo che sempre più ci invade e tenta di manipolarci con la rassicurante promessa di sicurezze pagabili in comode rate mensili e destinate a scadere il più in fretta possibile per essere sostituite da altre che hanno vita ancor più breve. Altro giro altra corsa.

    5. «Usa la testa». Saper dire no, saper dire sì

    Pensare come i meno, parlare come i più.

    BALTASAR GRACIÁN

    Avete fatto caso che nella maggior parte delle pubblicità progresso o nei messaggi pubblicitari promossi dal Consiglio nazionale dei ministri come le campagne sulla sicurezza stradale, sull’uso e abuso delle bevande alcoliche e delle sostanze stupefacenti, sulla sessualità consapevole e sulla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, ricorrono le frasi: «Usa la testa», «Accendi il cervello» e cose simili? Perché? Abbiamo forse lasciato a casa pezzi di volontà, coscienza e libero arbitrio? Questi messaggi sono destinati per la gran parte a un pubblico di adolescenti e giovani poiché si presuppone che gli adulti non ne abbiano bisogno e che i bambini essendo ancora sotto l’egida dei genitori – presunti responsabili – siano protetti dai pericoli.

    Ma andando oltre la superficie del fenomeno potremmo fare delle scoperte interessanti. La pubblicità progresso tende a dare per scontato che ognuno di noi possa liberarsi dall’influenza dei messaggi esterni facendo ricorso alla propria autonomia di giudizio. La pubblicità commerciale, invece, dimostra esattamente il contrario! I comportamenti di acquisto degli adulti sono per quasi il 70% condizionati dai bambini. Esposti per un po’ di minuti – a volte ore – al giorno ai messaggi pubblicitari mandati in video durante cartoni animati o telefilm a loro diretti, i bambini sono sensibilizzati al possesso di particolari prodotti. La pressione commerciale esercitata su di loro da parte del messaggio pubblicitario si trasforma in pressione esercitata dal bambino sui propri genitori e alla fine il cerchio si chiude con l’acquisto del prodotto visto in televisione. Dei sensi di colpa per il tempo rubato ai bambini da parte del lavoro dei genitori sono pieni i manuali quindi non mi soffermo sull’argomento. Mi interessa di più analizzare e mettere in discussione la convinzione che noi adulti siamo più consapevoli e meno manipolabili di bambini e adolescenti. Non sono affatto certa che sia vero. L’ipocrisia che spinge la stessa società attraverso lo stesso media (la televisione) a proclamare: «Accendi il cervello», sperando che tua madre lo spenga il minuto seguente per comprarti l’ultimo cellulare in voga, è quantomeno sospetta e bizzarra! L’Occidente non conosce e non pratica il concetto di prevenzione e pertanto i messaggi sani arrivano nel momento in cui qualcuno, anzi molti, si sono persi per strada. Quando il tasso di incidenti stradali è diventato tra le prime cause di morte in età giovanile o la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili (come l’AIDS) genera una spesa sanitaria difficilmente sostenibile, arrivano messaggi tesi a prevenire l’aumento ulteriore del fenomeno. Un po’ come chiudere la stalla una volta scappati i buoi, avrebbe detto mia zia.

    È di questi giorni la notizia che lo Stato ha aumentato da 250 a 1000 euro la puntata che un giocatore può effettuare in una partita

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