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Il conte di La Ghirara
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E-book294 pagine4 ore

Il conte di La Ghirara

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“Il conte di La Ghirara“ è un libro nel quale Francesco Mariano Marchiò, con scorrevole prosa, racconta una sintesi quanto mai efficace della vita di un suo caro amico, di un qualcosa che non esiste più come quel sistema di vita immutato per secoli in cui tutto si svolgeva secondo un razionale uso delle risorse e del tempo. Fa una fotografia puntuale, precisa nei particolari che pare abbia secoli e invece risale solo ad alcune decine di anni fa, un racconto simpatico di una vita vissuta tra Genova e provincia e l’appennino tosco emiliano, nel quale assurgono a rango di personaggi persone comuni come quel tale che assomigliava a Badoglio, a quella che faceva la polenta con la farina di castagne, ad un parroco taccagno con i chierichetti.

Accanto alla vita spicciola vi è la narrazione di fatti importanti come la presenza delle truppe tedesche, la lotta partigiana, la lotta quotidiana per la vita.

Nel raccontare gli avvenimenti Marchiò esprime l’affetto sincero e profondo per i luoghi della sua giovinezza, fa trasparire inequivocabilmente la consapevole e coerente opinione su fatti storici, su debolezze e soprattutto su ipocrisie e trasformismi sia umani, sia della società, ma lo fa con rispetto per le diverse opinioni e sempre con l’apertura al confronto senza la pretesa di possedere la verità assoluta e di voler impartire insegnamenti.

“Il conte di La Ghirara“ è la sintesi, anche ironica, di una vita vissuta imparando ad apprezzare le piccole cose ed a saper trarre gioia dalla natura nelle sue varie espressioni, a vivere nel rispetto dei valori sui quali è basata la nostra cultura, a saper accettare gli avvenimenti e le varie epoche come il normale ed ineludibile passaggio del tempo.

Su questi valori si chiude il libro di Marchiò con l’invito a saper gioire delle cose che ci sono state date, alle quali spesso non prestiamo attenzione per poi pentircene quando ormai è troppo tardi.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2015
ISBN9788891188922
Il conte di La Ghirara

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    Il conte di La Ghirara - Francesco Mariano Marchiò

    28

    CAPITOLO 1

    Il mio caro amico Francesco venne alla luce il mattino del 14 Aprile del 33 a Genova, sotto il segno dell’Ariete. A dire il vero di luce doveva essercene poca, anzi senz’altro era quasi buio perché non erano ancora suonate le cinque: così gli disse la mamma anche se l’atto di nascita riportava le nove. Era il venerdì della settimana santa di un anno santo.

    Suo papà quel giorno era fuori città per lavoro e siccome all’anagrafe a denunciarne la nascita andò lui la settimana dopo Pasqua, è possibile che non sia stato preciso circa l’ora.

    Causa l’ora in cui gli capitò di dover nascere, le levatacce l’hanno sempre messo di malumore.

    E’ una persona come ce ne sono tante, né migliore, né peggiore di altre, ma convinto di possedere un valore intrinseco, di valere, di essere qualcuno!

    Nacque biondissimo e, nonostante pesasse quattro chili e mezzo, poverino, se lo dice da solo, di costituzione un po’ gracile, con dei piedi lunghissimi tanto che sua madre ricordava di aver sofferto più per partorirne i piedi che la testa.

    Fu registrato di razza ariana, poi, dopo la caduta del fascismo, gli dissero che apparteneva a quella caucasica, così senza che in lui fossero avvenute mutazioni genetiche. Crescendo s’irrobustì alquanto, i capelli persero il biondo e gli si colorarono di un bel castano scuro e la smisero anche di chiamarlo Pilli che a lui dava tanto fastidio.

    I primi anni abitò in casa della nonna Adele, dov’era nato, al di qua del ponte che immette in piazza Sarzano, a fianco dell’istituto Eugenia Ravasco dove aveva studiato sua madre. L’appartamento al sesto piano era senza ascensore, ma evitavano le scale entrando dalla strada che saliva alle spalle dell’ingresso principale nella via prospiciente il porto. Genova, tolta una piccola parte pianeggiante, è tutta salite e discese: a lui sono sempre sembrate più le salite!

    Una finestra purtroppo si apriva davanti alle arcate del ponte, se vogliamo un po’ soffocante, ma dall’altra parte l’abitazione dava su quella zona che per lui è sempre stata la più bella, la più viva, la più vera della città.

    Il porto gli offriva lo spettacolo fantastico di tanti colori: gru azzurre e gialle, chiglie color minio in contrasto col nero catrame delle linee di galleggiamento e navi che partivano e arrivavano continuamente e, per lunghi tratti, lasciavano scie di schiuma bianchissima che sembrava quasi fosforescente in un mare, quasi sempre, azzurro intenso e stormi di gabbiani reali le rincorrevano con voli intrecciati e sfioravano le onde mentre riempivano l’aria di gridi che a volte sembravano risate ed altre pianti a singhiozzo a seconda dell’umore di chi, in quel momento, l’ascoltava.

    Di sera, dopo che il tramonto aveva incendiato l’orizzonte e l’ultima fetta di arancione, sempre più piccola, finiva per sparire dietro a nuvole dagli orli dorati, tanti bastimenti si ancoravano in rada in attesa di poter ormeggiare in porto il mattino seguente: punteggiavano di luci il golfo come fossero isolotti con le luminarie accese per dei festeggiamenti particolari. La sua fantasia galoppava ancor più al suono delle sirene e quando la notte era scesa, rimaneva incantato ad ammirare il fascio di luce che la lanterna, a intermittenza, gettava sul mare a centoottanta gradi.

    I suoi erano genovesi, anche il nonno Cecco, all’anagrafe Francesco come lui, la nonna paterna di Cassinelle, un paesino dell’alto Monferrato. L’Adele, nonna da parte di madre, era nata a Riolunato, nell’appennino tosco-emiliano.

    Mariano, il nonno materno, alla sua nascita, era già morto da circa un anno in seguito ad una polmonite fulminante. A quei tempi la polmonite era la più comune causa di morte dopo la tubercolosi.

    Cecco era un bell’uomo nel vero senso della parola ed anche simpatico anche se, la simpatia è un fatto soggettivo: alto, capelli neri, occhi viola, aspetto imponente, era cantante lirico con voce da tenore drammatico. Il suo cavallo di battaglia era l’Otello, ma spesso interpretava Pagliacci, Cavalleria rusticana e La fanciulla dell’West. Possedeva ciò che i francesi, con una frase che esprime molto bene il significato, definiscono: Le fisyque du role e sapeva modulare la sua voce, piena e pulita, in maniera carezzevole o tagliente a seconda dei ruoli.

    A queste doti aggiungeva la fortuna di essere in mano ad un bravo impresario teatrale per cui era continuamente richiesto dai più importanti teatri quali il Carlo Felice di Genova, la Scala di Milano, il Metropolitan di New York, cantò una sola volta a La Fenice di Venezia perché, secondo lui,.gli portava male, forse ci aveva avuto scarsi applausi, comunque tornava sempre con gioia a calcare le scene del Chiabrera a Savona dove aveva mietuto i suoi primi successi.

    Per tanti anni abitò a Firenze città che amava ed alla quale si sentiva particolarmente legato. Nella parlata aveva inserito, pur senza volerlo, una debole inflessione toscana che davvero non gli stava male. Si era sposato a soli diciotto anni e gli ci volle il Nihil obstat della curia perché sua moglie, cioè la nonna di Francesco, ne aveva compiuto, da poco, solo quattordici.

    Ebbero quattro figli morti appena nati e subito ne misero al mondo altri quattro che nacquero con la stessa sequenza dei primi: un maschio, poi una femmina e di seguito altri due maschi e tutti ebbero gli stessi nomi che avevano dato ai primi: Bruno, Teresita, Mario e Alberto.

    Erano tutti belli.

    Al mio amico di nomi ne imposero quattro: Francesco in onore del nonno paterno, Mariano per ricordare il papà della mamma, Pilade perché era il nome del commendator Pilade Queirolo proprietario dei castelli Gualino di Sestri Levante, suo padrino di battesimo, all’epoca fidanzato della zia Teresita, sempre chiamata Tita. Come quarto nome gli fu imposto Giulio per rispetto alla nonna Giulia e meno male che la nonna materna si chiamava Adele e non riusciva bene commutare quel nome al maschile. Comunque, come ho già detto, da piccolo lo chiamavano Pilli poi quasi sempre Franco, qualche volta la mamma, quando era molto in buona, gli si rivolgeva chiamandolo Cecco.

    La famiglia di suo padre viveva nell’agiatezza: vita di società, sarti famosi, frequentazione di luoghi di villeggiatura alla moda, sempre in mezzo a bella gente, come si usa dire oggi, stazioni termali per la cura stagionale delle acque.

    I migliori sarti vestivano gratis il nonno purché dicesse da chi si serviva. Possedeva una delle prime automobili che guidava pochissimo perché quando per il suo lavoro doveva recarsi all’estero, si spostava in treno o in nave e quando tornava a Genova, la sera, amava scendere a piedi dalla sua abitazione di via Assarotti, in galleria Mazzini che, a quei tempi, era il salotto buono della città. Lì si ritrovavano artisti, cantanti e pittori! Salutava gli amici seduti ai tavolini dei bar con un acuto che riecheggiava per tutta la galleria: Buona sera amici miei e riceveva un caloroso applauso.

    Gli erano affidati anche incarichi diplomatici, per questo desiderava che la moglie imparasse un po’ di francese e di tedesco: le aveva trovato un insegnante di lingue che andava a domicilio, ma da quell’orecchio lei non ci sentiva. Non disdegnava la mondanità, ma preferiva la vita senza complicazioni e la sua lingua prediletta, benché piemontese, fu sempre il genovese.

    Questa impostazione spinse il nonno ad avvicinarsi a un’altra donna, forse di più ampie vedute o perché l’ambiente gliel’aveva messa al fianco, o tra i piedi e il risultato fu che si ritrovò, col passare del tempo, con due famiglie e, quando morì, ancora relativamente giovane, a sessantadue anni, al suo funerale piangevano due vedove: una ufficiale con i figli e l’altra, vissuta more uxorio, grazie a Dio senza prole, almeno così sembra.

    Aveva guadagnato cifre spropositate e lasciò agli eredi, nonostante la vita dispendiosa e l’altra donna che certamente non sarà rimasta indietro, diversi appartamenti in zone signorili di Milano e Livorno.

    A lui portava spesso i marrons glacées. Conserva ancora gelosamente suoi dischi d’opera incisi presso una casa discografica di Berlino, settantotto giri, un po’ rigati che, sotto la puntina del grammofono a manovella, frusciano parecchio e s’incantano anche.

    I genitori di sua madre invece erano artigiani: sarti per la precisione.

    Il nonno materno possedeva un casale con terreno dov’era nato, a San Mariano in provincia di Perugia, paese che la mamma ricordava con affetto essendoci stata a bàlia e ci aveva trascorsi i primi anni della sua fanciullezza. Raccontava con entusiasmo delle vendemmie e dell’uva pigiata a piedi nudi dentro ai tini e delle allegre feste nelle aie al suono delle fisarmoniche.

    Mariano era già stato sposato e aveva avuto due figlie. Per motivi che di preciso non è dato sapere, si era poi separato e stabilito a Genova dove lavorava come primo tagliatore in una grande sartoria di via XX Settembre. Sua nonna Adele aveva perso la mamma quando lei e le sue tre sorelle erano ancora molto giovani e il padre, rimasto vedovo, le aveva cresciute come meglio poteva, ma quando ebbero raggiunta la maggiore età, volle che ognuna si desse da fare per trovare un lavoro. L’Adele ricamava in maniera encomiabile, quasi artistica, tanto che una tovaglia da lei ricamata fece bella mostra per tanti anni sull’altare maggiore della chiesa del paese, ma dov’era nata, non c’era modo di guadagnarsi da vivere.

    Spedì alcuni ricami in visione a un istituto di suore che servivano Casa Reale: furono molto apprezzati e fu così che andò a lavorare a Genova dove conobbe e s’innamorò di Mariano, l’uomo della sua vita che le disse di essere sposato solo dopo parecchio tempo, quando era rimasta incinta.

    Ottenere dalla Sacra Rota l’annullamento di un matrimonio, allora era pressoché impossibile specie se c’erano dei figli e neppure civilmente poté regolarizzare la sua posizione perché il divorzio non esisteva proprio. Risultava separato legalmente.

    Fu il cruccio di sua nonna per tutta la vita e ancor più di sua mamma che, per la mentalità e le leggi del tempo, ne subì le pesanti conseguenze.

    Francesco non ha mai messo in dubbio la buona fede della nonna Adele quando gli diceva che se l’avesse saputo già sposato, non ci si sarebbe neppure fermata. Non che gliene importasse molto, ma non ebbe mai motivo di pensare diversamente.

    L’Adele era molto bella, alta più della media delle donne italiane, aveva i capelli color castano e gli occhi verde acqua marina: dicevano che somigliasse alla regina Elena, ma l’immagine che gli è rimasta più viva è di lei anziana con i capelli bianco argento e la crocchia sulla nuca, vestita di scuro e le pantofole di panno a collo alto con la chiusura a cerniera lampo; le scarpe se le infilava proprio se non poteva farne a meno perché tribolava sempre per un callo ribelle che le faceva vedere le stelle anche in pieno giorno, specie se era nuvolo o doveva cambiare il tempo.

    Aveva lo sguardo sereno: spesso e volentieri rideva. La ricorda molto bene nei minimi particolari.

    Pantofole a parte, per i lineamenti e per il modo di porgersi, aveva l’aria di una nobildonna e certamente deve aver sofferto molto per la situazione in cui era venuta a trovarsi!

    Per evitare che la nipote figurasse nei documenti come figlia di N.N. cioè di nessuno, come scrivevano una volta sulla carta d’identità, con un gesto affettuoso e di grande umanità per quei tempi, il fratello di Mariano, che non era sposato, ne assunse la paternità.

    Ancor oggi disapprova il comportamento di suo nonno materno, ma se le cose fossero andate diversamente, non avrebbe avuto quella nonna che tanto gli ha insegnato con grande affetto e semplicità. Per lei ha sempre provato un senso di pena specie quando gli viene da immaginarsela sola in una città sconosciuta e forse indifferente, lei che veniva da uno sperduto paesino di montagna. Le voleva davvero tanto bene e in fondo non se l’è mai sentita neppure di giudicare il nonno non sapendo cosa gli avesse riservato la precedente unione matrimoniale.

    Per sentito dire, era un gran lavoratore che dedicò il resto della sua vita alla nuova famiglia con amore, serietà e devozione, la mamma gli era affezionatissima tanto che, a distanza di anni dalla sua morte, quando ne parlava, le si inumidivano gli occhi .

    Con l’aiuto dell’Adele, che aveva lasciato il lavoro di ricamatrice per la sartoria da uomo, riuscì a mettersi in proprio: aprì bottega in grande in via di Porta Soprana e assunse diverse lavoranti.

    Oltre ai clienti privati, fornivano bordo: confezionavano le divise per marinai e ufficiali.

    Le navi in porto facevano soste brevi, a volte di soli tre giorni e, per essere puntuali nelle consegne, spesso lavoravano anche di notte. I clienti erano gratificanti e arrivavano spesso con regali: caffé, porcellane cinesi, caschi di banane e oggetti di paesi lontani.

    Di questa nonna ha conservato il ricordo meraviglioso del suo amore per le cose semplici ed essenziali, dell’oculata parsimonia, certamente frutto di precedenti esperienze di difficoltà finanziaria e di tanti piccoli particolari che, non per lui, ma per qualcuno potrebbero apparire insignificanti. Nei negozi, rispetto alle quantità desiderate, si esprimeva in termini oggi in disuso e così la sentiva chiedere una libbra di pane o un’oncia di noce moscata.

    In stradone Sant’Agostino s’incontrava con un frate cercone, un anziano francescano con una lunga barba più bianca che grigia che le dava il tabacco da fiutare; lo metteva in una specie di borsellino e, ogni tanto, con l’indice e il pollice, si portava alle narici un pizzico di quella polvere che la faceva starnutire e tossire a ripetizione e rideva di gusto e le venivano gli occhi rossi come ai conigli francesi.

    Diceva che faceva tanto bene al cervello e alle vie respiratorie!

    I genitori di Francesco si erano conosciuti tramite la Tita, sorella del padre, che era nella stessa compagnia di sua mamma quand’era ragazza.

    Formavano una bella coppia!

    Dopo poco che si erano fidanzati, a sua insaputa andarono in gita con l’auto del padre di lui che, per impegni di teatro si trovava fuori Genova. Sua madre non aveva la patente, ma volle guidare e il suo fidanzato non seppe dirle di no! Non fu mai chiaro se per lo scoppio di un pneumatico o più facilmente per imperizia, andarono a sbattere contro il fatidico palo della luce. A lei il volante si conficcò tra lo stomaco, il fegato ed il pancreas e fu ricoverata all’ospedale Galliera in fin di vita. Le somministrarono perfino l’Estrema Unzione ma, contrariamente a quanto i medici davano per scontato, ce la fece a non morire. Fu dimessa dopo tre mesi di degenza. L’operazione le comportò una cicatrice, attraverso la pancia, di ben settanta punti di quelli che davano una volta che sembravano dati da un materassaio.

    Sposandosi , avrebbero dovuto aspettare almeno due anni ad avere un figlio, così aveva sentenziato un medico, ma un altro, di diverso parere, aveva sostenuto trattarsi di teoria superata, che il nascituro avrebbe preso tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno e così, appena sposati, lei rimase incinta! Forse per questo Francesco nacque un po’ gracile.

    Bruno, suo padre, era stato ricoverato in un diverso ente ospedaliero, anzi in una clinica. Gli era andata meglio, ma aveva il braccio sinistro appeso al tronco per pochi brandelli di carne e tutti i legamenti compromessi.

    Il chirurgo aspettò ad operarlo che arrivassero notizie sulle condizioni economiche del ferito. Se non avessero assicurato che la famiglia del paziente era solvibile, il suo atto operatorio si sarebbe limitato all’amputazione del braccio, invece glielo salvò.

    Suo papà era capitano di lungo corso e Olga, la madre, maestra elementare, ma esternavano un certo livello culturale non tanto per i diplomi conseguiti, quanto per il bagaglio di nozioni che possedevano.

    Di caratteri diametralmente opposti, a periodi alterni, andavano in rotta di collisione, anzi erano più i periodi nei quali non andavano d’accordo che quelli in cui erano in armonia.

    Il babbo, così lo chiamava alla toscana, era un burbero dal cuore tenero, dotato, a modo suo, di un grande senso della famiglia ma, come un po’ tutti gli uomini della sua epoca, era maschilista nel senso che, anche se sposato, si sentiva autorizzato a fare i cavoli suoi e a togliersi i capricci che voleva e le donne le vedeva bene in casa tra pentole e fornelli, ma soprattutto in posizione orizzontale. Non lo diceva, ma lo si capiva dal suo modo di fare e per lui erano anche tutte non eccessivamente serie escludendo, s’intende, la madre, la sorella, forse anche la moglie e meno male che non aveva una figlia che gli sarebbe tanto piaciuto averla, ma, poverina, non avrebbe avuto nessuna libertà perché ne sarebbe stato geloso, inoltre giudicava la donna fragile e gli uomini doverosamente approfittatori.

    In casa spesso teneva un’espressione tra l’immusonito e l’incavolato e allora dicevano che il babbo quel giorno era nervoso e cercavano tutti, mamma compresa, di filar diritti per non dar adito ad inutili sequele. Dava un’immagine di se stesso alquanto diversa da come lo dipingeva la gente che, con meraviglia dei famigliari, lo consideravano una persona simpaticissima e brillante.

    Lo sprezzo del pericolo e, certamente l’amor di patria, lo avevano spinto a partire volontario per la prima guerra mondiale quando non aveva ancora compiuto diciotto anni. Fu anche ferito sulle Tofane, per cui gli venne concessa la croce al merito di guerra e durante la ritirata di Caporetto, nelle acque del Piave, si beccò la malaria da cui guarì in maniera davvero inconsueta. Nell’ospedaletto da campo con febbre altissima, tipica della malattia, per l’eccesiva sete, bevve il contenuto di una bottiglia che una crocerossina aveva dimenticato su di un ripiano accanto alla branda. Si era scolato mezzo litro di grappa bianca, lui che era astemio e può darsi che sia stata proprio la grappa a provocare quella reazione positiva.

    Francesco, al contrario, non disdegnava affatto di bere il vino, a tavola però doveva posizionare il bicchiere in modo che non ne arrivasse l’aroma a suo padre che non lo sopportava specie se rosso: solo la notte di San Silvestro brindava all’anno nuovo con lo champagne che non considerava vino!

    L’avversione alle bevande alcoliche gli era venuta, così diceva sua mamma, come conseguenza del fatto che, quando era di pochi mesi, per uno spavento, era rimasta senza latte e il piccolo Bruno piangeva disperato attaccandosi inutilmente al seno della madre. Per calmarlo lei riempì un biberon con acqua, zucchero e Barbera e lui bevve felice e contento e forse, aggiungeva lui, anche allegro!.

    E’ una di quelle storielle amene che periodicamente sentiva ripetere nelle riunioni di famiglia e si chiedeva perché in certe occasioni si facciano sempre gli stessi, buffi e strani racconti a carico dei genitori.

    Bruno, amava sinceramente la sua terra: ne amava la storia, la lingua, la gente e aveva trasmesso questi valori ai suoi fratelli più piccoli, ai figli e li condivideva con sua moglie.

    Era geloso dei ricordi, delle vecchie fotografie, degli oggetti raccolti nei viaggi all’estero, non strappò mai neppure alcune foto che lo ritraevano accanto ad un’egiziana della quale era stato innamorato. Per un periodo l’aveva seguita anche in Egitto.

    Era bravo a disegnare. Schizzava a china monumenti antichi, ma soprattutto scorci del centro storico di Genova.

    In un attimo fissava ritratti somigliantissimi di persone che neppure si accorgevano che le stava ritraendo, figure di cani, cavalli, i suoi animali preferiti, lo faceva anche al tavolino di un bar, su di un tovagliolo di carta o sul bordo del giornale di cui leggeva, quasi sempre, solo i titoli.

    Dietro la copertina di Sussi e Biribissi, libro che Francesco conserva gelosamente, aveva schizzato un bozzetto con un promontorio che ricorda quello di Portofino, il mare, una barchetta con la vela bianca, l’insenatura con la spiaggia e le case dei pescatori: la riproduzione di ciò che aveva dentro, l’ambiente che amava, parte di se stesso.

    Per ore la nonna gli raccontava del babbo da giovane. Non avrebbe mai immaginato che un tempo, quell’uomo tutto d’un pezzo, piuttosto appesantito nel fisico, privo di fronzoli e sovrastrutture, fosse stato vanitoso e ricercato nel vestire.

    Aveva vissuto anni a Livorno dove usciva Il becco giallo un giornale locale che riportava la cronaca della città. Tra le vecchie copie conservate ce n’era una con la caricatura del padre dove l’articolista lo canzonava per l’eccessiva ricercatezza e raffinatezza nel vestire e per la longilinea magrezza. Portava la bombetta, il gilet, la camicia con riportato il colletto alto inamidato e le ghette sopra le scarpe e a Cecco sembrava di vivere tempi lontani anni luce mentre invece stava semplicemente curiosando nella vita di suo padre.

    Succedeva non di rado che questi da giovane combinasse dei guai e, insofferente a prediche e raccomandazioni, per sfuggire le ire dei famigliari, si trasferiva in Versilia, ospite di sue conoscenze ma, se era estate, facilmente optava per andare a vivere in spiaggia, come un naufrago, in una capanna che costruiva con le sue mani con rami e foglie di palma trovati qua e là, fino a quando sua sorella Tita lo andava a cercare per riportarlo a casa.

    Con le donne ci sapeva fare: frequentava con loro gli alberghi dove suo padre era conosciuto e lasciava il conto a suo carico, sempre con la galanteria di far passare la ragazza di turno come moglie e lui, il tenore che godeva di stima e fiducia, pagava per evitare brutte figure.

    Era capitano di lungo corso, ma non cercava imbarchi, la sorella aveva l’abilitazione magistrale, ma non le piaceva insegnare, lo zio Mario, cadetto dell’Accademia Militare di Modena, non poteva assumere iniziative e suo zio Alberto, il più piccolo dei fratelli, geometra, si era sposato giovanissimo e non si decideva per il mondo del lavoro vero e proprio perché aveva l’ambizione di fare del cinema. Si era fatto confezionare un ricco guardaroba adatto alle circostanze del caso e si era stabilito a Torino dove frequentava, a spese del padre, il centro di cinematografia, all’epoca, più importante di quello di Cinecittà.

    Ce l’aveva fatta a interpretare qualche piccola parte in film di scarsa importanza. In Fradiavolo, che amici e parenti si fecero scrupolo di andare a vedere, apparve per un attimo con tanto di feluca in testa e una bardatura di non si sa quale armata. Esclamò: Messere, il cavallo è sellato, poi non lo si vide più per tutta la durata del film.

    La nonna non aveva voce in capitolo e il nonno era troppo assente per volersi e potersi imporre. Preso com’era dal lavoro che troppo spesso lo teneva lontano da casa, non aveva proprio

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